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Democrazia Futura. Draghi e Meloni: politici o tecnici?

Stefano Rolando

In un articolo “Draghi e Meloni: politici o tecnici[1]? Come la comunicazione distingue non tra una cosa o l’altra ma tra due modi diversi di far politica, tra istituzioni e partiti” Stefano Rolando si propone di confrontare l’approccio alla comunicazione dei due governi che si sono succeduti in Italia a fine 2022, quello guidato da Mario Draghi e quello guidato da Giorgia Meloni.

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Sulla diatriba governi tecnici o politici e sulla scoperta dell’America del “finalmente un governo politico”, ho ripreso il tema del rapporto con la comunicazione dei governi Draghi e Meloni nell’ipotesi che, con evidenti diversità, entrambi i governi vanno considerati “politici”.

Sto preparando l’ultima lezione del corso di Comunicazione pubblica dedicata a confrontare l’approccio alla comunicazione dei due governi che si sono succeduti in Italia a fine 2022, quello guidato da Mario Draghi e quello guidato da Giorgia Meloni. E ho pensato di parlarne un po’ qui oggi, con chi ha la pazienza di ascoltarmi.

Prima ancora di scalettare (cioè metter giù i punti sostanziali delle argomentazioni) mi assalgano piccoli pensieri preliminari. Che annoto all’inizio.

Il primo: per quanto il tema Meloni sia all’ordine del giorno e su tutti i media ora per ora, il tema Draghi pare più che derubricato, sradicato. Fin troppo. In gran parte per la coltivazione del silenzio dello stesso Draghi a partire dal suo congedo da Palazzo Chigi. E poi forse anche per il trending topic dei giornalisti che parlano solo dell’aria che tira.

Il secondo: parliamo di comunicazione, cioè di rapporto diretto con i cittadini, in larga parte intermediato da quella realtà cross-mediale che con parola antica si chiama “la stampa”; ma intendiamo in realtà soprattutto la natura intima, identitaria, quella che fa pensare e parlare, di due cose molto simili (cioè due governi con gli stessi compiti) ma in questo caso molto diversi (cioè con culture e comportamenti dissimili).

Il terzo: il terzo soggetto in campo, in ombra tutte le volte che si parla di un confronto, di una dialettica, di un paragone, è di pari importanza nelle valutazioni che si dovranno fare, perché – tra ciò che sappiamo dalla demoscopia, ciò che rivelano i dati elettorali, cioè che si percepisce con un po’ di nasometria – l’opinione del popolo italiano ha un ruolo decisivo nel consacrare giudizi e stereotipi.

Innanzi tutto vorrei dare in anteprima la notizia che, su questo approccio, sta per uscire un bel libro di uno specialista di media e comunicazione, che è Guido Barlozzetti, un mio amico orvietano che i media li ha studiati, nei media ha lavorato anche e molto in video (interpretando per anni un suo personaggio per qualcosa distinto dalla sua identità più profonda) e che su questo specifico argomento scrive in modo diverso dagli analisti accademici, cioè mettendo in campo non solo declinazioni analitiche ma anche tracce del sentiment percettivo della comunicazione di massa.

Il libro – che ho sbirciato in bozze – si intitola La meteora? Mario Draghi, anomalia di un’immagine, lo sta pubblicando Bertoni, e raccoglie ampliandole cose che Guido ha scritto su questa materia sulla rivista Democrazia Futura (cosa che ho fatto anch’io, lui nei giorni pari, io nei giorni dispari).

La parola con cui Draghi, in questo libro, è introdotto nel palcoscenico più turbolento della vita italiana è: apparizione. Perché, fin dall’inizio misurato con

“uno spropositato, ma non unanime, carico emotivo che lo accoglie, dato che attese e speranze tracimano da giornali e telegiornali, oltre che dalla società”.

Per capire come scrive e come si distingue da sociologi, semiologi e mediologi accademici, ecco come descrive la natura della apparizione:

“Lo vedremo scendere in campo con una Missione che gli  ha affidato un Mandante e un’investitura che gli viene da  un Donatore, con Aiutanti e, sempre più o meno evidenti,  Antagonisti, preso in una traiettoria che, con una semplificazione  che di per sé dà un senso, ricorda appunto quella di una Meteora,  di un corpo luminoso che attraversa e illumina il buio e a un  certo punto si spegne e scompare”.

