Il ricordo

Democrazia Futura. Ancora su Enzo Forcella e la sua visione non ancillare del giornalismo

di Celestino Spada, già dirigente Rai, vice direttore della rivista Economia della Cultura |

La sfida di un intellettuale senza partito all’informazione italiana nel decennio dopo la riforma del 1975.

Celestino Spada
Celestino Spada

Iniziamo oggi alcune anticipazioni del terzo fascicolo di Democrazia futura i cui principali articoli usciranno dopo la pausa d’agosto. Celestino Spada, già dirigente Rai e vicedirettore  della rivista Economia della Cultura, torna ancora sulla figura di Enzo Forcella, oggetto di un ricordo personale di Licia Conte nel numero primaverile. Spada rievoca la sfida di quello che definisce un intellettuale-giornalista senza partito all’informazione italiana nel decennio dopo la riforma del 1975 che lo vide dirigere e innovare Radio Tre ” già allora il mezzo più antico e meno influente a livello “di massa” rispetto alla televisione e la rete meno “popolare”, connotata da un’offerta musicale e di conversazioni anche dotte, rivolta evidentemente al pubblico più acculturato e, quindi, ristretto”.  L’occasione consente a Spada di rievocare i complessi rapporti fra i comunisti e il servizio pubblico prima con la Rai di Bernabei poi con i dirigenti che hanno partecipato alla stagione della riforma sino all’ingresso dei comunisti medesimi nella stanza dei bottoni della Rai con la guida di Rai Tre e del Tg3 che spingeranno Spada ad uscire da quel partito. L’articolo si conclude con l’ultimo incontro da lui avuto con Forcella poco prima della scomparsa, in cui l’ex direttore di Radio Tre gli rivela le regioni della sua rottura con La Repubblica e la delusione per le scelte editoriali del suo direttore Eugenio Scalfari.  

Enzo Forcella

Il ricordo, così vivo ancora oggi, del senso e della direzione di Rai-RadioTre di Enzo Forcella, proposto su queste colonne nel numero primaverile di Democrazia futura da Licia Conte, attiva considerazioni sul periodo e un mio ricordo della persona.  

Per certi versi la “notizia” oggi (e anche allora) non è che ci fossero esponenti di partiti insofferenti, e anche avversi, alle scelte editoriali di Rai-RadioTre, ma che a dirigere quel settore della Rai monopolio pubblico sia stato, dal 1976, un professionista come Forcella: critico irriducibile della tradizione e della pratica ancillare del giornalismo italiano, come servizio alla persona dei politici, con i suoi formati “classici” fin dall’Italia liberale dei notabili – le interviste e i “pastoni” quotidiani della cronaca – che l’Italia repubblicana (la Repubblica dei cittadini sovrani e dei loro partiti politici, nel pensiero e negli scritti di Forcella) doveva “finalmente” archiviare. E che – altra notizia rilevante anche oggi – quel suo ruolo dirigente nella Rai della riforma sia durato fino al 1986: dieci anni.  

Non era per nulla scontato, una volta approvata la legge 14 aprile 1975, n. 103, che un intellettuale/giornalista senza partito e senza protettori personali fosse chiamato, come responsabile editoriale di una rete, a raccogliere la sfida e a realizzare gli obiettivi che, con la riforma, il Parlamento indicava alla Rai monopolio pubblico – allora in Italia l’impresa industriale culturale maggiore e più popolare per insediamento presso i creativi e il grande pubblico. L’avevano voluta e approvata i partiti del centro-sinistra quella legge – di ispirazione liberal-democratica, che ampliava le libertà e le garanzie costituzionali nella comunicazione – ed essi espressero in Parlamento (con le Regioni) un consiglio di amministrazione che nominò, appunto, Enzo Forcella alla direzione di RadioTre: già allora il mezzo più antico e meno influente a livello “di massa” rispetto alla televisione e la rete meno “popolare”, connotata da un’offerta musicale e di conversazioni anche dotte, rivolta evidentemente al pubblico più acculturato e, quindi, ristretto.

