Finestra sul mondo

Crisi Venezuela, Netanyau in America Latina, Corte Suprema (USA) e la questione rifugiati, UE preoccupata per la Nord Stream 2

di Agenzia Nova |

Poteri, economia, finanza e geopolitica nelle ultime 24 ore

Finestra sul mondo è una rubrica quotidiana con le notizie internazionali di Agenzia Nova pubblicate in collaborazione con Key4biz. Poteri, economia, finanza, lette in chiave di interdipendenza con un occhio alla geopolitica. Per consultare i numeri precedenti, clicca qui.

Venezuela, via a nuovo dialogo: Caracas “ansiosa” di evitare sanzioni

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – Delegazioni del governo e dell’opposizione venezuelana si presenteranno oggi a Santo Domingo per sondare le possibilita’ di un nuovo dialogo che porti alla soluzione della grave crisi politica interna. Le parti rispondo a un invito del presidente della Repubblica dominicana Danilo Medina e dell’ex presidente del governo spagnolo Jose’ Luis Rodriguez Zapatero, non nuovi al tentativo di mediazione della crisi. L’annuncio e’ stato fatto a Parigi dal ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, poco dopo l’incontro il suo omologo venezuelano Jorge Arreaza. “Sono lieto di sapere che il dialogo con l’opposizione riprende domani a Santo Domingo”, spiega Le Drian con un annuncio che prende di sorpresa l’opposizione. La “Mesa de la unidad democratica” (Mud) – il fronte degli avversari politici del presidente Nicolas Maduro – dice di non saperne nulla prima di confermare l’invio di un rappresentante a quello che comunque, memore di altri tentativi andati a vuoto, non definisce un inizio del “dialogo formale col governo. Il tempo dei gesti simbolici e’ finito”, scrive la Mud spiegando che l’incontro servira’ a valutare l’effettiva disponibilita’ del governo a trattare. L’uscita del titolare della diplomazia francese, spiega il quotidiano spagnolo “El Pais”, ha “paradossalmente” messo a rischio lo stesso dialogo e sarebbe stata frutto di informazioni imprecise fornite dal collega venezuelano secondo cui la ripresa del dialogo era cosa fatta. L’ansia di Caracas di dare per riaperto il tavolo delle trattative risponde per la testata alla necessita’ di evitare imminenti sanzioni da parte dell’Unione europea. “Il ministro degli Esteri venezuelano – che oggi sara’ ricevuto dal collega spagnolo Alfonso Dastis – cerca di persuadere i governi continentali dell’inutilita’ di sanzioni economiche e politiche contro il regime chavista proprio quando questo si dispone a parlare con i suoi avversari”. Sanzioni che succederebbero a quelle comminate il 25 agosto dagli Stati Uniti e che finirebbero per rendere ancora piu’ complicato il quadro economico interno. Il governo ha mostrato piena adesione all’appuntamento ma le opposizioni hanno messo piu’ di un paletto. Chiedono tra le altre cose la liberazione dei prigionieri politici come prova di una reale volonta’ negoziale, o il mantenimento del segreto sul contenuto dei colloqui. Richiesta, quest’ultima, con cui “non solo si vogliono temperare gli effetti del rifiuto che la sola idea del negoziato provoca nei settori piu’ radicali delle opposizioni, ma anche e soprattutto per allontanare il sospetto che il governo Maduro vuole solo ottenere una fotografia della riunione per esibirla alla comunita’ internazionale come prova di disponibilita’ al dialogo”.

