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Dazi, ha vinto Trump. Ue disorientata dall’industria al digitale, autunno difficile per Ursula

URSULA VON DER LEYEN PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA

Accordo Ue-Usa sui dazi, una pillola troppo amara

L’accordo sui dazi al 15% per i prodotti europei importati negli Stati Uniti non è piaciuto praticamente a nessuno qui in Europa. Chi parla di unico risultato possibile, o di “miglior accordo possibile”, come ha fatto il Commissario europeo al commercio Maros Sefcovic, cerca di addolcire una pillola troppo amara.

È chiaro che gli accordi commerciali raggiunti da Bruxelles e Washington vanno ben oltre i dazi in sé, perché è un rapporto particolare tutto in seno all’Occidente che ha radici e ragioni storiche, politiche e finanziarie ben precise, frutto dell’esito della Seconda guerra mondiale e della successiva Guerra Fredda.
Ma quanto accaduto domenica scorsa in Scozia mette in difficolto tutta l’Ue, perchè è l’immagine di potenza mondiale ad uscirne ridimensionata, anche solo per la scelta di recarsi nella tenuta privata di un miliardario che giocava a golf, occasionalmente Presidente degli Stati Uniti, a Casa Turnberry, con il cappello in meno.

Sulla sponda occidentale dell’Oceano Atlantico, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, festeggia il risultato raggiunto e comunica la vittoria ottenuta agli americani. Dalla parte orientale dello stesso Oceano, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, deve invece convincere i 27 Stati membri dell’Unione e i rispettivi popoli che quanto raggiunto non è una sconfitta e comunque è il migliore dei risultati possibili.

Tariffe vantaggiose solo per gli Stati Uniti

La Casa Bianca certamente fa propaganda ed esagera nella portata degli accordi annunciati in Scozia e non ancora siglati, quindi passibili di cambiamenti ulteriori (da vedere se in meglio o in peggio per noi), ma da quanto ne sappiamo è chiaro che “il patto di Turnberry” è tutto a vantaggio degli Stati Uniti.

La pubblicazione della bozza di accordo (lo ripetiamo al momento non vincolante, nessun documento è stato firmato) da parte di Washington ci permette comunque di dare un’occhiata ai punti chiave di questo patto commerciale tra Ue e Usa.

L’intesa “consentirà agli americani livelli di accesso al mercato dell’Unione europea senza precedenti”, gli europei faranno acquisti per “750 miliardi di dollari in energia statunitense” ed effettueranno “nuovi investimenti per 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti”, il tutto entro il 2028.
Risorse sottratte al mercato europeo, alla crescita e all’innovazione.

In questo modo, è scritto sul sito della Casa Bianca, “gli Stati Uniti saranno la principale destinazione al mondo per investimenti, innovazione e produzione avanzata”.

L’accordo “consentirà ad agricoltori, allevatori, pescatori e produttori statunitensi di incrementare le esportazioni statunitensi, ampliare le opportunità commerciali e contribuire a ridurre il deficit commerciale con l’Unione europea”. L’Ue, inoltre, “eliminerà dazi doganali significativi”, tra cui tutti quelli sui prodotti industriali statunitensi esportati nell’Unione, “creando enormi opportunità per i prodotti realizzati e coltivati negli Stati Uniti di competere e affermarsi in Europa”.

Ancora, “l’Unione europea si impegnerà ad affrontare e risolvere una serie di preoccupazioni degli Stati Uniti relative a vari requisiti che risultano onerosi per gli esportatori statunitensi, in particolare per le piccole e medie imprese”.
Che tutti questi punti chiave siano poi reali punti di forza per l’economia americana è tutto da vedere. Senza contare che le “promesse” fatte dell’Ue non è detto siano realizzabili o che l’Ue voglia mantenerle (a partire dall’energia, banalmente, per passare ai prodotti agricoli).
La guerra commerciale con Washington non è per niente detto sia davvero conclusa, forse deve ancora iniziare per davvero.

Digitale, l’Ue “non adotterà né manterrà tariffe per l’utilizzo della rete”

Altro settore strategico da segnalare è il digitale, qui gli Stati Uniti e l’Unione europea si sono impegnate ad eliminare o ridimensionare “le barriere ingiustificate al commercio digitale”. A tale riguardo, si legge, “l’Unione conferma che non adotterà né manterrà tariffe per l’utilizzo della rete. Inoltre, gli Stati Uniti e l’Unione europea manterranno zero dazi doganali sulle trasmissioni elettroniche”.
Zero dazi qui significa sempre nuove e importanti occasioni di crescita per le aziende americane in Europa.

