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Democrazia Futura. Cile: una costituzione piena di incognite, anche per noi europei

Giulio Ferlazzo Ciano

La sconfitta referendaria del progetto costituzionale appoggiato dal giovane presidente cileno Gabriel Boric mostra i limiti delle generazioni più giovani al potere. Questa la tesi sostenuta da Giulio Ferlazzo Ciano nell’articolo “Cile: una costituzione piena di incognite, anche per noi europei” in cui – dopo aver ripercorso la carriera politica di Boric – analizza dettagliatamente il progetto costituzionale bocciato dai cileni, giudicandolo troppo attento agli imperativi del politicamente corretto e delle tematiche sulla diversità di genere, a scapito delle questioni sociali al centro delle preoccupazioni della società cilena.

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Buone, anzi ottime notizie dalla fine del mondo, almeno stando alla geografia bergogliana: si parla infatti del Cile e non dell’Apocalisse, nucleare o climatica che sia.

Era il mese di ottobre del 2019 quando una protesta nata sulla scorta delle tensioni sociali prodotte dal combinato disposto di diseguaglianze economiche e aumento del costo della vita, e iniziata con le classiche modalità di un tumulto popolare, prendendo a pretesto l’aumento delle tariffe del sistema di trasporto pubblico urbano, dilagò dalla capitale Santiago al resto della nazione, in un crescendo di violenza fra le forze dell’ordine e i manifestanti.

Buone notizie perché questo genere di rivolte spontanee possono avviare un processo di avvitamento con esiti nefasti per la tenuta delle istituzioni democratiche di qualsiasi Paese, tanto più gravi se il Paese turbato dalle sollevazioni non gode di ben radicate tradizioni liberali, come è giustappunto il caso del Cile. E invece l’esito nefasto non c’è stato, sebbene le proteste fossero proseguite fino al mese di marzo 2020.

Certo non sono mancati i danni a proprietà pubbliche e private e ancor più le vittime: una trentina di morti e quasi duemila feriti da arma da fuoco, in parte anche, almeno stando ad Amnesty International, per l’abuso della forza da parte dei Carabineros. Poteva tuttavia avvenire l’irreparabile e invece quel Paese ha offerto al mondo una prova di tenuta istituzionale degna di lode.

Un caso esemplare di ricomposizione dei conflitti all’interno di una cornice istituzionale

Al di là del Covid-19, forse il maggiore alleato del presidente conservatore Sebastián Piñera e del suo ministro dell’Interno e della Pubblica Sicurezza Andrés Chadwick, in grado da solo di porre fine alle violenze ancor più della macchina repressiva e della dichiarazione dello stato d’emergenza e d’eccezione, a salvare la situazione è stato anche l’atteggiamento pragmatico dello stesso presidente Piñera. Ne è venuto fuori un esperimento ben riuscito di ricomposizione di un grave conflitto sociale che in Cile sarebbe forse potuto sfociare in un ritorno allo spirito repressivo del 1973 o all’instaurazione di un regime demagogico-populista su modello chavista.

Onore al merito dei protagonisti di quelle vicende, prima di tutto per non essersi lasciati strumentalizzare da forze esterne al Paese che soffiavano sul fuoco. Onore all’ex presidente cileno, che ha compreso come l’arte della politica consista nel compromesso e onore alle forze antisistema che hanno compreso che dallo sfascio di quello stesso sistema che contestavano non sarebbe potuto emergere nulla di buono.

La sera del 22 ottobre 2019, a distanza di sedici giorni dall’inizio delle proteste, Piñera aprì la strada al compromesso, ammettendo di non aver saputo ravvisare i segnali del disagio che covava fra la popolazione, riconoscendo inoltre la legittimità delle richieste dei cittadini e tendendo loro la mano con una lista di propositi definiti Nueva Agenda Social.

Ciò non significò naturalmente la fine delle violenze, che anzi vissero una fase di recrudescenza, ma l’inizio di un dialogo sottotraccia con le forze di opposizione rappresentate da quattordici partiti politici. Questi accettarono di mediare un compromesso con la presidenza conservatrice sulla base di un progetto di riscrittura della costituzione, un obiettivo perseguito per anni dalle forze progressiste, almeno a parole, e mai realizzato, sebbene la carta costituzionale del 1980, prodotto giuridico del regime militare del generale Augusto Pinochet, pur emendata dopo il ritorno alla liberaldemocrazia, fosse ormai già da tempo inadatta a gestire la domanda di cambiamento che proveniva dal basso.