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America Latina, la visita di Netanyahu ratifica l’inversione di marcia della politica estera argentina

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – Il passaggio in Argentina di Benyamin Netanyahu, primo capo di governo israeliano a viaggiare in America Latina, da’ modo al quotidiano spagnolo “El Pais” di descrivere l’inversione a 180 gradi compiuta da Buenos Aires a favore della causa israeliana. L’arrivo del presidente Mauricio Macri argentina ha rivoluzionato la politica estera argentina, rompendo l’avvicinamento all’Iran (alla Cina e alla Russia) e recuperando la tradizionale alleanza con Stati Uniti e Israele. Netanyahu “ne ha approfittato per accusare l’Iran dei peggiori attentati della storia dell’Argentina, negli anni 90, e ha chiesto che sia trattato come uno Stato terrorista”. Il tutto sullo sfondo di una citta’, Buenos Aires, in cui si incrociano “non a caso” il corso Stato di Israele con la via Stato di Palestina,, dove le due comunita’, forti delle rispettive istituzioni religiose e scolastiche, convivono senza “che ci siano forti conflitti sociali”. E in un paese che grazie alla sua tradizionale accoglienza ha aperto le porte “tanto a musulmani in fuga da guerre e carestie quanto ad ebrei che scappavano dalla persecuzione religiosa in Europa”. Per la verita’ anche ad alcuni degli ex gerarchi nazisti, “punto chiave della storia nera dell’Argentina, che ha a sua volta avuto un ruolo nella visita di Netanyahu”. Macri ha consegnato al suo ospite 139.000 documenti storici sull’olocausto, compresi quelli che raccontano gli aiuti ricevuti da nomi come Adolf Eichmann. La riconversione “strategica” di Buenos Aires all’Occidente esalta pero’ la lotta politica interna argentina. cancellato il polemico memorandum d’intesa stretto nel 2013 con l’Iran, segna il brusco stop alle scelte che per oltre un decennio hanno visto la politica estera nazionale piu’ in sintonia con paesi neosocialisti come Venezuela, Ecuador, Nicaragua o Cuba. Mettendo forte l’accento sul caso Nisman, il magistrato morto poche ore prima di consegnare al Parlamento argentino la sua accusa contro l’ex presidente Cristina Kirchner e il ministro degli Esteri Hector Timerman, ritenuti colpevoli di aver coperto le presunte responsabilita’ di Teheran nell’attentato del 1994 alla sede dell’Amia, che costo’ la vita a 85 persone. Netanyhau si muove ora alla volta di Colombia e Messico, “due paesi che non hanno mai abbandonato il tradizionale asse delle relazioni estere latinoamericane e che ora sono nelle mani di governi di centrodestra”, e dove cerchera’ di dare altro vigore alle ambizioni di crescita nei rapporti commerciali. “La nuova relazione con l’Argentina porta con se’ interscambi commerciali piu’ robusti, investimenti di imprenditori israeliani e possibili acquisti di materiali di sicurezza,tema molto polemico in un paese in cui ogni episodio di repressione poliziesca provoca intense discussioni politiche”.

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Usa, la Corte Suprema si schiera con l’amministrazione Trump sugli ingressi dei rifugiati