Su questo punto particolarmente delicato, in cui l’Ue al momento appare piuttosto disorientata, su cui sicuramente le due parti torneranno a scontrarsi molto presto, Bruxelles ha voluto dare la sua versione: “Nel corso dei negoziati, sia a livello tecnico che politico, abbiamo difeso con determinazione l’autonomia dell’Ue in materia normativa. Non è stato preso alcun impegno sulla regolamentazione del digitale, né sulla tassazione dei servizi digitali, che” peraltro “non rientra nelle competenze Ue“, secondo quanto dichiarato da fonti Ue, si legge nella diretta Tgcom24.

Facendo il punto sulle trattative che hanno condotto all’intesa commerciale con Washington, si legge ancora nella nota Ue, “Abbiamo tutelato con fermezza il nostro diritto a regolamentare, e questo è stato uno degli obiettivi centrali del negoziato“, confermando che “il Digital services act e il Digital markets act restano capisaldi“. 

In una sola riga, invece, si dà notizia che l’Unione “ha accettato di acquistare ingenti quantità di equipaggiamento militare statunitense”.

Prima del secondo mandato di Trump, gli Usa riscuotevano circa 7-8 miliardi di dollari di dazi sui prodotti europei, ma con l’introduzione del 15% l’importo sarebbe decuplicato a circa 80 miliardi di dollari (anche se è bene ricordare che in questo caso, alla fine, a pagare il “conto finale” sono sempre gli importatori e quindi i consumatori americani).

Industria Ue, quali le conseguenze di questo accordo?

Per la maggior parte delle esportazioni europee, il dazio medio passerà da circa il 4,8% al 15%. Questo significa costi triplicati per le imprese europee, che renderanno i prodotti più cari per i consumatori americani, con possibile (molto probabile) riduzione della domanda e della competitività.

Le imprese dovranno decidere se assorbire parte del costo del dazio, riducendo i loro margini di profitto, o se trasferirlo interamente sui consumatori, rischiando di perdere quote di mercato.

Sebbene il dazio del 15% sia una “boccata d’ossigeno” rispetto al 27,5% precedentemente minacciato, rimane un aggravio competitivo. Le case automobilistiche europee (in particolare quelle tedesche) potrebbero subire una riduzione dei profitti e del potenziale di investimento in ricerca e sviluppo, soprattutto per i veicoli elettrici destinati al mercato USA. Alcune potrebbero considerare di aumentare la propria presenza produttiva negli Stati Uniti.

I veri perdenti non sono le case automobilistiche, ma i loro lavoratori“, secondo quanto affermato da Ferdinand Dudenhöffer, direttore del Centro tedesco per la ricerca automobilistica, e riportato da Politico. Dudenhöffer stima che fino a 70.000 posti di lavoro tra le case automobilistiche europee e i loro fornitori potrebbero andare persi se le case automobilistiche spostassero la produzione negli Stati Uniti per aggirare i dazi del 15%.

L’autunno difficile di Ursula von der Leyen

Lato europeo, più che risultati, si è cercato di convincere l’opinione pubblica che in fondo non è poi così svantaggioso l’aver accettato il 15% di dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti e soprattutto aver aperto alle aziende americane il nostro mercato interno da 450 milioni di consumatori.

Ci è stato detto che in questo modo sono stati “salvati” posti di lavoro e sono state “limitate le perdite”, si è evitato “il baratro” e “il crollo del mercato europeo“. Un tono ben diverso da quello degli annunci dell’amministrazione Trump in patria.

Ora la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, dovrà affrontare le ritorsioni (e ricatti) dei 27 Paesi membri dell’Unione. La sua Commissione sembra al momento compatta, ma certo al di fuori di essa è iniziato l’attacco a Bruxelles.

Ieri sera, al termine della riunione del Consiglio di sicurezza, il cancelliere tedesco Friedrich Merz (connazionale di Ursula e membro dello stesso partito, la CDU) ha dichiarato alla stampa: “Non sono soddisfatto di questo risultato, ma penso che non fosse possibile ottenere di più tenendo presente la posizione di partenza che avevamo con gli Stati Uniti d’America. Sappiamo che l’economia tedesca subirà un danno considerevole a causa di queste tariffe“.
Anche se poche ore prima aveva anche sottolineato che di meglio non si poteva fare.