Pertanto, dopo la dichiarazione del 12 novembre 2019 con cui Sebastián Piñera rilanciava tale progetto di riscrittura, si arrivò tre giorni dopo anche all’accordo fra i principali partiti di opposizione. In calce al documento definito Acuerdo por la paz social y la Nueva Constitución c’era, tra le altre, anche la firma di Gabriel Boric, deputato di Convergencia Social, il partito che egli stesso aveva contribuito a fondare nel 2018 attraverso la fusione di due forze radical progressiste, il Movimiento Autonomista e Izquierda Libertaria. Tempo dopo, l’11 marzo 2022, Boric si sarebbe installato al palazzo della Moneda come trentasettesimo presidente eletto della Repubblica del Cile, il più giovane di sempre, essendo nato nel 1986.

Un destino presidenziale: entra in scena Gabriel Boric

Per gli appassionati di storie familiari quella di Boric è degna di un racconto dello scrittore Francisco Coloane[1], se non altro per la provenienza di questo giovane e brillante uomo politico, nativo di Punta Arenas, principale centro urbano della Patagonia cilena posto sulle rive dello stretto di Magellano e capoluogo della regione di Magallanes y Antártica Chilena. La città, fondata solo nel 1848, fu presto popolata da coloni europei, soprattutto da immigrati provenienti da una regione dell’allora Impero austriaco: la Dalmazia[2].

Ad ogni modo il nostro, per esteso Gabriel Boric Font, nato da padre ingegnere chimico petrolifero e militante del PDC (Partito Democratico Cristiano) e da madre con radici catalane, studiò in un collegio privato britannico di Punta Arenas e nel 2004 si trasferì a Santiago per intraprendere gli studi universitari alla facoltà di Diritto dell’Università del Cile, il più antico ateneo pubblico del Paese. Iniziò presto a dedicarsi all’attività politica, peraltro sacrificando in parte la sua carriera universitaria, per cui nel 2009 terminò i corsi di studio ma non riuscì a passare l’esame finale nel 2011, rinunciando di fatto a laurearsi e a diventare avvocato.

In quello stesso anno tuttavia ebbe modo di assurgere agli onori della cronaca. Giunsero infatti anche in Europa gli echi del movimento studentesco cileno che si batteva con scioperi e manifestazioni per la gratuità degli studi superiori e universitari, criticando duramente la legislazione liberista in materia ereditata dalla giunta Pinochet che né la precedente presidenza della socialista Michelle Bachelet (2006-2010) e men che meno l’allora prima presidenza conservatrice di Sebastián Piñera (2010-2014) avevano potuto o voluto modificare.

Si rivendicava pertanto il diritto per tutti i giovani cileni ad accedere a una formazione universitaria in base al merito individuale e non al reddito familiare. In queste circostanze Boric riuscì con la sua prima creatura politica, Creando Izquierda, a scalare il vertice della Federazione degli Studenti dell’Università del Cile (FECh) e nel dicembre 2011 prevalse addirittura sulla candidata alla rielezione, la popolare leader delle Juventudes Comunistas de Chile Camila Vallejo, ben nota all’epoca anche sulla stampa italiana.

Dall’università al parlamento il passo fu ancor più breve.

Dopo essersi stancato di arringare gli studenti della FECh, nel 2013 Boric si candidò alle elezioni parlamentari come candidato indipendente nel collegio della sua regione natale, venendo eletto malgrado non avesse aderito ad alcun patto elettorale con i principali partiti, il cosiddetto sistema binominal. Si dimostrava così essere un abile candidato di rottura. Dal 2014 fu organico in diverse commissioni parlamentari permanenti (per i Diritti umani e i Pueblos Originarios; per le Zone estreme e l’Antartide cileno; per il Lavoro e la Sicurezza sociale; per la Costituzione, la Legislazione, la Giustizia e il Regolamento).