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – La Corte Suprema degli Stati Uniti si e’ schierata con la Casa Bianca martedi’, bocciando la sentenza di una corte inferiore che aveva sospeso le modifiche apportate dall’amministrazione Trump ai decreti in vigore per ridurre l’afflusso di rifugiati nel paese. La massima autorita’ giudiziaria statunitense ha emesso un pronunciamento lungo appena un paragrafo, concedendo al governo l’autorizzazione a mantenere in vigore un ordine esecutivo che bloccherebbe l’ingresso di 24 mila rifugiati che hanno ottenuto l’assistenza di sponsor statunitensi. La Corte d’appello del Nono distretto, nota per il suo orientamento politico di sinistra, e che gia’ era intervenuta contro il cosiddetto “Muslim Ban” – il blocco temporaneo agli ingressi da sei paesi a maggioranza musulmana – aveva decretato che quei 24 mila rifugiati avessero il diritto di essere accolti nel paese. La battaglia legale tra l’amministrazione Trump e alcune corti statunitensi sul tema dell’immigrazione e’ iniziata lo scorso gennaio, quando il presidente ha firmato la prima versione del suo controverso bando agli ingressi di rifugiati e cittadini stranieri; l’obiettivo ufficiale della Casa Bianca e’ di delineare nuove politiche e procedure di verifica degli ingressi, cosi’ da limitare i rischi alla sicurezza nazionale. I detrattori del presidente, invece, lo accusano di essere razzista. La Corte Suprema ha stabilito che Trump possa bloccare parzialmente gli ingressi di rifugiati, tranne che per gli individui che godano di criteri di “buona fede”: la presenza negli sa di parenti stretti, un’offerta di lavoro da parte di un’azienda nel paese o un posto riservato in un ateneo Usa. In contemporanea con l’ultimo pronunciamento della Corte Suprema, la Casa Bianca ha annunciato che il prossimo anno la quota massima di rifugiati accolti negli Stati Uniti potrebbe essere ridotta a 50 mila unita’; si tratterebbe del numero piu’ stringente dal 1980, quando gli Usa introdussero il Refugee Act. L’ex presidente Usa Barack Obama aveva fissato per il 2016 una soglia massima di 110 mila rifugiati.

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“Bloomberg”, “i curdi iracheni hanno guadagnato il diritto all’indipendenza”

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – Eli Lake, opinionista di “Bloomberg” specializzato nelle tematiche di intelligence e sicurezza nazionale, dedica un editoriale all’imminente referendum sull’indipendenza organizzato dalle autorita’ del Kurdistan iracheno: una prospettiva che ha messo in allarme i maggiori attori regionali, ma che negli ultimi giorni ha ricevuto l’appoggio esplicito del governo di Tel Aviv, e che ha suscitato da parte degli Usa reazioni ambivalenti. Lake si chiede come possa destare scandalo “un gruppo etnico che insegue l’autodeterminazione nel Medio Oriente, i cui leader hanno rinunciato al terrorismo ,e le cui milizie combattono fianco a fianco ai militari Usa”. I curdi iracheni “hanno edificato un parlamento, universita’ e infrastrutture in vista di uno Stato indipendente”: un obiettivo che hanno perseguito “attraverso un processo legale riconosciuto, delineato dalla Costituzione del loro paese”. Secondo l’opinionista, sarebbe naturale ritenere che il Governo Usa ritenga i curdi i candidati ideali all’ottenimento di uno Stato, specie in una regione dove l’autodeterminazione “e’ spesso perseguita attraverso la violenza”. Sinora, invece, l’amministrazione del presidente Usa Donald Trump “ha lavorato assiduamente per dissuadere il Governo regionale del Kurdistan Iracheno dal concedere alla sua gente di votare per l’indipendenza”. La ragione accampata da Washington riguarda principalmente l’errato tempismo del referendum: il prossimo anno, infatti, anche gli iracheni dovrebbero essere chiamati alle urne, e un referendum per la secessione dei curdi indebolirebbe il premier Haider al Abadi, proprio dopo la sua campagna di successo contro lo Stato islamico nel paese. Quel che e’ peggio, il referendum dei curdi darebbe agli iracheni in altre aree contese, come il Sinjar e la citta’ di Kirkuk, ricca di petrolio, l’opportunita’ di scegliere tra Baghdad e un nuovo Stato curdo indipendente. Si tratta di obiezioni comprensibili, secondo Lake, che pero’ non sono servite da deterrente a una iniziativa espressamente prevista dalla Costituzione irachena, e che la leadership dei curdi ha gia’ rinviato per anni. Secondo l’opinionista, “e’ giunto il momento per i curdi iracheni di esprimere formalmente un concetto gia’ chiaro a quanti seguono la questione: i curdi meritano un loro Stato”. Gli Usa, anziche’ guardare al referendum come ad un problema, “dovrebbero ritenerlo un’opportunita’”: i curdi “sono una minoranza etnica che per la maggior parte ha fatto ogni cosa formalmente richiesta ai gruppi che perseguono la statualita’”, al contrario ad esempio “dei palestinesi, che hanno dilapidato miliardi di dollari in aiuti e lunghi anni di attenzione internazionale, e ancora non dispongono del tipo di istituzioni funzionali che il mondo da’ invece per scontate a Erbil”. Esiste un paio di altre differenze fondamentali tra i curdi e gli arabi palestinesi, prosegue l’opinionista: poiche’ i primi non sono arabi, la loro causa “non ha mai ottenuto il sostegno degli Stati arabi nella regione”. E Israele “non ha mai commesso (contro i palestinesi, ndr) lo stesso tipo di crimini di guerra su larga scala che Saddam Hussein e i governi turchi hanno invece commesso contro i curdi”. Questi ultimi, inoltre, “non accampano alcuna rivendicazione su Baghdad”, mentre Gerusalemme e’ rivendicata tanto dagli israeliani quanto dai palestinesi. La differenza maggiore tra i due casi, pero’, “potrebbe risiedere negli interessi nazionali degli Stati Uniti”: secondo Lake, gli Usa hanno oggi urgente bisogno di alleati affidabili nella Regione mediorientale, considerata la frustrazione e l’instabilita’ di tanti attori locali e l’assenza di una “robusta politica di contenimento dell’Iran”. Nell’arco degli ultimi 25 anni, conclude l’opinionista, i curdi “hanno edificato uno Stato degno dell’indipendenza con la protezione delle Forze armate Usa”, e Washington dovrebbe perseguire attivamente tale obiettivo, anziche’ “trastullarsi con questioni di tempismo”.