È un giorno buio quando un’alleanza di popoli liberi, uniti per affermare i propri valori e difendere i propri interessi, decide di sottomettersi“, è stato il tweet del Primo ministro francese, François Bayrou.

Meno duro il premier spagnolo Pedro Sanchez, che ha commentato: “Sostengo l’accordo commerciale ma lo faccio senza alcun entusiasmo“.
Una posizione che tutto sommato sembra simile a quella del nostro Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, secondo cui l’intesa va valutata positivamente, per il solo fatto che ci sia stata e abbia scongiurato gli effetti potenzialmente “devastanti” di un no deal.
Ora bisognerà “vedere bene i dettagli“, ha insistito Meloni, precisando di non avere ancora avuto modo di confrontarsi direttamente con la presidente della Commissione Ue.

La Confederazione europea dei sindacati (Ces) avverte, in una nota, che la Commissione europea deve introdurre misure per salvaguardare posti di lavoro e redditi a seguito dell’accordo commerciale con gli Stati Uniti: “Il risultato sarà probabilmente una significativa perdita di posti di lavoro e un rallentamento delle assunzioni nel settore manifatturiero e in quelli dipendenti dall’export”.

Per noi tutto quello che è oltre allo zero è un problema. Oggi l’impatto del 15% dei dazi vuol dire per le imprese italiane 22,6 miliardi di probabile vendita verso gli Usa. Ma noi stiamo sottovalutando una cosa: non è solo l’impatto dei dazi, è anche la svalutazione dollaro-euro, che per noi vuol dire oggi incrementare il dazio di un 13%, che altri paesi extraeuropei hanno una media del 2%. Difficilmente recuperabile“, ha detto al Tg1 il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini.

Evitare la paralisi politica interna all’Ue

I mesi di settembre–dicembre 2025 saranno decisivi per Ursula von der Leyen: dovrà gestire negoziati sul futuro del bilancio UE, resistenze alla centralizzazione della Difesa, le altre tensioni commerciali internazionali (vedi Cina e Asean) e una possibile spaccatura interna sulla agenda verde.

Nessuno di questi dossier si può dire pacificato, ognuno può rappresentare motivo di battaglia e frantumare alleanze politiche, compromettendo l’efficacia della sua leadership, anche attraverso burrascose riunioni del Parlamento europeo.
Quello che si rischia, più che il licenziamento di Ursula e della sua Commissione, è la paralisi politica dell’Europa, proprio in un momento di massima debolezza e di difficoltà crescenti su tutti i fronti. Una fragilità politica che potrebbe essere peggiorata dalle urne che attendono diversi Parsi Ue da qui al 2029 (fine naturale del mandato Ursula).

Come ha spiegato bene Andrea Bonanni in un articolo pubblicato su La Repubblica: “La convergenza tra il cancelliere Merz, del Ppe, e la premier Meloni, esponente dei conservatori, ha prevalso sulle intenzioni più bellicose del francese Macron, liberale, e dello spagnolo Sánchez, socialista. Von der Leyen, tedesca e popolare anche lei, si è volentieri adeguata a questa improvvisata alleanza che ribalta ancora una volta la maggioranza di centro-sinistra dalla quale è stata eletta“.
Un segnale chiaro di una conflittualità crescente nell’Ue tra fronti politici che difficilmente troverà una sintesi in questa Commissione europea guidata da Ursula.

Questo è un accordo che piace a Germania e Italia. Gli altri si sono adeguati, controvoglia. Solo la Francia ha tentato di opporsi (almeno a parole).
E’ passata la linea Merz-Meloni, loro la responsabilità di ciò che accadrà da qui in poi (in Europa emerge sempre più in maniera evidente “un’alleanza silenziosa” che va dal Ppe all’estrema destra, passando per ci conservatori, una sorta di “maggioranza alternativa” nel Parlamento Ue e nelle sue commissioni, che avrà un peso crescente nelle scelte dei prossimi tempi e influenzerà con forza la Commissione Ursula).
Questo è un accordo che se sarà applicato così com’è sarà dolorosissimo per l’economia europea.
Accettare la logica dell’unilateralismo significa sottomettersi.
Basta arrendersi una volta sola a certi livelli, poi ti arrenderai sempre.

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