Ma il grande appuntamento con la Storia giunse per Boric nell’ottobre 2019, quando scoppiò la rivolta popolare a Santiago. Dapprima si fece vedere con i dimostranti nella vasta plaza Italia, dove si tenevano le principali manifestazioni di protesta, per respingere le forze dell’ordine giunte a reprimerle. Alla fine di quel mese rifiutò di accettare il dialogo con il governo sulla base della Nueva Agenda Social, tuttavia dopo qualche settimana prese a partecipare ai lavori parlamentari per sostenere il negoziato che avrebbe dovuto portare all’accordo per la riscrittura della costituzione. Come si è già accennato, il 15 novembre 2019 appose la sua firma al documento di Acuerdo por la paz social y la Nueva Constitución, rappresentando a titolo personale la posizione di Convergencia Social (CS) in aperta rottura con l’atteggiamento di rifiuto al dialogo incarnato invece dalla coalizione del Frente Amplio al cui interno stava la stessa CS.

Da giovane politico brillante qual è, Boric non ebbe difficoltà ad avere ragione del dissenso interno riuscendo in seguito a riprendere la guida del Frente Amplio e a candidarsi alla presidenza della Repubblica.

Onda progressista: la Convención Constitucional e l’ascesa di Boric alla presidenza

In base all’accordo, poco meno di un anno dopo, all’incirca, rispetto alla firma dell’accordo per la pace sociale e la nuova costituzione, il 15 ottobre 2020 si tenne in tutto il Paese il referendum (plebiscito nacional) col quale si chiedeva al popolo cileno di approvare o rifiutare il progetto di nuova costituzione e di indicare al contempo, qualora fosse prevalsa l’approvazione (apruebo), se per la redazione del testo si voleva una commissione mista o una convenzione costituzionale elettiva. Prevalsero a grande maggioranza l’approvazione (78,3 per cento) e l’indicazione di una convenzione costituzionale (79,0 per cento). Sull’onda del successo delle opposizioni, le elezioni con metodo proporzionale per la composizione della Convención Constitucional, tenute il 15 e il 16 maggio 2021, videro prevalere le formazioni di sinistra radicale e di sinistra più moderate, rappresentate in complesso da 79 seggi su 155. Tra questi, 6 seggi andarono a Convergencia Social, 7 al Partito Comunista del Cile, 9 alla formazione radicale Revolución Democratica e ben 26 alla Lista del Pueblo, di ispirazione radical-populista. La lista Apruebo Dignidad, che riuniva i principali partiti radicali di sinistra, ottenne 28 seggi. Oltre a questi si ebbero 17 seggi in rappresentanza dei “popoli originari” (in prevalenza Mapuche e Aymará), che guardavano con interesse all’iniziativa delle formazioni di sinistra radicale, oltre a 11 indipendenti radicati nei territori. Nel complesso si può dunque sostenere che le forze radicali controllassero quasi la metà (71) dei seggi della Convenzione, oltre ad avere l’appoggio della sinistra più moderata rappresentata dalla Lista del Apruebo (25 seggi), a guida socialista, e di qualche eletto indipendente. La formula ideale per fare grandi cose e passare alla storia oppure rovinare tutto.

Parallelamente Boric otteneva l’appoggio alla candidatura presidenziale da parte di diversi partiti riuniti nella lista Apruebo Dignidad e, assieme a Revolución Democratica e al suo partito, tornò trionfante alla testa del Frente Amplio, vincendo le primarie interne nel luglio 2021.

Al primo turno delle elezioni presidenziali il 21 novembre 2021 ottenne il 25,8 per cento dei voti, giungendo secondo dietro al candidato del Partido Republicano José Antonio Kast, sostenitore di Jair Bolsonaro e dell’ex dittatore peruviano Alberto Fujimori, eccessivamente ambiguo sui giudizi in merito alla dittatura di Augusto Pinochet e coinvolto in episodi poco edificanti di cronaca e in campagne di disinformazione ai danni dei suoi avversari politici. Insomma, un impresentabile. Tanto impresentabile da far meritare a Gabriel Boric l’appoggio di quasi tutti i partiti e di due ex presidenti della Repubblica. Al secondo turno, il 19 dicembre 2021, Boric fu eletto presidente con il 55,8 per cento dei suffragi.

