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Democrazia Futura. Dalle direzioni di rete alle dieci direzioni dei generi, si rinnova il modello organizzativo interno Rai

Rai
Piero De Chiara

Piero De Chiara al momento della chiusura di questo fascicolo torna a poco più di tre mesi dalla sua approvazione su “Il rinnovamento del modello organizzativo interno alla Rai”, cercando di valutare i benefici del passaggio “Dalle direzioni di Rete alle dieci direzioni dei Generi. Per De Chiara “La moltiplicazione e ibridazione dei generi è uno dei fenomeni più rilevanti dell’attuale fase della industria dell’immaginario. La possibilità di raccogliere e incrociare dati puntuali di visione consente di esplorare comportamenti del pubblico e correlazioni che non possono essere sondate con rilevazioni campionarie e nazionali quali Auditel. Grazie all’uso di algoritmi su scala planetaria si possono utilizzare già migliaia di categorie di genere diversi “. In questo quadro “Visti i progressi dell’intelligenza artificiale e del riconoscimento facciale sarà ad esempio possibile incrociare riscontri puntuali e campionari, per misurare non solo gli ascolti a un livello molto più granulare, ma anche le emozioni, le correlazioni con decisioni di spesa e con orientamenti etici e politici, gli indicatori di precisione sui pubblici bersagli e quelli di coesione sociale”. De Chiara considera quindi “La risposta insufficiente della Rai di fronte alle sfide degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale”. Per l’autore “La discussione tra televisione di genere, di target o di flusso era forse appassionante trenta anni fa. La vittoria allora dei teorici della televisione di flusso, si è poi avvizzita con il declino dei grandi partiti politici e con la fine del sistema analogico. Il modello organizzativo per reti è sopravvissuto per inerzia solo in Italia; ogni tentativo di riforma è stato sventato, per logiche interne di autoconservazione, con il classico argomento che Giorgio Ruffolo e Luciano Cafagna chiamavano “benaltrismo”. Ogni volta le riforme necessarie erano ben altre”: Il risultato non è per De Chiara esaltante: “La Rai ha perso non solo la strada ma anche l’identità, la consapevolezza condivisa all’interno e all’esterno di una funzione nazionale. Ben venga quindi questa modifica organizzativa, per quanto piccola e tardiva, che non risolve i problemi di oggi, ma può aiutare a suscitare domande sugli obiettivi di un’impresa televisiva nazionale finanziata con risorse pubbliche. La nuova organizzazione avrà un senso se per ciascuna delle dieci nuove direzioni di genere sarà indicato un obiettivo misurabile con quello che nel linguaggio di impresa si chiama KPI, l’indice di perfomance chiave; se la ripartizione delle risorse sarà proporzionale ex ante alla difficoltà dell’obiettivo ed ex post al risultato raggiunto; se e dirigenti e dipendenti avranno una parte variabile del loro stipendio legata all’obiettivo”! Di qui De Chiara tenta una disamina degli “Obiettivi e Indici di performance chiave (KPI) da assegnare ad ogni singola direzione di genere” prima di invitare il nuovo vertice aziendale ad andare “Oltre il risanamento del bilancio della Rai. L’impegno per un indice di coesione sociale nell’epoca della calcolabilità della sfida nel mercato della comunicazione”. “La scala del confronto consiglia un’impresa europea; ma, finché non c’è – conclude De Chira – dobbiamo contare su un’impresa nazionale. Se non la Rai o quale altra?”

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“Se non si può misurare qualcosa, non si può migliorarla”
William Thomson Kelvin

Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato”
(cartello scritto a mano nello studio di Einstein all’università di Princeton).


Don’t look up è il primo film che in un solo mese (dicembre 2021) viene visto in tutto il mondo e diventa ovunque argomento di conversazione sulla politica, i media, la scienza.  Prodotto da Paramount per Netflix è un genere indefinibile tra satira politica e fantascienza catastrofica.

La moltiplicazione e ibridazione dei generi è uno dei fenomeni più rilevanti dell’attuale fase della industria dell’immaginario. La possibilità di raccogliere e incrociare dati puntuali di visione consente di esplorare comportamenti del pubblico e correlazioni che non possono essere sondate con rilevazioni campionarie e nazionali quali Auditel. Grazie all’uso di algoritmi su scala planetaria si possono utilizzare già migliaia di categorie di genere diversi.

Se ad esempio, nella vostra ricerca su Netflix, anziché il nome di un regista, di un attore o di un film , digitate il numero 6384 entrate nella categoria “Storie strappalacrime”; al numero 77232 ci sono i “Film di azione asiatici”, al 9875 i “Documentari sul crimine”, al 26 i “Falsi documentari” e via una lista sterminata e in continua crescita.

