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Dal PNRR 730 mila posti di lavoro entro il 2026, ma come ci arriveremo tra mancanza di competenze e bassi salari?

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Nei prossimi quattro anni, la trasformazione digitale creerà 200 mila occupati in più, mentre altri 180 mila arriveranno dalla transizione ecologica. Ma come centrare quest’obiettivo se partiamo da un presente fatto di scarse competenze. bassi salari e giungla contrattuale?

Posti di lavoro creati dal PNRR in Italia

Parlare di futuro è sempre insidioso, perché inizia nel presente, nel momento in cui c’è da prendere delle decisioni. Oggi siamo ancora nel mezzo di una fase storica molto difficile, con i colpi ancora forti della pandemia di Covid-19 da un lato e con il tentativo di far ripartire l’economia e di supportare l’industria dall’altra, nonostante i problemi dell’inflazione, del rialzo dei prezzi dell’energia, delle tensioni internazionali e della carenza di materie prime e di componenti.

Secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore, su dati dell’agenzia del lavoro Randstad, grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza o PNRR, entro il 2026, in Italia ci saranno 730 mila posti di lavoro in più rispetto ad oggi.

In particolare, si legge nello studio, la trasformazione digitale porterà con sé 200 mila occupati in più, mentre grazie alla transazione ecologica ne avremo altri 180 mila.

La missione 2, o transizione green, creerà nello specifico 182 mila nuovi posti di lavoro, di cui 68 mila nel settore delle fonti energetiche rinnovabili, dell’idrogeno e della mobilità pulita, altri 68 mila nel comparto dell’efficienza energetica e della riqualificazione urbana. Altri 23 mila arriveranno dall’economia circolare, dalla tutela del territorio e delle risorse idriche.

Dalla realizzazione delle infrastrutture per la mobilità sostenibile si potrebbero ricavare altri 46 mila posti di lavoro, mentre da istruzione e ricerca ne arriveranno più o meno 114 mila.

Ma si parte da una condizione di “in-work poverty” troppo diffusa

Ma se il futuro prossimo nasce di fatto dalle scelte che si fanno oggi o che saranno fatte entro i prossimi mesi, allora il discorso cambia e lo scenario non è più tanto roseo.

Secondo la Relazione del Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia, presentata il 18 gennaio scorso dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando, e dall’economista Ocse Andrea Garnero, nel nostro Paese attualmente più di un lavoratore su dieci è povero, mentre almeno uno su quattro percepisce un salario basso o molto basso.

Siamo praticamente nella condizione definita “in-work poverty”: “condizione di povertà che riguarda i lavoratori, spinti sotto la linea della miseria da fattori che vanno dalla stagnazione retributiva a contratti precari”.

Un fenomeno non del momento, ma che viene da lontano se è vero che la quota di in-work poor in Italia è passata dal 9,4% del 2006 al 12,3% del 2017. Se poi consideriamo chi ha lavorato almeno un mese, la quota lievita al 10,3% nel 2006 e al 13,2% nel 2017.

Negli ultimi 30 anni il salario medio annuo di un lavoratore italiano è diminuito del 3% negli ultimi 30 anni, secondo stime OCSE.

Dal 1990 al 2020, il salario è cresciuto del +34% in Germania, del +31% in Francia, del +30% in Grecia e del +6% in Spagna. La pandemia ha fermato questo trend, tagliando più o meno il 2-3% dei salari in questi Paesi. In Italia il virus è stata la scusa per ridurre i salari del 6%.

Altra caratteristica di questo nostro Paese è che alla crescita del PIL ha fatto da contraltare la diminuzione dei salari, secondo l’analisi di Renzo Rosso, docente di Costruzioni idrauliche e marittime a Milano.

Cambiare il presente per creare il futuro

Tornando al Rapporto inziale, all’in-work poverty generale e all’impatto della pandemia in un mercato del lavoro già di per sé vulnerabile e in forte difficoltà, nel rapporto si legge che la pandemia “ha presumibilmente esacerbato il fenomeno, esponendo a più alti rischi di disoccupazione chi aveva contratti atipici e riducendo il reddito disponibile di chi ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure emergenziali introdotte per far fronte alle conseguenze della recessione”.

Per raggiungere i risultati prospettati e sperati del PNRR sull’occupazione serve prendere subito delle decisioni e queste non possono che passare per un rafforzamento della scuola e del sistema dell’istruzione/formazione, perché senza competenze adeguate quelle migliaia di nuovi occupati non ci saranno mai.

Serve un salario minimo adeguato, servono contratti “seri” e una vigilanza diffusa sul loro rispetto. E bisogna saper spendere bene le ingenti risorse che arriveranno.

Secondo stime fornite da Andrea Garnero, economista del lavoro presso la Direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’OCSE a Parigi, in termini di investimenti l’Italia è quello che spenderà di più per creare meno lavoro in Europa.

In Germania, ad esempio, l’impatto macroeconomico del PNRR si traduce in 28 miliardi di euro di investimenti per 135 mila nuovi occupati, cioè 4,8 posti di lavoro in più per milione di euro. in Spagna si investiranno 69 miliardi di euro per 250 mila nuovi posti di lavoro, cioè 3,6 nuovi occupati per milione di euro speso. Da noi si prospetta una spesa da 183 miliardi di euro, per arrivare a creare 240 mila nuovi occupati, cioè 1,3 nuovi posti di lavoro ogni milione di euro speso.