Intanto proseguivano i lavori della Convenzione Costituzionale la quale, tra l’altro, vantava di essere stata eletta con grande attenzione per la parità di genere, risultandovi 78 uomini e 77 donne, essendo così la prima al mondo a vantare una simile caratteristica. Il suo vicepresidente, Gaspar Domínguez, nato nel 1988 e apertamente omosessuale, rappresentava uno degli 8 costituenti dichiaratamente appartenenti alla comunità LGBT+. Infine il dato anagrafico: 45 anni l’età media dei costituenti, ancora più bassa (41 anni) fra gli indipendenti e addirittura di 39 anni fra gli eletti della Lista del Pueblo[3]. Si profilava pertanto una costituzione scritta in buona parte dalla generazione definita dei “millennials”. Il testo definitivo della nuova carta costituzionale fu presentato il 15 giugno 2022 e fu deciso di sottoporlo il 4 settembre 2022 all’approvazione popolare.

L’onda si infrange: il rigetto plebiscitario della nuova costituzione. Ragioni di una disfatta

Ottime notizie dal Cile, si diceva. Fino a questo punto senz’altro, almeno osservando le cose da lontano. Ma il bagno di realtà era pronto a rovesciarsi sul Paese, come puntualmente accadde all’indomani della giornata dedicata al plebiscito constitucional, quando i risultati si rivelarono disastrosi per il progetto di nuova costituzione e per il portato ideologico che l’aveva ispirato.

La partecipazione fu alta, l’85,9 per cento degli aventi diritto al voto, i quali la rigettarono con il 61,9 per cento dei suffragi. Una vera e propria disfatta. Una disfatta anche per il giovane presidente della Repubblica, che aveva sempre sostenuto la Convenzione e i suoi lavori, e una disfatta per quanto riguardava gli ideali ispiratori del testo, apertamente dichiarati dalla maggioranza dei suoi estensori: femminismo (per inciso, il carácter feminista è il primo fra quelli enunciati fra i principi guida di Convergencia Social), ideologia LGBT+, ecologismo, opposizione al neoliberismo, riconoscimento della diversità dei “popoli originari”, autonomismo regionale e statualità plurinazionale, quest’ultima già introdotta in Bolivia da Evo Morales.

Com’è che il popolo cileno ha voltato le spalle al testo prodotto da quella stessa Convenzione a cui era stata accordata grande fiducia e garantita una solida maggioranza progressista? Com’è che neppure le garanzie offerte ai cileni dal presidente Boric, in merito alla possibilità di migliorare il testo se fosse stato adottato, hanno spinto la popolazione ad approvarlo?

Si può rispondere che il 4 settembre 2022 è avvenuto un cortocircuito fra le aspettative di cambiamento espresse dalla maggioranza assoluta della popolazione cilena e l’approdo giuridico di queste aspettative, una carta costituzionale sbilanciata a favore di certe tematiche senz’altro prioritarie per i costituenti, ma certamente non al centro delle preoccupazioni dei comuni cittadini, alle prese invece con problemi molto più concreti di natura economica (non sono venute meno infatti le cause che portarono alle rivolte del 2019: alto costo della vita, polarizzazione dei redditi, disoccupazione, diseguaglianze sociali) e timorosi del radicalismo mapuche che nella regione de La Araucanía ha prodotto dalla fine degli anni Novanta situazioni di conflittualità sfociate dal 2013 in aperta violenza, con incendi, attentati alle chiese e sporadici omicidi. Una rapida lettura della bozza definitiva del testo costituzionale offre un campionario simbolico degli errori di prospettiva di una generazione di giovani ottimisti sganciati o ben poco ancorati alla realtà, rimasti agli anni delle rivendicazioni, a volte concrete, più spesso assai astratte, della contestazione universitaria. Quarantenni che all’apparenza non hanno mai smesso di avere vent’anni.

A tal proposito giova ricordare un episodio increscioso, accaduto solo pochi giorni dopo il rechazo della costituzione, che ha riguardato lo stesso trentaseienne presidente Boric: il rifiuto da parte di quest’ultimo di accettare le credenziali del nuovo ambasciatore dello Stato di Israele, giustificando il suo atteggiamento verso un Paese amico con la pretesa di non voler ricevere il rappresentante di uno Stato responsabile di occupare illegalmente porzioni di territorio spettante alla minoranza araba e di attuare operazioni militari terroristiche nella striscia di Gaza[4]. Posizioni politiche radicali da ventenne indifferente alla ragion di Stato e alla realpolitik e totalmente ignorante in fatto di diplomazia e di garbo istituzionale.