L’inserimento di ciascuna opera in una o più generi è spesso discutibile, ma l’algoritmo che ne è responsabile soddisfa la funzione obiettivo che gli stata dettata: ridurre il tempo di ricerca e aumentare la probabilità di visione. Obiettivo per ora raggiunto e grandi sviluppi sono attesi nel prossimo futuro.

Visti i progressi dell’intelligenza artificiale e del riconoscimento facciale sarà ad esempio possibile incrociare riscontri puntuali e campionari, per misurare non solo gli ascolti a un livello molto più granulare, ma anche le emozioni, le correlazioni con decisioni di spesa e con orientamenti etici e politici, gli indicatori di precisione sui pubblici bersagli e quelli di coesione sociale.

Quando? Questo passaggio inevitabile nel “modo di comunicazione nell’epoca della sua calcolabilità”, è un processo rapido nel quale sono state già imboccate molte strade irreversibili.

La risposta insufficiente della Rai di fronte alle sfide degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale

Di fronte a questa sfida, la decisione della Rai di passare dalle direzioni di rete a dieci direzioni di genere non è sbagliata, ma è insufficiente e non attuale.

La discussione tra televisione di genere, di target o di flusso era forse appassionante trenta anni fa. La vittoria allora dei teorici della televisione di flusso, si è poi avvizzita con il declino dei grandi partiti politici e con la fine del sistema analogico. Il modello organizzativo per reti è sopravvissuto per inerzia solo in Italia; ogni tentativo di riforma è stato sventato, per logiche interne di autoconservazione, con il classico argomento che Giorgio Ruffolo e Luciano Cafagna chiamavano “benaltrismo”. Ogni volta le riforme necessarie erano ben altre. Come nella barzelletta inglese quando il cittadino che si è perso in campagna chiede al contadino irlandese la strada per Londra e quello risponde: “per andare a Londra io non partirei da qui…”.

Ma da qualche parte occorre pur partire, quando una impresa perde la strada.

La Rai ha perso non solo la strada ma anche l’identità, la consapevolezza condivisa all’interno e all’esterno di una funzione nazionale.  Ben venga quindi questa modifica organizzativa, per quanto piccola e tardiva, che non risolve i problemi di oggi, ma può aiutare a suscitare domande sugli obiettivi di un’impresa televisiva nazionale finanziata con risorse pubbliche.

La nuova organizzazione avrà un senso se per ciascuna delle dieci nuove direzioni di genere sarà indicato un obiettivo misurabile con quello che nel linguaggio di impresa si chiama KPI, l’indice di perfomance chiave; se la ripartizione delle risorse sarà proporzionale ex ante alla difficoltà dell’obiettivo ed ex post al risultato raggiunto; se e dirigenti e dipendenti avranno una parte variabile del loro stipendio legata all’obiettivo.

Collegare i KPI alle risorse e ai premi non sempre ha funzionato nel settore pubblico, dove l’azionista è spesso incapace di formulare obiettivi misurabili. Ma oggi, di fronte a una impresa in evidente crisi di senso, è un passaggio necessario, uno shock utile per tutti. Innanzitutto per gli azionisti che sono, elencati in ordine di potere esercitabile: il Governo, il Parlamento e gli abbonati paganti, poco importa se in forma di canone, sovrapprezzo elettrico o contribuenti alla fiscalità generale.

 Che cosa vogliono gli azionisti e quanto sono disposti a pagarlo?

Questa discussione dovrebbe precedere e nutrire ogni rinnovo del contratto di servizio. In realtà ricordo una sola occasione in cui la discussione si fece sul serio, quando si decise il finanziamento pubblico più basso tra i grandi paesi europei, destinato per metà a Rai 1 appannaggio del principale partito di maggioranza, un quarto a Rai 2 per lo junior partner, poco meno per Rai 3 appannaggio dell’opposizione. In quella occasione si decise anche un cervellotico regime di affollamenti pubblicitari per portare le risorse complessive dell’azienda a un livello un minimo superiore a quello del principale concorrente privato, che avrebbe quindi distribuito le sue risorse a specchio.  Per un breve periodo questo impianto sembrò persino funzionare dando vita a una stagione televisiva povera ma vivace.

Il modello organizzativo per generi scardina finalmente questo modello che è diventato da tempo insensato e insostenibile. Per fare che cosa? Gli azionisti non possono sottrarsi a questa domanda; la risposta non può essere solo la tenuta del bilancio. Destinare risorse pubbliche senza definire obiettivi quantificabili, configura un reato di danno erariale.

