Quirinale

Democrazia Futura. Danni collaterali o semplice riassetto del sistema politico?

di Roberto Amen, giornalista, scrittore e conduttore televisivo, già vicedirettore di Rai Parlamento |

Roberto Amen, giornalista, scrittore e conduttore televisivo, già vicedirettore di Rai Parlamento, propone una riflessione a caldo sui partiti e il sistema politico in generale dopo la rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella.

Roberto Amen
Roberto Amen

Roberto Amen scrive un “Commento a caldo dopo la rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella”, chiedendosi se la crisi interna agli schieramenti e ai singoli partiti, manifestatasi durante gli otto scrutini necessari, produrrà “Danni collaterali o [un] semplice riassetto del sistema politico?”.

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Come se di virus non ne avessimo abbastanza l’elezione del Presidente della Repubblica ne ha diffuso un altro che non aggredisce le vie respiratorie ma le già fragili difese dal qualunquismo e dall’antipolitica.

Quella cosa che si era fatta largo rumorosamente negli anni e che ha portato all’astensionismo, ma prima ancora tanti voti alla Lega e ai 5 stelle, ma anche a Fratelli d’Italia.

Va bene che la politica ha un antidoto tutto italiano che è la smemoratezza: quando si voterà nel 2023 questa brutta pagina sarà bella che dimenticata ma gli strascichi no, come il long covid, rimarranno e faranno aumentare ancora il disamore e l’ostilità, quindi l’astensionismo.

Uno dei veicoli di trasmissione di questo male si chiama imbarazzo.

Proprio quello che abbiamo provato tutti nelle lunghe ore di dirette televisive in cui il tempo della politica aveva assunto una dimensione ancor più frenetica. Nomi e profili avevano una vita brevissima e venivano bruciati nel giro di ore, se non di minuti.

Uno sperpero di donne e uomini mai visto, non già vittime di strategie politiche, ma di avventatezza, di sprovvedutezza, alimentate da un’informazione bulimica sempre alla ricerca di vittime sacrificali, sempre affamata di nomi. Quei nomi di cui il centrosinistra è stato avarissimo, mentre la Lega è stata fin troppo prodiga.

Una velocità che ha concesso poco tempo ai retroscenisti per descrivere le cicatrici provocate nelle schiere di esclusi prematuramente che non sono andati nemmeno alla prova del voto e quando racconteranno questa avventura saranno imbarazzati nel dire che erano stati candidati alla presidenza della Repubblica, sia pure per poche ore.

Nessuno ne ha descritto l’imbarazzo della delusione, il senso amaro di essere stati raggirati o semplicemente vittime di un attivismo dissennato.

Si è solo immaginato dai movimenti nervosi e frenetici, il disagio provato dalla Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, con il volto coperto dalla mascherina, nel ricevere le schede dal collega Roberto Fico con il suo nome, ad un ritmo talmente rarefatto da disilluderla: proprio lei, l’unica che ci avesse creduto. E poi, fatti i conti, dal verificare con amarezza che parte della sua maggioranza non l’aveva votata.

Quando una persona è candidata a qualcosa di più o meno importante, per qualche attimo è portata a crederci, a dispetto della realtà, a pensare che si possa verificare qualcosa di miracoloso che invece lo faccia trionfare.

Anche Pierferdinando Casini deve averci creduto, e a ragione. Forse già pregustava la conferma che quel passare da un partito all’altro non fosse servito solo per sopravvivere in parlamento, ma che addirittura lo avesse potuto portare al Colle. Un fulgido esempio di quanto il trasformismo possa essere una risorsa di quelle che portano lontano.

Poco sappiamo del disagio e dell’imbarazzo di quei candidati meno conosciuti come Andrea Riccardi, Elisabetta Belloni ed altri. 

L’esito di queste elezioni lascia le cose come erano, con Sergio Mattarella e Mario Draghi al loro posto. Solo che lo scenario rimane coperto dalla polvere e dai calcinacci prodotti dall’iter scriteriato e dilettantesco con cui si è arrivati alla non decisione.

I danni collaterali prodotti sull’assetto istituzionale e sul sistema elettorale dalla crisi del centrodestra

Non solo ne risente una classe politica già in crisi di credibilità ma anche l’assetto istituzionale esce male, tanto che il centrodestra chiede che il Presidente della Repubblica sia eletto direttamente dai cittadini e quindi si vada a quel presidenzialismo scartato dai padri costituenti che lo avevano ritenuto pericoloso.

Senza contare la messa in discussione dello stesso sistema elettorale che si vorrebbe o solo proporzionale o solo maggioritario. Tutte cose che comporterebbero riforme costituzionali che solo una larga maggioranza potrebbe realizzare. 