Debolezze e ingenuità di una costituzione scritta da trentenni e quarantenni idealisti

Tornando ai contenuti della costituzione, giova innanzi tutto sottolineare l’eccessiva verbosità: circa 160 pagine di testo suddiviso in 388 articoli (con molti commi) e 57 disposizioni transitorie. Fra le costituzioni scritte sarebbe stata una delle più lunghe del mondo, con oltre 55.000 parole. Per avere un’idea, l’attuale costituzione cilena del 1980, inclusi gli emendamenti, di parole ne conta quasi 26 mila, quella italiana 11.700. La concisione in un testo costituzionale può non rappresentare una virtù.

Non è scritto infatti da nessuna parte che la brevità rappresenti in sé un valore, tuttavia alcune fra le costituzioni scritte di diverse nazioni occidentali di solida reputazione democratica mostrano che la concisione non è neppure un disvalore: 7.700 parole per la costituzione degli Stati Uniti d’America, 10.200 parole per quella francese, 18 mila per quella spagnola, 16 mila per quella svizzera e 13.600 per quella svedese; fa eccezione il testo costituzionale tedesco: 27 mila parole[5]. Dunque un testo costituzionale inutilmente lungo e verboso.

Il preambolo da solo lascia intendere ciò che ci si può aspettare nel corso della lettura: «Nosotras y nosotros, el pueblo de Chile, conformado por diversas naciones…». Al di là del fatto che evidentemente il jeffersoniano “We the People” anche se ormai un po’ troppo datato e imitato va ancora molto di moda (così inizia anche il preambolo della nuova costituzione ungherese [2011] di marca orbaniana), sottolineare fin dalla prima parola che il testo è stato scritto attingendo alle rivendicazioni lessicali femministe non è di buon auspicio. Non mancano infatti decine di articoli e commi che presentano e spesso ripetono pleonastiche specificazioni di genere: “niñas, niños”, “las trabajadoras y los trabajadores”, “chilenas y chilenos”, “alcadesas y alcades”, “las ministras y los ministros”, “las juezas y los jueces”, “las y los generales”, “diputadas y diputados”, eccetera. Mancava solo lo schwa. L’ideologia LGBT+ d’altronde permea fin dall’inizio il fondamentale capitolo dei Principi e Disposizioni Generali, all’articolo 6, dove è enunciato che

«lo Stato promuove una società dove donne, uomini, diversità e divergenze sessuali e di genere partecipano in condizioni di eguaglianza sostanziale…».

La stessa ideologia torna anche nei capitoli successivi, per citare solo alcuni esempi, all’articolo 21 (diritto all’integrità personale, intesa come «integrità fisica, psicosociale, sessuale e affettiva») e all’articolo 25, in realtà dedicato al fondamentale e più universale diritto all’eguaglianza, declinato tuttavia nei commi 3 e 4 con espliciti riferimenti al genere, nella sua identità ed espressione, orientamento e caratteristiche sessuali. Così come si evidenzia nell’articolo 27

«tutte le donne, le bambine, le adolescenti e le persone con diversità e divergenze sessuali e di genere hanno diritto a una vita libera dalla violenza di genere in tutte le sue manifestazioni…»

e nell’articolo 40, nel quale è espresso il diritto a ricevere

«una educazione sessuale integrale, che promuova il godimento pieno e libero della sessualità, la responsabilità sessuale e affettiva, la autonomia, l’attenzione per sé ed il consenso, il riconoscimento delle diverse identità ed espressioni di genere e la sessualità, che eradichi gli stereotipi di genere…».

La difesa dei diritti dei cittadini (meglio: delle cittadine e dei cittadini) è senz’altro un fattore determinante per stabilire il progresso civile di una nazione democratica, ma il troppo in tema di diritti, come ci ha insegnato Giuseppe Mazzini, stroppia.