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Regno Unito, il governo punta a un accordo di transizione molto simile allo status quo

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – Il cancelliere dello Scacchiere del Regno Unito, Philip Hammond, parlando alla commissione Affari economici della Camera dei Lord, riferisce il quotidiano britannico “The Guardian”, ha rivelato che il governo punta a un accordo di transizione “molto simile allo status quo” per minimizzare l’impatto della Brexit sull’economia, spiegando che si vuole evitare che le imprese debbano adattarsi a piu’ di un cambiamento. Il ministro ha ribadito che il paese uscira’ dal mercato unico e dall’unione doganale nella primavera del 2019, ma che punta a negoziare un’intesa che permetta a merci e servizi di attraversare le frontiere come adesso. Per ottenerlo e’ disposto ad accettare che, sebbene la liberta’ di circolazione delle persone tecnicamente finira’, ci vorra’ tempo per introdurre controlli sull’immigrazione. Sulle dogane il responsabile delle Finanze ha aggiunto che Londra accetta di non poter concludere accordi con terze parti durante la fase di transizione. La posizione espressa dall’esponente dell’esecutivo non e’ troppo lontana da quella di Keir Keir Starmer, segretario ombra per la Brexit del Labour, principale partito di opposizione, per il quale lo status quo significa restare nel mercato unico e nell’unione doganale durante la transizione. Hammond si e’ soffermato molto sugli accordi doganali: “Chiunque abbia visitato Dover sapra’ che funziona come un porto di flusso e che i volumi di commercio non possono essere sistemati se le merci sono trattenute per le ispezioni. Ho il sospetto che perfino se fossero trattenute per pochi minuti cio’ impedirebbe le operazioni portuali”, ha dichiarato. La Gran Bretagna e la Commissione europea hanno concordato di rinviare di una settimana, al 25 settembre, l’inizio del prossimo round di colloqui perche’ la premier britannica, Theresa May, terra’ un discorso sulla Brexit il 21 settembre.