La sede per la definizione degli obiettivi e degli indici di misurazione dovrebbe essere il contratto di servizio con lo Stato azionista. Ma se anche questa volta il Governo non saprà esprimere niente di più che ottativi vaghi e non misurabili, è interesse dell’azienda definire autonomamente gli obiettivi e legare le risorse assegnate al raggiungimento dei risultati.

Alle aziende pubbliche conviene essere misurabili, perché questo è l’unico modo per rintuzzare lo stillicidio delle interferenze partitiche sulla gestione aziendale; è l’argomento per consolidare il contributo di denaro pubblico; è lo strumento per governare le dinamiche di carriera, che oggi assorbono gran parte delle energie interne e esterne

Obiettivi e Indici di performance chiave (KPI) da assegnare ad ogni singola direzione di genere

Proviamo quindi a immaginare quale potrebbero essere obiettivi e KPI per ciascuna delle direzioni di genere. Per iniziare scelgo volutamente esempi freddi e maneggiabili con l’attuale disponibilità di dati e algoritmi; in un prossimo futuro si misurare anche obiettivi comportamentali ed emozionali caldi, ma si tratta di una materia acerba e molto delicata. 

Cominciamo dalle direzioni Cinema e Fiction. Sarebbe stato meglio superare questa distinzione, come evidentemente sta facendo l’industria audiovisiva mondiale. Tenendole distinte la Rai rischia lato cinema di finanziare film per le sale (compito, semmai, ministeriale), lato serie tv di misurare solo ascolti di prime time funzionali alla pubblicità. Invece l’obiettivo che un paese delle nostre dimensioni deve assegnare al suo servizio pubblico è quello di salvaguardare e se possibile rafforzare la partecipazione del nostro lavoro creativo al racconto sceneggiato mondiale. Per il soft power delle nazioni è decisivo conquistare spazio nell’immaginario mondiale, del quale film e serie tv sono l’agente più importante. Nonostante alcuni effimeri ritorni di moda dell’Italia, export e audience internazionale crescono meno non solo rispetto all’America, ma anche a paesi comparabili quali Gran Bretagna, Germania, Spagna, Corea, Turchia. Negli ultimi anni la maggior parte dei migliori produttori italiani sono stati acquistati da multinazionali straniere ed è ormai difficile definire un’ “opera italiana”. Oggi si può però per ciascuna opera misurare il lavoro creativo che paga le tasse in Italia e moltiplicarlo per le ore viste su scala globale. Ecco un algoritmo di servizio pubblico neanche tanto complicato, un esempio di KPI che giustifica l’impiego di risorse pubbliche crescenti.

In parte diverso è il caso delle direzioni Cultura educational e di quella Documentari. Nell’attuale contesto mediale prodotti culturali e quelli educativi hanno preso strade diverse e devono avere obiettivi diversi. L’educational si svolge quasi esclusivamente on line, in rapporto con le università o con le star delle scienze che animano i corsi di Coursera e i TED talks con miliardi di visualizzazioni in tutto il mondo. L’impresa televisiva pubblica può essere un partner decisivo per inserire gli scienziati e formatori italiani in questi e altri circuiti. Invece per teatro, opera, balletto e per i documentari storia e natura, le metriche che meglio si prestano sono le visualizzazioni e le citazioni, dal momento che sempre più spesso queste opere vengono decostruite e ricomposte in altri contenitori. Peraltro proprio un mercato delle citazioni equilibrato consente al pubblico nazionale di accedere anche ai prodotti internazionali di maggiore qualità.

Anche la direzione Kids si muove in un contesto globale, che sarà dominato sicuramente da Disney+ e poche altre piattaforme a pagamento. L’interesse nazionale è duplice: da un lato, come per cinema e fiction, aiutare i creativi italiani a diventare fornitori anche di queste piattaforme, perché il soft power vale doppio se rivolto ai giovanissimi; dall’altro garantire ai bambini italiani che non possono accedere alle piattaforme a pagamento di avere offerta gratuita di qualità.

Ancor più difficile è la missione della direzione Sport. Il prodotto più prezioso è stato conquistato dalle piattaforme private satellitari o streaming, a prezzi inarrivabili per i servizi pubblici. Il grande calcio per club e gli sport per ricchi, quali tennis, golf, vela e motori, hanno prezzi improponibili per un servizio pubblico gratuito e con affollamenti pubblicitari ridotti. L’offerta dei servizi pubblici può concentrarsi su alcune direttrici riconoscibili: la prima sono gli eventi sportivi che unificano la passione del paese, quali le partite ufficiali di tutte le nazionali (non solo calcio) e le Olimpiadi. Non è una partita facile e poco costosa. Per tutti gli anni venti le Olimpiadi sono nelle mani di Discovery che ha dimostrato di voler condividere con le televisioni in chiaro solo un numero limitato di eventi.  Ci sono poi sport popolari sottostimati dagli sponsor, quali il ciclismo, la pallavolo e altri. Ovviamente non spetta al Contratto di servizio di stabilire su quali sport puntare e quanto; deve però indicare l’obiettivo di un’offerta che favorisca la coesione sociale. L’indice di coesione sociale è un KPI già sperimentato, sul quale tornerò alla fine di questo scritto.