E così si arriva alla lettura di dettati costituzionali che garantiscono diritti talvolta di difficile comprensione: il diritto al riconoscimento della «neurodiversità» (art. 29); il diritto «a vivere in ambienti sicuri e liberi dalla violenza» (art. 53; con tutta evidenza le anime candide dei costituenti cileni, come Pier Soderini, andranno nel limbo dei bambini); il diritto «all’autonomia personale e al libero sviluppo… della propria identità e dei propri progetti di vita» (art. 62), «…includendo le caratteristiche sessuali, identità ed espressioni di genere, nome e orientamenti sessuali e affettivi » (art. 64; immancabili riferimenti LGBT+); il diritto «all’ozio e al riposo (art. 91; un buon biglietto da visita per gli investitori esteri che potrebbero avere a che fare con lavoratrici e lavoratori cileni che rivendicano il diritto ad oziare e senz’altro anche molto apprezzato dalle disoccupate e dai disoccupati alla disperata ricerca di un lavoro).

Si sono scomodati persino i Principi e Disposizioni Generali per affermare il diritto, ovunque ovvio e scontato, al riconoscimento della «lingua dei segni come lingua naturale e ufficiale delle persone sorde» (art. 12). È stato inoltre accollato allo Stato il dovere (art. 54) di «promuovere il patrimonio culinario e gastronomico del paese», non certo noto per essere memorabile al palato, con l’unica eccezione di certi vini.

Va in generale sottolineato come grande spazio sia stato dato nel testo alle rivendicazioni ideologiche (se di ideologia si può parlare e non già di più generico idealismo) della maggioranza dei giovani costituenti progressisti e radicali: le questioni di genere, sovrarappresentate e che potevano essere senz’altro rese in modo più sintetico, le questioni ambientali ed ecologiche (il capitolo III “Naturaleza y Medioambiente” presenta dall’articolo 127 all’articolo 150 disposizioni che riguardano nello specifico la protezione della natura, della biodiversità e degli animali, la tutela dei beni comuni naturali, comprendendo anche uno Statuto delle acque e uno Statuto dei minerali) e i diritti delle popolazioni native, i cosiddetti “popoli originari”.

A tal proposito, a parte due articoli (234 e 235) che stabiliscono esplicitamente i principi guida dell’autonomia territoriale indigena, pur mancando un capitolo appositamente dedicato ai rapporti fra lo Stato e i nativi, sono molte le disposizioni costituzionali a tutela dei loro diritti e del riconoscimento di specificità culturali e giurisdizionali.

L’articolo 3 tuttavia esprime contraddittoriamente il concetto di una nazione fondata sulla «diversità geografica, naturale, storica e culturale» che, pur così inconciliabilmente diversa, dovrebbe rimanere unita e indivisibile.

L’articolo 5 afferma il riconoscimento alla «coesistenza di diversi popoli e nazioni nella cornice dell’unità dello Stato», popoli e nazioni elencati minuziosamente nel comma successivo. L’articolo 11 si spinge a sostenere che lo Stato

«riconosce e promuove il dialogo interculturale, orizzontale e trasversale [sic] fra le diverse visioni del mondo dei popoli e nazioni che convivono nel Paese, con dignità e rispetto reciproco…superando le asimmetrie esistenti nell’accesso, nella distribuzione e nell’esercizio del potere».

Lo Stato infine (art. 12) sarebbe plurilingue.

Con ancor più liberalità l’articolo 34 enuncia che i popoli e le nazioni indigene hanno diritto

«all’autonomia; all’autogoverno; … al riconoscimento e protezione delle loro terre, territori e risorse…; al riconoscimento di loro istituzioni, giurisdizioni e autorità, proprie o tradizionali»

gettando così le basi per la creazione di fattispecie di “bantustan”, sebbene nati dal basso e su basi democratiche.

È pur vero che il riconoscimento di diritti ai popoli nativi era un’esigenza e al tempo stesso un’urgenza, dato anche lo stato di agitazione endemico in alcune regioni, e bisogna ammettere che alcuni articoli del progetto costituzionale erano sensati e andavano nella giusta direzione.

