Una rilettura

Democrazia Futura. Bassezze del genere umano di una Capitale provinciale cupa: “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957)

di Venceslav Soroczynski, pseudonimo di uno scrittore e critico letterario e cinematografico |

Cosa si percepisce rileggendo 65 anni dopo il capolavoro di Carlo Emilio Gadda.

Carlo Emilio Gadda

Nella rubrica Riletture, Venceslav Soroczynski, pseudonimo di un giovane scrittore e critico letterario e cinematografico italiano, rilegge per Democrazia Futura “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957), raccontando “le bassezze del genere umano di una Capitale provinciale cupa”, ovvero, descrivendo come recita l’occhiello “Cosa si percepisce rileggendo 65 anni dopo il capolavoro di Carlo Emilio Gadda”. “Sembra che gli abitanti e gli aventi causa di via Merulana duscentodisciannove possano appartenere solo a due categorie: quelli che hanno qualcosa da nascondere e quelli che vogliono dimostrare qualcosa che non hanno. I primi una deviazione, una speranza inaccessibile, un delitto; i secondi una normalità, uno status, un’indimostrabile innocenza. In questo, il romanzo è cupo e incupisce e la Capitale che vi si racconta è più gretta di una provincia sperduta. E come in una provincia si parla dialetto, in via Merulana si compone quel minestrone di lingue che i personaggi usano per arrivare in anticipo al significato, per rendere meglio un’idea, per difendere il proprio corpo e indurre su altri il sospetto. L’uso commisto di romanesco, veneto, molisano, napoletano, greco, latino, nulla toglie alla potenza generale della storia, anzi, identifica gli uomini come se fossero bestie diverse, meglio descritte dalle loro proprie incomprensibili emissioni […], si scopre la colpa di tutti e il peccato di nessuno. Il pasticciaccio è, dunque, non un reato, ma una classe di viventi: il genere umano”.

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In un vecchio film, qualcuno dice che chi va a Milano resta milanese, chi va a Firenze resta del paese suo, ma chi va a Roma, dopo qualche giorno, diventa sùbito romano. È proprio quello che dev’essere successo all’autore di questo romanzo che, nonostante fosse un ingegnere milanese, sembra muoversi nella Capitale come un borgataro – se ancora esistono – o forse, ancora meglio, come un Cesare che conosce bene il suo popolo. E penso che sarà ciò che succederà anche a voi, quando comincerete a leggere il romanzo. Dopo appena qualche pagina, vi aggirerete, un po’ scafati e un po’ schifati, nelle ambientazioni verbali, negli androni, nei corridoi, sui pianerottoli, nelle stanzette e negli angusti desideri, nelle aspirazioni e nelle voglie dei personaggi del romanzo. Romanzo che sembra uscire non tanto dalla penna, quanto dalle viscere della voce narrante e che racconta un luogo e un’epoca in un modo tale da sembrare confermare la convinzione di Lev Nikolàevič Tolstoj: “Se descrivi bene il tuo villaggio parlerai al mondo intero”.

Che il romanzo sia ambientato nella Roma fascista sembra quasi irrilevante, anzi, nelle prime pagine io avrei scommesso sugli anni Cinquanta o, forse, addirittura sui giorni nostri. Ché tanto, come scrisse Karl Kraus cent’anni fa, “L’evoluzione è un passatempo per l’eternità. Non è da prendere sul serio[1].

La sensazione che ho avuto, leggendo pagina dopo pagina, era quella di vedere fulgidamente emergere dal racconto la bassezza dei sentimenti, la povertà spirituale, la materialità delle aspirazioni dei personaggi, escluso forse proprio il protagonista, che è capace a tratti anche di riflettere con profondità a sua volta in quella bassezza e in quella piccolezza, ricorrendo anche a riflessioni e citazioni di un certo peso. Il commissario Ingravallo è uomo colto e freddo, immerso in un mondo ignorante e passionale, laddove le passioni sono peraltro sempre piccole, misere, meschine o, al massimo, frivole. Ma allo stesso tempo anch’egli è debole, anch’egli ama (ormai, alla vostra età, dovreste aver capito che l’amore è un disturbo della percezione), anch’egli sospetta, anch’egli è solo un poliziotto e possiamo forse non pensare a quel passo de La cospirazione in cui Paul Nizan scrive che: “Un vero poliziotto è un uomo che ha fatto fiasco in un altro campo[2]?

Sembra che gli abitanti e gli aventi causa di via Merulana duscentodisciannove possano appartenere solo a due categorie: quelli che hanno qualcosa da nascondere e quelli che vogliono dimostrare qualcosa che non hanno. I primi una deviazione, una speranza inaccessibile, un delitto; i secondi una normalità, uno status, un’indimostrabile innocenza.

In questo, il romanzo è cupo e incupisce e la Capitale che vi si racconta è più gretta di una provincia sperduta. E come in una provincia si parla dialetto, in via Merulana si compone quel minestrone di lingue che i personaggi usano per arrivare in anticipo al significato, per rendere meglio un’idea, per difendere il proprio corpo e indurre su altri il sospetto.

L’uso commisto di romanesco, veneto, molisano, napoletano, greco, latino, nulla toglie alla potenza generale della storia, anzi, identifica gli uomini come se fossero bestie diverse, meglio descritte dalle loro proprie incomprensibili emissioni.

Ma qual è il problema? Cosa si cerca?

Si cerca un omicida e si cerca un ladro e, per trovarli, si interrogano tutti: amici, conoscenti, nipoti, governanti, pizzicagnoli, funzionari, dirigenti, commercianti, prostitute e tenutarie. Ma l’omicida non si trova. Si trova invece una intera schiera di colpevoli – non di quei reati, ma più semplicemente del fatto di vivere, di trasportare un corpo, una coscienza, un passato.

La conclusione mia come lettore – anzi, meglio, come soggetto della percezione indotta da quel racconto – è che nessuno si salvi, che tutti siano non colpevoli, ma comunque dannati, perfino gli agenti di polizia che, fra un ordine del commissario e l’altro, mangiano panini al salame in piedi nei corridoi della questura.

Insomma, si scopre la colpa di tutti e il peccato di nessuno. Il pasticciaccio è, dunque, non un reato, ma una classe di viventi: il genere umano.


[1] Karl Kraus  Aphorismen. Sprueche und Wiedersprueche (1909) Pro domo et mundo(1912), Nachts (1919) raccolti nell’ottavo volume degli Schriften,  herausgegeben von Christian Wagenknecht, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1986, 531 p. Traduzione italiana e cura di Paola Sorge Aforismi, Firenze Sansoni, 1992, VII-118 p. Roma, Newton Compton, 1993, 91 p.Oggi con il titolo Essere uomini è uno sbaglio. Aforismi e pensieri, Torino, Einaudi, 2012, XXIV-104 p.

[2] Paul Nizan La conspiration, Paris, Gallimard, 1938, 25o p. Traduzione italiana di Daria Menicanti: La Cospirazione, Milanop, Mondadori, 1961, 268 p. Poi con un’introduzione di Piergiorgio Bellocchio e una Postfazione di Giovanni De Luna, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, 283 p.