Dieci anni di autonomia e responsabilità editoriale, ovviamente non “pacifiche” e anzi al centro e oggetto di controversie e interlocuzioni agguerrite e continue, nella società e nella politica, per le scelte di un’offerta che si voleva innovativa ed era non di rado di pregio nei modi e negli esiti anche di pubblico, sono di per sé una performance e un risultato di prima grandezza nella vita professionale di una persona. Performance e risultato che, (anche) da parte di Enzo Forcella, non sarebbero stati immaginabili, e non si sarebbero potuti neppure tentare, se non ci fossero stati l’esperienza e le competenze acquisite e la capacità di rispondere a nuove indicazioni e sfide (come quelle richiamate da Licia) da parte dei programmisti e dei giornalisti della “Rai di Bernabei”, come ancora oggi è chiamata la Rai alla quale la riforma indicava nuovi obbiettivi di libertà, di qualità dei programmi e dell’informazione e di risultati d’impresa, per tutta la comunità nazionale.

(È bene richiamare qui la “Rai di Bernabei”, tanto più dopo che i commenti alla morte di Raffaella Carrà, hanno omesso di ricordare, senza alcuna eccezione di rilievo, i meriti culturali e politici che nella modernizzazione del nostro Paese – in particolare, nell’affermazione di un’immagine pubblica e di un protagonismo nuovi della donna italiana presso il pubblico nazionale – hanno avuto i responsabili del grande spettacolo televisivo della Rai già nel 1969-1970 – la Canzonissima del lancio della Carrà – e fino agli anni 1990: i cattolici Giovanni Salvi, per decenni dirigente-principe del settore, Angelo Romanò, Mimmo Scarano ed Emmanuele Milano, direttori dello spettacolo tv e di Raiuno con la riforma.) 

Forcella conosceva benissimo le valenze socio-culturali e professionali che rendevano allora così viva e interessante l’impresa nella quale l’aveva proiettato la scelta dei socialisti e dei repubblicani che, con i democristiani, i socialdemocratici e i liberali, avevano designato i massimi responsabili editoriali e gestionali della Rai riformata. Ed è significativo quello che scrive Licia circa la sua attenzione all’offerta quotidiana del Gr2 diretto da Gustavo Selva, che nella sua edizione delle 7,30 del mattino, il prime time della radio, non risparmiava davvero sorprese nella gerarchia e nel rilievo dato alle notizie (in particolare ricordo la “apertura” con il titolo e la notizia della scoperta del vaccino dell’epatite B: nel 1977, fra terrorismo e governo di unità nazionale). Nella mia esperienza di quegli anni, gli editoriali di Gustavo Selva mettevano a dura prova la scelta del pluralismo culturale e politico che i dirigenti del Partito Comunista Italiano tenevano ferma anche per la Rai. Collaboravo allora, per la materia radiotelevisiva, con la sezione stampa e propaganda, diretta da Elio Quercioli, e con la sezione culturale, diretta da Aldo Tortorella, della Direzione del Pci e presto si venne a sapere che, facendosi abitualmente la barba all’ora degli editoriali di Selva, a un membro fra i più autorevoli della Segreteria – anche lui fedele ascoltatore, evidentemente – capitava di tagliarsi il mento o le guance. Anche questo contribuiva a far crescere il malumore con il quale, nella gran parte, i massimi dirigenti del partito, non ultimo il segretario Enrico Berlinguer, seguivano l’informazione e la programmazione della Rai della riforma, alla quale nel 1975 avevano negato il loro consenso in Parlamento e che cercavano in molti modi di condizionare e di rendere per essi accettabile. Modi che nel caso di Licia, come lei ha qui ricordato, nel 1982 hanno finito per superare le resistenze del suo direttore, spingendola via da RadioTre verso il nascente Televideo.