Anche in questo ambito tuttavia i giovani costituenti sono andati oltre, gettando il cuore oltre l’ostacolo, rischiando di andare al di là della logica e del buon senso (come il riconoscimento di terre e risorse) per dare inizio a un pericoloso processo di separazione fra i popoli nativi e i discendenti dei coloni prevalentemente europei, favorendo altresì processi di cristallizzazione etnica e di transizione dal pluralismo all’esclusivismo identitario.

Processi ben noti in un altro continente, , l’Africa,, alle prese con la difficile gestione del pluralismo etnico e delle eredità storiche e culturali del colonialismo.

Processi che sono sfociati in tensioni interetniche, talvolta degenerate in feroci conflitti civili.

L’articolo 114 ad esempio riconosce il diritto di richiedere su qualsiasi documento ufficiale di identificazione l’appartenenza a uno qualsiasi dei popoli e delle nazioni indigene, così come in Ruanda, ad esempio, fino al genocidio del 1994 i documenti di identità indicavano l’appartenenza alle etnie tutsi o hutu.

Ciò avrebbe col tempo potuto escludere la possibilità dell’esistenza di identità miste, pur all’interno della famiglia dei popoli indigeni, comportando l’accentuazione di fenomeni identitari radicali, con la conseguenza di promuovere involontariamente una sorta di nazionalismo indigeno. I cileni alle prese con le tensioni nella regione de La Araucanía potevano avere diverse buone ragioni per temerne gli effetti sul lungo termine.

Infine va notato come fossero relativamente pochi gli enunciati costituzionali che si occupavano di lavoro e impresa, più in generale di quei rapporti economici ai quali la nostra carta fondamentale riserva un intero titolo, il terzo, nella prima parte della costituzione (articoli 35-47).

Il progetto di nuova costituzione cilena parlava molto di genere e di orientamento sessuale, ma ha dedicato al lavoro e alla contrattazione sindacale solo pochi articoli: 46, 47, 48.

Anche alla fine del mondo sembra che alle forze politiche progressiste stia più a cuore la difesa quasi ossessiva e conformistica (prodotto culturale spesso di importazione nordamericana o anglosassone) di diritti individuali che non intaccano tuttavia i rapporti di forza fra il grande capitale e le classi lavoratrici, finendo così per immaginare un mondo ideale dove però allo Stato manca la forza per far prevalere l’interesse generale su quello particolare.

Il progetto di costituzione cilena sembrava persino dimenticare l’esistenza di un’impresa privata, dilungandosi sulla promozione di imprese pubbliche o compartecipate statali, regionali e persino comunali, nonché di cooperative, sulla loro composizione e funzionamento, senza però adeguatamente mettere in chiaro i limiti e i diritti dell’impresa privata, se non ad esempio per minacciare sanzioni ai responsabili di turbativa di mercato, pratiche collusive e di abusi di posizione dominante (art. 182.5). Un po’ poco.

Anche in Cile una deriva ZTL per le forze politiche progressiste? Se ne tragga una lezione

Sarà un caso che il progetto costituzionale sia stato rigettato pressoché in tutto il Paese, con l’eccezione dell’isola di Pasqua (a maggioranza indigena) e di pochissimi distretti elettorali della capitale, tra i quali quello dell’elegante quartiere di Ñuñoa?

Quest’ultimo noto per vantare uno degli indici di sviluppo umano, per qualità della vita, più alti del Paese e per vedervi concentrate le attività del 18 per cento dei professionisti laureati cileni.

Si direbbe pertanto che anche in Cile sia in atto una deriva ZTL per i partiti progressisti o di matrice socialdemocratica.

Ed è un peccato che questa deriva si sia materializzata nel momento più propizio per formalizzare quel necessario cambio di passo auspicato per anni dalla maggioranza dei cileni, ormai stanchi di una carta costituzionale di impronta autoritaria (pur moderata dai necessari aggiustamenti sopraggiunti all’indomani della celebre vittoria del “no” al plebiscito indetto dalla giunta militare nell’ottobre 1988 per far ratificare alcune disposizioni transitorie che avrebbero garantito al generale Augusto Pinochet di rimanere al potere indisturbato fino al 1997, dando così avvio alla transizione democratica e a libere elezioni).