La direzione Approfondimento è quella che ha suscitato la maggiore attenzione di politici e giornalisti. Ma come è possibile coordinare i conduttori dei diversi talk show, ciascuno dei quali ha tentato di costruire un rapporto con il suo pubblico? Proprio questo è il problema che un Indice di perdormance chiave (KPI) di servizio pubblico dovrebbe misurare e aiutare a risolvere. Il pluralismo non è tante voci, a ciascuno la sua preferita. Si tratta di misurare non l’indice di fedeltà a un programma, ma al contrario, la mobilità degli spettatori da un programma all’altro. Questo indice non è stato ancora inventato, ma lo si può ricavare rovesciando i grafi che, dal 2016 in poi (l’anno della Brexit e della vittoria di Donald Trump), misurano il fenomeno di creazione delle bolle e camere d’eco che hanno intrappolato gli utenti della tv e delle piattaforme.

Non ho invece capito il senso della direzione Contenuti Rai play. Pensare i contenuti per canali di distribuzione, sia questo Rai 1, un canale satellitare o la piattaforma on line societaria, è proprio la trappola da cui la nuova organizzazione dovrebbe aiutare a uscire.

Termino quindi con le direzioni Intrattenimento e Intrattenimento Day time. Ripartire l’intrattenimento per orario di prima trasmissione lineare può apparire stravagante; in realtà si fonda sul cervellotico regime di affollamenti pubblicitari della Rai, che spinge l’azienda a caricare di pubblicità le fasce di maggiore ascolto a scapito di tutte le altre. Il recepimento della direttiva SMAV modifica di poco (in peggio) una situazione che risale alla legge Mammì. La Rai quindi è quindi spinta a investire nell’intrattenimento serale più di qualsiasi impresa televisiva pubblica o privata europea e a intrattenere con programmi low cost gli spettatori del mattino e del pomeriggio. A normativa vigente purtroppo l’intrattenimento Day time non può avere quindi altro obiettivo misurabile che il rapporto tra costi direttamente attribuibili e ascolti; mentre per l’Intrattenimento Prime time il principale KPI sarà il rapporto tra i costi e i ricavi pubblicitari. Indicatori che possono sembrare banali, ma senza il quali è impossibile la chiusura di qualsiasi bilancio.

Oltre il risanamento del bilancio della Rai. L’impegno per un indice di coesione sociale nell’epoca della calcolabilità della sfida nel mercato della comunicazione

Gli obiettivi per ciascuna direzione sopra abbozzati (o altri obiettivi misurabili) possono essere inseriti nel Contratto di servizio; se ciò non avverrà possono essere stabiliti dal vertice aziendale per governare destinazione delle risorse e premi. Circa metà del premio deve però essere correlato non all’obiettivo direzione ma a quello aziendale, che non può essere autoassegnato, ma deve essere imposto dal Contratto di servizio. Tra i tanti punti inevasi del Contratto vigente c’è l’impegno a studiare e proporre un Indice di coesione sociale. La Rai ha sporadicamente sperimentato con risultati a mio avviso convincenti un indice impostato dallo Studio Frasi, che misura la capacità di ciascun programma di produrre ascolti provenienti da varie fasce sociali, culturali e generazionali;  di creare cioè una condivisione di emozioni e informazioni che ribilanci la tendenza dei privati a creare target pubblicitari separati.

Se la Rai accetta la sfida della comunicazione nell’epoca della sua calcolabilità, produce anche una esternalità positiva per vari attori. Nessun produttore, regista, tecnico audiovideo italiano ha la forza per negoziare con le grandi piattaforme l’accesso ai dati. È un gioco duro che una impresa pubblica deve fare per tutti.

La scala del confronto consiglia un’impresa europea; ma, finché non c’è, dobbiamo contare su un’impresa nazionale. Se non la Rai o quale altra?

La prima mossa spetta al Governo, altrimenti qualsiasi riorganizzazione rischia di diventare una classica ammuina e gli amministratori, nella migliore delle ipotesi, saneranno il bilancio e salveranno un po’ di posti di lavoro.

Ma può essere solo questa la missione delle imprese pubbliche?

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