Multinazionali americane in Italia: 132,5 miliardi di ricavi e 227 mila occupati
Mentre in Europa si discute ancora di web tax e di come far pagare davvero i colossi stranieri, i numeri delle multinazionali americane in Italia parlano da soli. Nel 2022 hanno macinato 132,5 miliardi di dollari di ricavi nel nostro Paese, dentro un impero globale che vale 27 mila miliardi di dollari. Un confronto che basta da solo a dare la misura del peso reale delle big USA sull’economia italiana. Quando però si passa dal fatturato alle casse dello Stato, la distanza resta ampia: le imposte versate in Italia si fermano a 2,16 miliardi di dollari. Due cifre che viaggiano su piani diversi e che rendono inevitabile una domanda centrale nel dibattito di oggi: a fronte di un business di queste dimensioni, questo è davvero l’equilibrio corretto tra affari e contributo fiscale?
Da questo enorme volume d’affari, le multinazionali statunitensi hanno estratto in Italia 3,87 miliardi di dollari di utili. Un dato che aiuta a capire dove si ferma davvero il valore generato nel nostro Paese. La fotografia arriva dall’Internal Revenue Service (IRS), l’amministrazione fiscale degli Stati Uniti, equivalente della nostra Agenzia delle Entrate, che attraverso le dichiarazioni delle grandi corporation ricostruisce Paese per Paese profitti e imposte pagate dalle multinazionali americane nel mondo.
L’Italia nella rete delle multinazionali Usa
In Italia la presenza delle multinazionali americane va ben oltre i grandi marchi conosciuti dal pubblico. Nel nostro Paese operano 805 gruppi statunitensi, un numero che colloca l’Italia tra le principali piattaforme europee di insediamento. Dentro questo ecosistema, la manifattura resta il perno centrale, grazie a competenze tecniche e filiere storiche; il farmaceutico è uno dei comparti più avanzati, dove ricerca e produzione viaggiano insieme; l’automotive continua a pesare per tradizione industriale e catene di fornitura; l’ICT, infine, è il settore in espansione più rapida, spinto dalla trasformazione digitale.
Nel confronto europeo emerge così un tratto chiaro: mentre in altri Paesi la presenza americana si concentra su funzioni finanziarie o societarie, in Italia resta fortemente agganciata a produzione, industria e innovazione. Non una semplice base commerciale, ma un pezzo strutturale dell’economia nazionale.
La mappa globale delle multinazionali USA
Nel confronto con il resto d’Europa, la posizione italiana acquista ulteriore peso. Il numero dei gruppi statunitensi presenti nel nostro Paese – 805 – supera quello registrato in Irlanda (725) e Svizzera (706), si avvicina molto alla Spagna (813) e si colloca appena sotto realtà più grandi come Germania (1.067), Paesi Bassi (1.041), Francia (929) e Regno Unito (1.369). A questa presenza corrisponde una rete di 2.111 società controllate, distribuite lungo tutta la penisola e attive in quasi tutti i settori economici.
Il quadro cambia quando si passa alla dimensione globale. Le multinazionali americane sono 1.966 e controllano complessivamente 209 mila società nel mondo. La loro distribuzione non è omogenea: il Regno Unito ne ospita 7.131, il Canada 6.713, la Cina 6.000, i Paesi Bassi 5.907 e la Germania 5.437. Questi numeri mettono in evidenza una geografia economica in cui alcuni Paesi funzionano da grandi hub finanziari o societari, mentre l’Italia si distingue per una presenza più direttamente legata a produzione, lavoro e industria, coerente con il profilo che emerge dai dati nazionali.
Multinazionali USA: produzione reale o contabilità?
In Italia la presenza delle multinazionali americane non si misura solo nei bilanci: vale 31,3 miliardi di dollari di fabbriche, impianti, macchinari, magazzini e sedi operative. Non sono voci astratte, ma spazi reali in cui si produce, si assembla, si testa e si spedisce. È la parte più fisica e tangibile dell’economia, quella che non puoi delocalizzare con un clic. Ed è ciò che distingue l’Italia dai Paesi scelti solo per motivi fiscali: qui le aziende USA costruiscono stabilimenti, investono in infrastrutture, mettono persone al lavoro. Non solo un mercato da presidiare, ma un posto dove si fa industria sul serio.
Se si guarda ad esempio ai dati che arrivano da due paesi come Irlanda e Lussemburgo, il contrasto con l’Italia appare subito evidente. In Irlanda le multinazionali Usa registrano 114.215.929 dollari di ricavi, in Lussemburgo 27.563.483 dollari. Per due Paesi piccoli per popolazione e struttura industriale, sono numeri che raccontano una funzione molto diversa: qui il perno non è fatto di fabbriche, magazzini e catene produttive, ma di contabilità, funzioni societarie e regimi fiscali favorevoli. Il contrasto è netto: mentre in Italia il valore passa da impianti, lavoro e infrastrutture, in questi Paesi i ricavi scorrono soprattutto lungo i bilanci.
Multinazionali USA, il peso dell’occupazione
Che in Italia l’economia delle multinazionali americane sia fatta di produzione reale e non solo di numeri lo conferma anche il dato sull’occupazione. Nel nostro Paese lavorano 227.401 dipendenti delle aziende USA, uno dei livelli più alti in Europa. Il confronto con l’Irlanda, ancora una volta, è illuminante: lì a fronte di 1.106.433.556 dollari di ricavi si contano appena 204.217 dipendenti. Due modelli opposti. Da una parte un sistema che concentra fatturato nei bilanci, dall’altra un Paese che concentra persone, lavoro e filiere. Ed è questo che spiega perché l’Italia non sia solo un mercato da servire, ma un ingranaggio centrale dell’organizzazione industriale delle big americane, con un impatto diretto su occupazione e redditi.
Big Tech USA, se ricavi e tasse divergono
Come si vede anche dal grafico, i dati dell’Area Studi Mediobanca sulle filiali italiane delle Big Tech statunitensi mostrano una frattura evidente tra fatturato e imposte versate. Amazon guida la classifica dei ricavi in Italia con 3.222,988 milioni di euro, ma al fisco lascia appena 26,737 milioni. Ibm, con un giro d’affari più contenuto (1.790,014 milioni), è invece il primo contribuente con 58,406 milioni di euro. Microsoft registra 1.217,146 milioni di ricavi e paga 31,597 milioni, mentre Alphabet, a fronte di 1.108,881 milioni, versa 11,713 milioni.
Il distacco diventa ancora più marcato scendendo nella graduatoria. Meta fattura 400,749 milioni e paga 3,408 milioni, Salesforce 369,494 milioni con 2,952 milioni di imposte, Oracle 192,275 milioni con 2,152 milioni, ADP 77,519 milioni con 564 mila euro, Adobe 17,066 milioni con 753 mila euro. Uber, infine, con 5,212 milioni di fatturato, si ferma a 174 mila euro di tasse. La fotografia è chiara: il carico fiscale effettivo non segue una progressione proporzionale ai ricavi e disegna un quadro profondamente disallineato, in cui a volumi simili corrispondono contributi molto diversi, riflesso diretto di strategie societarie e assetti fiscali non omogenei.
Fonte: Internal Revenue Service, Area Studi Mediobanca
I dati sono aggiornati al 2022