Nel ruolo di go between nel Pci fra direzione nazionale e commissione parlamentare Rai – che mi aveva proposto nel 1971 Carlo Galluzzi, allora responsabile della stampa e propaganda e membro della Segreteria (il quale, di turno alle Botteghe Oscure la notte del 21 agosto 1968, aveva chiamato a Mosca i compagni del Pcus a nome di Luigi Longo perché facessero ritirare subito dalla Cecoslovacchia le truppe del Patto  di Varsavia che la stavano invadendo) – in quegli anni 1970-1980 Enzo Forcella lo incontravo quando capitava e sempre insieme ad altri. Non c’era occasione e non c’era motivo di particolari interlocuzioni, maggiore di me com’egli era, e io lo sentivo, per età, prestigio intellettuale e credito professionale, e stante anche l’abito mentale e il comportamento dominante nel Pci, e da me condiviso, di non cercare avvicinamenti, né sviluppare più di tanto contatti privati nei rapporti politici. Ci rimasi però male alcuni anni dopo, a metà degli anni 1990, quando, responsabile del settore Verifica Qualitativa Programmi Trasmessi, una telefonata della presidenza della Rai mi annunciò l’imminente visita di Enzo Forcella con Guido Crainz, Alberto Farassino e Nicola Gallerano, che venivano a parlarmi della loro ricerca su La Resistenza italiana nei programmi della Rai (poi pubblicata nel 1996 nella collana Vqpt-Rai). Quell’approccio “d’autorità” mi dispiacque e, cercandone la ragione, giunsi alla conclusione che molto probabilmente Forcella mi considerava sempre un “uomo del Pci in Rai” e non fosse a conoscenza della mia uscita dal partito nel 1986, senza rumore, all’annuncio della nascita del Tg3 Rai, per tutti ormai, nel 1995-1996, “TeleKabul”.  

Dopo qualche tempo lo cercai. Forse si era informato. In ogni caso mi invitò a casa sua, sulla collina Fleming a Roma, a fare due chiacchiere dopo il lavoro, in un pomeriggio d’estate. Quando sua moglie Anna mi fece entrare dove lui mi attendeva, seduto, vidi nella luce dorata della stanza un uomo stanco, malato (come mi confermò lui stesso), contento di vedermi. Il tema, naturalmente, era “come vanno le cose”, lo stato della Rai e dell’informazione: esempi, situazioni, la carriera in corso di qualche giovane leone o leonessa che lui aveva incoraggiato e protetto, come capace e valido, e che in quegli anni stavano rivelando ambizioni e capacità di manovra politico-professionali fra giornalismo pubblico e privato, fra la gauche e il resto, che lo avevano sorpreso. Sfiorammo appena l’argomento RadioTre Rai, la sua creatura, che vedeva sempre vitale con i suoi format – Prima pagina in testa – e capace di reggere bene la rotta nel mare in subbuglio dell’emittenza radiofonica, nel quale peraltro l’aveva fatta nascere e crescere. Ma il suo cuore batteva davvero, ancora, per il giornalismo della carta stampata. Mi parlò di Repubblica, delle sue speranze che con essa si affermasse in Italia il giornalismo per il quale si era sempre battuto, distante dai politici e impegnato a costruire, com’era nel DNA del mestiere, un’autentica opinione pubblica. Mi confidò il suo dissenso e la sua delusione per le scelte editoriali di Eugenio Scalfari che, mi disse, non condivideva da anni. Mi impegnò al silenzio (un patto cui vengo meno qui oggi) e mi raccontò di quanto egli avesse avversato la centralità assunta nell’offerta del giornale dal format “intervista ai leader dei partiti”, a partire da quella del 1981 a Enrico Berlinguer. Un’avversione che lo aveva portato a chiudere senza clamore, senza danni a quella che restava la sua parte – il suo mondo – i rapporti col giornale e con lo stesso Scalfari.

Anche quel pomeriggio fu asciutto Enzo Forcella, sobrio come sempre e attento, mi parve, alla mia comprensione delle ragioni del suo giudizio, e di quel che ne era seguito nei suoi rapporti personali, più che a stare insieme a deprecare il verso preso dalle cose. Mi sentii onorato, mi commosse l’intimità che la sua confidenza stabiliva tra noi. Fu l’ultima volta che lo vidi.