Forse è venuto il momento per la classe dirigente al potere a Santiago di domandarsi se l’affermazione «Parigi val bene una messa», fatta da un grande sovrano europeo di fine Cinquecento, non possa essere posta a profitto anche nel Cile della prima metà del XXI secolo: rammentare che la fantasia al potere vale solo quando si è giovani ventenni idealisti e rinunciare pertanto a qualche simbolica rivendicazione di bandiera, accettando per esempio di non fare del Cile il primo Paese al mondo con una costituzione apertamente ispirata dall’ideologia LGBT+ (a chi scrive permangono dubbi se sia da considerarsi un’ideologia), per calarsi invece nei panni di chi reclama diritti basici ed essenziali, in un Paese che, nella sua deriva neoliberista in atto da quasi cinquant’anni, li sta invece smarrendo, non è poi una così grave rinuncia.

Hanno fatto per questo bene i costituenti a rimarcare il ruolo dello Stato nel garantire un’istruzione «laica e gratuita a tutti i livelli» (art. 36.7), uno degli obiettivi del movimentismo universitario del 2011, ma avrebbero fatto bene anche in questo caso a non annacquare un risultato storico perseguito da tempo con le solite banalità politicamente corrette e gender-friendly che non fanno onore all’intelligenza di un popolo, come ad esempio questa:

«l’educazione si regge sui principi di cooperazione, non discriminazione, inclusione, giustizia, partecipazione, solidarietà, interculturalità, approccio di genere, pluralismo e sugli altri principi consacrati in questa Costituzione. Ha un carattere non sessista e si sviluppa in forma contestualizzata, considerando la pertinenza territoriale, linguistica e culturale» (art. 35.4).

Ovvero? Confusione e anche molta.

E con questo non c’è altro da aggiungere, se non sperare che la lezione cilena rappresenti un monito per i giovani politici progressisti europei e nordamericani, soprattutto per coloro che aspirano a portare il radicalismo del politicamente corretto e dell’ideologia di genere al potere.

Solo così si potrebbe sostenere che dalla fine del mondo siano giunte buone notizie: non senz’altro per i diretti interessati, che devono cominciare da capo un processo costituente che pare non aver mai fine, ma almeno per noi e soprattutto per i nostri futuri governanti, gli attuali trentenni, specialmente se votati all’idealismo progressista, che dalle disavventure cilene potranno trarre un utile insegnamento.


[1] Francisco Coloane, scrittore cileno (Quemchi, regione di Los Lagos, 1910-2002). Dopo aver studiato al collegio salesiano di Punta Arenas e aver lavorato per diversi anni nella Terra del Fuoco e nella Patagonia cilena, scrisse racconti ambientati in quelle estreme regioni, a partire da Cabo de Hornos (1941), alcuni tradotti e pubblicati in Italia dall’editore Guanda. Nel 1964 ha ottenuto il Premio Nazionale di Letteratura. Secondo la critica letteraria la sua produzione ha attinto allo stile di Herman Melville e Joseph Conrad.

[2] La famiglia Boric è in origine scritta Borich, alla veneziana, divenne Borić in base alla grafia croata adottata nel corso della seconda metà dell’Ottocento dalle giunte comunali nazionaliste slave della Narodna stranka, mentre in castigliano, che non conosce segni diacritici sulla consonante “c”, fu reso semplicemente Boric. Dunque i Boric giunsero a Punta Arenas intorno al 1885 dall’isola di Ugliano, che fronteggia Zara, da cui la separa un angusto canale, sorta di stretto di Magellano in miniatura, anch’esso orlato di isolotti, scogli e disseminato di secche. A Punta Arenas, nella fredda e semidisabitata Patagonia cilena, i Boric e gli altri coloni dalmati ritrovarono pertanto in parte un paesaggio abbastanza familiare.

[3] Cfr. https://plataformacontexto.cl/contexto_factual/la-generacion-constituyente-edad-promedio-entre-las-y-los-electos-a-la-convencion-constitucional-ronda-los-45-anos/

[4] Il 30 settembre il Presidente Boric ha infine ricevuto l’ambasciatore israeliano accettando le sue credenziali.

[5] I dati provengono dal sito del Comparative Constitution Project (CCP), istituito presso le università del Texas (Austin) e di Chicago: https://comparativeconstitutionsproject.org/about-ccp/

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