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Regno Unito, May cede alle pressioni e rimuove il limite all’aumento degli stipendi pubblici

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – Il governo del Regno Unito, riferisce il “Financial Times”, ha annunciato che abolira’ il tetto dell’uno per cento all’aumento annuale degli stipendi dei lavoratori pubblici, in vigore da sette anni, una delle piu’ controverse misure di austerita’ introdotte dopo la crisi finanziaria. A beneficiarne saranno, pero’, solo gli agenti di polizia e le guardie carcerarie, le cui retribuzioni aumenteranno del due per cento (per meta’ sotto forma di un bonus una tantum) e dell’1,7 per cento rispettivamente. Maggiore “flessibilita’” e’ stata promessa per il bilancio dell’anno prossimo. Un portavoce di Downing Street ha precisato che non ci sara’ una trattativa. I sindacati, la cui confederazione Trades Union Congress (Tuc) si e’ riunita ieri a Brighton, nello stesso giorno in cui le statistiche ufficiali hanno reso noto che l’inflazione dei prezzi al consumo e’ salita al 2,9 per cento, hanno espresso insoddisfazione per il provvedimento e minacciato lo sciopero. Il loro obiettivo e’ un aumento del cinque per cento per l’intera forza lavoro pubblica, che conta cinque milioni di persone. I leader sindacali hanno bocciato l’annuncio all’unanimita’; anche per i rappresentanti degli agenti di custodia l’offerta “non e’ abbastanza buona”. Jeremy Corbyn, leader del Labour, principale partito di opposizione, intervenuto al congresso del Tuc, ha promesso che se andasse al governo rimuoverebbe il limite agli adeguamenti salariali dando a tutti cio’ che meritano.

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Francia, le lezioni della prima manifestazione contro la riforma del Lavoro

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – Allora, chi ha vinto e chi ha perso? si chiede sul periodico “Le Nouvel Observateur” il commentatore politico Sylvain Courage, che azzarda un bilancio della giornata di manifestazioni contro la riforma del Lavoro organizzate in Francia dalla centrale sindacale Cgt di ispirazione comunista: ha vinto la piazza o il governo? hanno vinto i difensori dei diritti sociali acquisiti o i riformatori del Codice del lavoro, che al governo ostentano “serenita’”? A vincere, almeno per il momento, la partita della prima grande protesta sociale del suo quinquennato e’ il presidente Emmanuel Macron; oppure i leader dell’opposizione di estrema sinistra, il segretario generale del Partito comunista (Pcf) Philippe Martinez ed il capo della coalizione “La France insoumise” (“La Francia non-sottomessa”, ndr) Jean-Luc Me’lenchon? La mobilitazione popolare, ammette il giornale progressista, non e’ stata entusiasmante; anche se la partecipazione alle manifestazioni puo’ far sperare il comunista Martinez in una escalation per il futuro appuntamento del 21 settembre con la piazza, confortato soprattutto dai sondaggi secondo cui il 57 per cento dei francesi e’ contrario ai decreti attuativi della riforma del Codice del lavoro che il governo varera’ ufficialmente nei prossimi giorni. Ma questa vasta opinione pubblica contraria alla riforma si muovera’ o restera’ inerte? Se lo chiede anche la “France insoumise”, che ieri non ha partecipato all’organizzazione delle manifestazioni puntando tutto su una sua propria giornata nazionale di mobilitazione convocata per il 23 prossimo; il leader Me’lenchon era comunque in piazza ed ha potuto toccare con mano tutta l’incertezza sull’esito di questa battaglia politico-sociale: questa campagna di proteste lo consacrera’ alla testa dell’opposizione oppure ne ridimensionera’ il ruolo politico? Soppesando i dubbi, il leader “non-sottomesso”, che aveva promesso di “far recedere” Macron, ora sta persino pensando di unire le forze con i comunisti e trattare con loro per unificare le rispettive manifestazioni del 21 e 23 settembre. Perche’ e’ proprio sulle divisioni interne alle sinistre che il governo di Macron e del suo primo ministro Edouard Philippe conta per vincere il braccio di ferro: i dissidi infatti non si limitano ai partiti di estrema sinistra; molto piu’ significativamente coinvolgono anche i sindacati, mai come ora divisi sul da farsi. Le altre due grandi organizzazioni dei lavoratori, Force Ouvrie’re (Fc) e la cattolica Cfdt, hanno infatti scelto il dialogo con l’esecutivo, per pesare nei negoziati sull’applicazione concreta della riforma del Lavoro e su altre riforme gia’ annunciate da Macron: “La piazza non e’ la forma di lotta sindacale piu’ appropriata”, ha tagliato corto il leader della Cfdt Laurent Berger. E cosi’ l’estrema sinistra si affida all’estremismo delle parole d’ordine: “L’obbiettivo ultimo e’ la presa del potere”, spiegano quelli di Me’lenchon. Questa retorica insurrezionale, commenta Sylvain Courage sul “Nouvel Observateur”, puo’ forse sedurre quella parte della gioventu’ che smania per l’azione; ma bastera’ a riunire e smuovere milioni di francesi?