E a proposito del suo punto interrogativo nel titolo, ammette di avere esitato, poi l’ha messo.

“Meteora, dunque, sono stato incerto se aggiungere un punto interrogativo che alla fine mi sono convinto di mettere. Visto infatti da una certa angolazione, Draghi può essere stato un inciampo, nell’ambiguità dell’espressione che può far pensare a una caduta rovinosa e, date le premesse, forse inevitabile, oppure a un sobbalzo che scuote e chiama a una nuova consapevolezza, aperta e sorprendente.  Una Meteora che lascia la coda della Cometa che non è stata, ma potrebbe ancora essere?”

Lascio a chi vorrà leggere questo libro il piacere della narrativa di scavo. Che limito solo ad introdurre. Ma questa introduzione (centrata sulla apparizione) ci permette di fare qualche passo in più sul tema assegnato, cioè il rapporto del governo Draghi e del governo Meloni con la comunicazione.

Perché parlando del governo uscito dalle urne del 25 settembre 2022, dopo lo scioglimento anticipato delle Camere, si dovrebbe parlare di “eruzione”, anzi a distanza di cinque mesi di “eruzione controllata”. Con un copione complesso di continuità e discontinuità che investe molte cose: il rapporto con il passato; il rapporto tra dinamica dei partiti e dinamica istituzionale; il rapporto con gli italiani intesi come il popolo del farsi invocato da Massimo D’Azeglio ma anche come la dinamica di quella disunità d’Italia per cui ci ritroviamo tante Italie quante sono in realtà le culture politiche e civili degli italiani stessi.

Proviamo a vedere brevemente questi punti. Dopo però una veloce sintesi di settant’anni di storia repubblicana. Nella quale i presidenti del Consiglio dei ministri italiani sono stati 31 (intesi non come mandati ma come figure umane).

Il primo – otto volte – fu Alcide De Gasperi, cattolico antifascista. L’ultima – per ora per cinque mesi – è Giorgia Meloni, militante della parte politica post-fascista che ha scalato nelle sue evoluzioni sia la sua parte politica, sia il suo gruppo dirigente maschilista, verso una trasformazione lei dice in senso “conservatore europeo” di quella parte.

Per quattordici volte la centralità democristiana è stata irreversibile. Poi ad inizio degli anni Ottanta per due volte la democrazia al tempo vincolata dalla guerra fredda ha consentito un’alternanza, con il repubblicano Giovanni Spadolini e con il socialista Bettino Craxi.

Poi sarà ancora la volta di quattro democristiani.

Poi, con l’avvio degli anni Novanta, saranno le turbolenze tra destra, sinistra e tecnici a promuovere una dinamica maggioritaria che vedrà partiti di centrosinistra e partiti di centro-destra disputarsi la guida del governo un po’ come nelle democrazie anglosassoni.

Fino agli anni recenti in cui entra in scena una maggioranza politica che rappresenta una maggioranza del Paese stesso che potremmo chiamare di svolta populista.

Il logoramento dei partiti

Una trasformazione che nel corso di un’intera legislatura porterà i partiti politici ad un logoramento fortissimo. E quindi anche ad altri vizi: l’autoreferenzialità, la mancanza di progettazione del futuro, una contraddittoria decisionalità, un prevalente orientamento costruito sul marketing elettorale. Questo sarà il clima di impasse che porterà il presidente della Repubblica a considerare senza soluzione l’emergenza– dunque una emergenza politica (non solo per la pandemia e altri problemi) e a produrre l’apparizione di Mario Draghi come transizione necessaria per governare le esigenze immediate ma anche per rilanciare l’interesse nazionale attorno alle transizioni ineludibili.

Draghi non farà un governo tecnico lasciando i partiti politici in ospedale. Metterà anzi i rappresentanti dei partiti politici che lo appoggiano e lo votano (tutti tranne Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni) a gestire i ministeri di cosiddetta amministrazione del presente (anche ministeri molto importanti), e mettendo tecnici a lui connessi a gestire le transizioni.

La sua narrativa rispetto ai partiti politici sarà di sollecitare velocità e decisionalità. Nessuna antipolitica. Ma la durata del governo sarà anche il tempo dato a una rigenerazione potenziale e possibile. Ovvero almeno di un cambiamento inevitabile pena altrimenti il perire come sistema.