Se adesso come sempre succede, tutti (tranne Fratelli d’Italia) rivendicano la paternità del Mattarella bis, chi esce parecchio ammaccato è Matteo Salvini. Si è assunto il ruolo di king maker della trattativa, di facilitatore per conto di tutto il sistema dei partiti e si è mosso a modo suo, con un attivismo tanto sfrenato quanto inconcludente sempre con un occhio puntato sui media.  

La sua perdita di consenso e di credibilità lo porterà ad essere quella tessera del mosaico che quando viene spostata genera una trasformazione radicale degli schieramenti. Forse il fattore di una trasformazione che finirà per coinvolgere tutti i partiti.

Non sappiamo quanto consapevolmente potrebbe cambiare il centrodestra e di conseguenza la geografia dell’intero sistema, innescando la terza stagione leghista dopo quelle di Umberto Bossi e di Roberto Maroni. Completando l’inversione a 360 gradi del Carroccio per consegnarlo alla definitiva affermazione dell’ala governista che fa capo a Giancarlo Giorgetti e ai governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga. Una normalizzazione che lo stesso Umberto Bossi vive come un tradimento impensabile, ancora più grave e definitivo di ciò che è successo in questi anni.

A cascata verrebbe accelerata la tendenza all’avvicinamento con Forza Italia e all’allontanamento da Fratelli d’Italia, cosa che era già avvenuta con l’ingresso nel governo addirittura con il Pd.

Non è da escludere che in realtà l’obiettivo possa essere la conquista dell’elettorato berlusconiano e di qualche cespuglio di centro, quando l’ex cavaliere dovrà abbandonare il campo. Anche se allo stesso obiettivo punta anche Italia Viva.

Così il centro diventerà sempre più affollato e si dovranno fare i conti con presenze ingombranti come quelle di Matteo Renzi e Carlo Calenda, generazionalmente più attrattivi di Lorenzo Cesa e di Maurizio Lupi.

In quell’arcipelago di micropartiti tenuti in vita da una fedeltà berlusconiana forse ancora più tenace di quella interna a Forza Italia, che ha mostrato le sue crepe nel voto alla Casellati. Un episodio che deve aver fatto riflettere molto l’ex cavaliere con amarezza appena un poco minore ai conteggi che lo hanno indotto al ritiro della sua candidatura.

Quell’ambiente politico che dai confini e dall’identità un poco evanescenti sembra essere quindi il terreno di caccia promettente. 

L’immobilismo del centrosinistra e gli effetti sul campo largo della disgregazione dei pentastellati

In questo quadro in trasformazione è difficile immaginare come possa reagire il centrosinistra, sempre che abbia la forza di farlo. La crisi di immobilismo del Pd è forse il fattore più grave di tutto il sistema. Il cosiddetto fronte largo progressista stenta a coagularsi e a decollare e sembra tutto affidato alle esili gambe delle Agorà. Una sinistra stanca che risente di una inerzia attribuita alla perdita di quasi tutte le regioni storicamente rosse.

Una perdita grave poiché ha sempre rappresento il terreno di potere più congeniale, il suo habitat più naturale e la migliore palestra per formare la classe dirigente.  Tutti fattori che hanno impedito la modernizzazione del suo ruolo che non poteva solo essere quello della decomunistizzazione e dell’adesione alle logiche mercatistiche.

Ma si sarebbe dovuta avviare una gigantesca operazione per modernizzare una visione socialdemocratica della società che cogliesse il meglio delle eredità di Enrico Berlinguer e di Bettino Craxi la cui contrapposizione non ha giovato. Ma che si poteva storicizzare e quindi attualizzare intelligentemente attingendo a quella cultura di sinistra che sarà anche stata egemone ma era sicuramente la più fertile.   

Questa avitaminosi culturale e ideale rende difficile il dialogo con quella speculare dei 5 Stelle, al netto di tutte le analogie e origini comuni. Il processo di semplificazione e di banalizzazione della realtà, avviato dal grillismo, oltre a provocare la disgregazione del movimento, rende molto difficile l’incontro con la sinistra.

Lo spettro dell’astensionismo sul voto del 2023

A differenza di quel che si diceva del Centro, l’elettorato 5 Stelle rischia di essere inutilizzabile per il resto dei partiti, proprio per una naturale contiguità con l’astensionismo.

E forse sarà proprio l’astensionismo la conseguenza peggiore di questa incredibile ulteriore disfatta del sistema politico fra mediocrità, egoismi e assenza totale di creatività.

Non moriremo democristiani come si diceva un tempo, di certo rischiamo di finire astensionisti con gli effetti collaterali del vuoto depressivo.

A meno che non si faccia largo una generazione post partitica e post astensionistica, capace di rielaborare la prostrazione e lo sconforto in forza creativa. Gli indizi ci sono tutti.