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Timori della Ue per il Nord Stream 2

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – L’Ucraina, i Paesi dell’Europa orientale e la Commissione dell’Unione europea sono allarmati dal progetto Nord Stream 2 che prevede di trasportare piu’ gas dalla Russia in Germania dal 2019 in poi. Secondo la Commissione, l’80 per cento di tutte le forniture di gas russe entrerebbe nella Ue attraverso i tubi esistenti e attraverso i nuovi del Mar Baltico. Cio’ creerebbe una situazione completamente nuova. Secondo il governo federale piu’ gas equivale a piu’ sicurezza per l’approvvigionamento energetico. Tuttavia per la Commissione cio’ rappresenta un problema, perche’ renderebbe superflui i percorsi gia’ esistenti in Ucraina e Bielorussia. Gli europei non si possono opporre al potere del gruppo russo Gazprom. La Germania ha sempre usufruito della Russia ora, e dell’Unione Sovietica prima, come un fornitore d’energia affidabile. Tuttavia non puo’ ignorare il fatto che alcuni partner europei abbiano motivate paure. Pertanto la Germania non dovrebbe opporsi al fatto che la Commissione europea stia negoziando con la Russia sulle condizioni del passaggio del gasdotto nel Mar Baltico.

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Siria, “Sueddeutsche Zeitung”: armi statunitensi per i ribelli attraverso la Germania

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – L’esercito Usa ha fornito armi e munizioni ai ribelli siriani tramite la base militare di Ramstein, nella Renania-Palatinato, in violazione alla legge tedesca. A denunciarlo e’ la “Sueddeutsche Zeitung”, che ha condotto per mesi un’indagine con la collaborazione delle organizzazioni giornalistiche Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) e Balkan Investigative Reporting Network (Birn). Il governo federale tedesco sostiene di non sapere nulla riguardo all’invio di armamenti in Siria dal territorio tedesco. L’amministrazione del presidente Usa Barack Obama ha sostenuto i ribelli siriani per anni tramite diversi programmi, fornendo armi e addestramento. Uno dei programmi e’ quello organizzato dalla Cia, denominato Timber Sycamore, a supporto dell’Esercito libero siriano (Fsa). Obama aveva approvato il programma nel 2013, dopo lunghe discussioni in seno al governo. Donald Trump ha terminato il programma i primi di luglio, su raccomandazione della Cia. Tuttavia continua a essere attivo un altro programma del dipartimento della Difesa statunitense, volto a formare ed equipaggiare i ribelli per la lotta contro lo Stato islamico (Isis). Stando al quotidiano tedesco, il Pentagono e l’intelliegnce Usa hanno acquistato clandestinamente nell’Europa Orientale e nei Balcani armi e munizioni per centinaia di milioni di dollari, che poi hanno inviato ai ribelli in Siria. A febbraio, Christian Stroebele, parlamentare tedesco del partito dei Verdi, ha chiesto al governo federale di rendere conto delle possibili consegne di armi statunitensi per la Siria attraverso la base Usa di Ramstein. Gli Stati Uniti hanno negato di non aver raccontato tutta la verita’ a Berlino, e Berlino si e’ detta all’oscuro. Secondo la “Sueddeutsche Zeitung”, pero’, il governo tedesco probabilmente sapeva: gia’ nel dicembre 2015 il quotidiano serbo “Vecernje Novosti” aveva riferito di armi e munizioni trasportate da un velivolo militare degli Stati Uniti a Ramstein, e da li’ alla Siria. Una relazione dell’Onu, pubblicata nel luglio 2016, elenca 11.970 armi da fuoco e 50 mitragliatrici pesanti trasportate dalla Serbia a una “base militare statunitense in Germania”. Anche se Ramstein si trova sul suolo tedesco, senza una espressa autorizzazione delle autorita’ militari tedesche i funzionari e i politici tedeschi non possono visitarla. Pertanto ci sono pochi riferimenti ad attivita’ che violano il diritto tedesco o internazionale. In passato, da quella base fu trasportato in Egitto almeno un sospetto terrorista proveniente dall’Italia. la “Sueddeutsche Zeitung” in passato ha anche denunciato il ruolo centrale di Ramstein per le operazioni letali antiterrorismo effettuate dagli Usa tramite droni.