Compiuto il primo ciclo di questa discontinuità – sottolineata da una sobrietà comunicativa a cui l’Italia non era più abituata, con preferenza per la comunicazione istituzionale esercitata negli ambiti previsti dalla Costituzione – ma anche da approfondimenti sulle scelte in sede di conferenze stampa programmate, il quadro dei partiti avvertirà nel suo complesso che il consenso raggiunto dal premier e una certa decisionalità ristabilita attorno alle esigenze maggiori, avrebbero potuto atrofizzare ulteriormente l’esistenza di partiti sterili ma anche poco cambiabili (cioè dominati da correnti per la gestione dei posti e da presentismo su ogni questione). Quindi hanno assecondato la crisi del governo Draghi, il confronto elettorale e naturalmente l’incognita del rispetto per l’esito delle urne.

Che è stato salutato, un po’ da tutti, come “il ritorno alla politica”.

L’esito è stato quello del successo elettorale e di modello della coalizione assunto dall’unico partito all’opposizione, relegando gli alleati a comprimari e portando una donna alla guida del governo.

In tempo due il secondo esito verrà dal principale partito di opposizione il PD che ribalterà il suo gruppo dirigente impostato sulla rigida organizzazione interna delle correnti a una trasformazione generazionale e di genere (per simmetria una donna anch’essa giovane), un rimescolamento delle correnti e l’opzione per far contare non solo i militanti ma anche gli elettori.

In breve, FdI della Meloni e PD della Schlein hanno polarizzato il dibattito politico e lo scenario di impostazione delle prossime elezioni, quelle europee del 2024.

Tirando un po’ la logica della storia, in un certo senso quel governo Draghi ha creato condizioni di cambiamento del quadro politico italiano che pareva caduto nella palude e lì rimasto immoto.

Nel libro di Guido Barlozzetti, queste le ultime parole del testo:

“Gli è stato rimproverato di essere un non-politico, di non conoscere le regole di quel mondo di addetti di cui è fatta la politica politicante. Che non sia un involontario complimento? O che non significhi non aver capito quanto sia ambiguo il confine tra la realtà e l’apparenza, tra l’essere e il dover essere, tra la politica che si giustifica per sé e i valori che dovrebbero ispirarla?”[2].

Quanto alla “eccessiva sobrietà” o alla “scarsa comunicazione” di Mario Draghi, rispetto a predecessori e successori, il direttore de Il Mulino Mario Ricciardi al momento della caduta del governo di unità nazionale ha così commentato:

“Consapevole della peculiarità del mandato ricevuto – e forse anche per inclinazione personale – Draghi scelse uno stile di comunicazione asciutto, che strideva con quello «espansivo» del suo predecessore, ma che per molti, incluso chi scrive, costituiva un salutare ritorno alla misura che dovrebbe caratterizzare il dialogo del capo dell’esecutivo con il Paese. Specie quando presiede un governo di unità nazionale. Sia nel dire sia nel non dire, Draghi trasmetteva un senso di consapevolezza della gravità del momento e della necessità di agire con fermezza. Anche quando ci fu qualche infelicità, essa venne ben tollerata dall’opinione pubblica, che nel complesso sembrava apprezzare la prospettiva di un ritorno alla normalità, forse lento, ma finalmente accessibile”.

Fin qui dunque la trama.

Che ci aiuta ad argomentare i punti conclusivi sul confronto Draghi/Meloni in materia comunicativa.

Questa storia ci mette in evidenza che considerare l’esperienza Draghi “tecnica” e quella Meloni “politica” stressa concettualmente il termine politica ad essere inteso come appartenente esclusivamente all’ambito dei partiti.

Vero è il ruolo che la Costituzione riconosce ai partiti rispetto alla gestione della politica nazionale, ma vero anche che vi è una connotazione del far politica nell’interesse generale con prevalenza all’interno del quadro istituzionale, che non è fatto di indifferenza civile e di mancanza di opinione. Così come c’è una connotazione del far politica che si esercita con prevalente o comunque molto significativo carico nel riferirsi all’interesse di parte, ciò riguardo a decisioni da assumere, a scelte di classe dirigente da compiere, a narrative di continuo accompagnamento. Questa distinzione è applicabile, a mio avviso ai caratteri dei governi Draghi e Meloni, segnalando che essi hanno fatto politica, entrambi, anche se in modo diverso.