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“Les Echos”, l’Italia e’ incapace di far fronte alle catastrofi naturali

13 set 10:59 – (Agenzia Nova) – In Italia la parola intemperie fa rima con imperizia, quella delle amministrazioni locali e dei poteri pubblici, che ai flagelli naturali che colpiscono regolarmente la Penisola si limitano ad opporre un colpevole fatalismo che spesso si rivela micidiale: cosi’ il quotidiano francese “Les Echos” giudica le conseguenze delle recenti scosse di terremoto e le inondazioni che hanno colpito l’Italia negli ultimi giorni. Nell’articolo il corrispondente da Roma, Olivier Tosseri, sottolinea come in Italia anche i sismi di scarsa entita’ causano enormi danni e molte piu’ vittime di quante si avrebbero se si assumessero normali misure di precauzione; e se non sono i terremoti, allora ad uccidere sono le piogge torrenziali, che gli italiano hanno ribattezzato “bombe d’acqua” per la loro virulenza e che nello scorso fine settimana hanno provocato sette morti a Livorno ed immensi danni a Roma: se pero’ le condizioni climatiche e meteorologiche possono essere fuori dal normale, in Italia la passivita’ delle autorita’ pubbliche e’ la regola. Tuttavia, ricorda il giornale francese, gia’ dal 2014 dopo le inondazioni a Genova ed in Liguria il governo aveva deciso di varare un serio piano di lotta all’instabilita’ idro-geologica che minaccia gran parte del territorio della Penisola, l’88 per cento dei Comuni ed una popolazione complessiva di oltre 7 milioni di italiani; ed aveva istituito presso la presidenza del Consiglio la missione Italia Sicura che, con una dotazione di 7,7 miliardi di euro da spendere entro il 2023 per rinforzare le dighe, consolidare gli argini dei fiumi e ripulire i canali di scolo. Da allora pero’ solo 114,4 milioni di euro sono stati spesi, cioe’ appena l’1,5 per cento della somma stanziata: a questo ritmo, ci vorranno 200 anni per investirla tutta nei circa 9 mila progetti giudicati “necessari e prioritari”; soltanto il 6 per cento dei quali sono piu’ o meno pronti per essere varati. Gli stessi funzionari di Italia Sicura riconoscono il “ritardo storico” in materia di un paese che “non ha la cultura della prevenzione”: come risultato, conclude l’articolo di Tosseri, se la pioggia di euro promessa dal governo non arriva sul territorio per metterlo, quella che cade dal cielo continuera’ in tutta impunita’ a seminare con regolarita’ morte e devastazione.

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