La sequenza dei 31 nomi dei capi del governo (30 uomini e una donna) ci dice che, socialmente parlando, una parte consistente dei presidenti è stata espressione borghese con frequenti implicazioni professionali e intellettuali ovvero accademiche e un’altra parte non irrilevante di figure prevalentemente militanti senza (salvo quel giornalismo di partito che è variante della militanza) sostanziali radicamenti professionali e culturali , area in cui prevale – chiedo scusa per il carattere sommario della definizione –una certa radice sociale che potrebbe essere considerata piccolo-borghese.

Tanto Mario Draghi si colloca con una certa evidenza in una scia di figure che per formazione, cultura personale, esperienze fatte nel pubblico e nel privato è parte di quel primo profilo frequente tra i premier; quanto Giorgia Meloni si colloca nella scia dell’altra componente sociale, prima ancora di esaurire tutti i confronti tra destra, centro e sinistra.

Il carattere militante, lo spirito di riscossa di chi non è in partenza portatore di particolari privilegi, che tendenzialmente deve molto a sé stesso il talento di “scalare” il potere, alimenta la costruzione di una comunicazione assertiva, battagliera, che abbassa la soglia di complicanza del lessico e delle argomentazioni per essere in principio accolta dalla parte anche meno alfabetizzata della popolazione. Questa annotazione, che riguarda Giorgia Meloni, potrebbe anche essere individuata – con le distinzioni che vanno fatte – con premier abbastanza recenti come Matteo Renzi oppure – facendo ancora più distinzioni – con premier meno recenti come Bettino Craxi. Caso a sé, in tutta la metafora di un politico non politico che ha fatto delle sue televisioni il suo partito e altre anomalie, tuttavia parlando molto e in termini diciamo così spettacolari, va citato (come caso prolungato di vaudeville) Silvio Berlusconi.

Se si sceglie il paradigma della sobrietà, di un modo meno invasivo e pervasivo di commentare il proprio agire, in un certo senso di istituzionalità come canone delle narrazioni, si trovano figure recenti e meno recenti che tendono a loro volte ad assomigliarsi. Penso non solo a cosiddetti tecnici (ma in verità nel senso già riferito a Draghi e quindi anche molto capaci di incarnare opzioni civili e tratti politici) da Mario Monti a Paolo Gentiloni ovviamente a Giuliano Amato, per alcuni versi a Romano Prodi. Compreso Francesco Cossiga premier. Tralascio giudizi su molti premier assai più complessi (diciamo come Moro e Fanfani).

Non è difficile rispondere alla domanda: ma messi questi due sommari e forse imprecisi elenchi sotto gli occhi del popolo italiano, quale delle due squadre, in blocco, conquisterebbe oggi la maggioranza dei consensi? Meriterebbe di fare una controprova scientifica, ma azzardo a dire che la squadra dei “cantanti rock” vincerebbe sei a quattro se non sette a tre sulla squadra dei “cantanti confidenziali” (la dico così per non espormi a mugugni).

Per quanto riguarda l’evoluzione comunicativa di Giorgia Meloni – per dire in forma semplice quanto è già oggetto di lunghe analisi e molti dibattiti – è evidente che nel passaggio dai banchi storicamente occupati all’opposizione al più importante banco di governo la trasformazione è costante. Con elementi di ambiguità politica che vanno e tornano, con allusioni a suoi elettorati vecchi e nuovi che riaccendono polemiche, ma anche con una strategia narrativa di fondo che è stata così sinteticamente descritta da un analista che è anche fiancheggiatore della premier, cogliendo quella che può essere considerata una direttrice. Ha scritto Marcello Veneziani:

“Rispetto invece alla situazione interna, salvo qualche comizio per galvanizzare le “maestranze” e gli italiani, con qualche apericena identitario, la Meloni segue una linea di spoliticizzazione e di neutralizzazione dei conflitti. Non interviene dove si creano zone calde e radicalizzazioni bipolari”.

Ecco allora che, usando argomenti un po’ a sciabolate (ma non è qui il luogo di troppa meticolosità) sulla questione del confronto, potremmo concludere:


[1]Pubblicato dapprima sul magazine online il Mondo Nuovo, il 1  aprile 2023. Cf. https://www.ilmondonuovo.club/politici-o-tecnici/

[2] Guido Barlozzetti, La meteora? Mario Draghi, anomalia di un’immagine, Chiugiana di Corciano  (Perugia), Bertoni, 2023, p. xxx

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