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‘Crisi Tlc, 20mila posti a rischio nelle telco. Quali misure per avviare confronto con i sindacati’. Interrogazione Pd a ministro del Lavoro e Mimit

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Depositata tre giorni fa l’interrogazione dei deputati Pd Andrea Orlando, Peluffo, Gnassi, Di Sanzo, De Micheli al Ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso e al Ministro del lavoro e delle politiche sociali Marina Calderone su “Quali urgenti iniziative intendano adottare per avviare un immediato confronto con le organizzazioni sindacali del settore delle telecomunicazioni”.

“I sottoscritti chiedono di interpellare il, per sapere – premesso che:

   il settore delle telecomunicazioni, con oltre 120 mila addetti, è arrivato ad un bivio drammatico. Sono a rischio reale oltre 20.000 posti di lavoro diretti nel solo perimetro delle telco, senza calcolare gli effetti che saranno generati nell’intero sistema degli appalti del settore, sia per quel che concerne l’impiantistica, la manutenzione, l’installazione delle reti sia fisse che mobili, che per il settore dell’assistenza clienti nella sua interezza;

   un settore che oggi dovrebbe rinnovarsi per diventare perno centrale della transizione digitale e munirsi di una rete funzionale alle reali esigenze del Paese, e che subirà un ulteriore ridimensionamento, con una perdita enorme per il lavoro e per l’Italia, tenuto conto dei ritardi su banda ultralarga e le reti 5G, nonostante il fatto che le Tic siano al centro della transizione digitale;

   per la digitalizzazione della sola pubblica amministrazione, nel PNRR si prevedono sette interventi e tre riforme recanti risorse pari complessivamente a 6,146 miliardi di euro;

   per denunciare tale grave congiuntura, il 6 giugno 2023, le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori hanno indetto una giornata di sciopero del comparto che ha registrato punte di adesione dell’80 per cento;

   il settore delle telecomunicazioni, in tutti i Paesi tecnologicamente avanzati, è uno dei pochi comparti ancora in grado di coniugare occupazione di qualità, nonostante la fase di grande difficoltà che tutto il continente attraversa;

   nel nostro Paese il settore brucia oltre un miliardo di ricavi l’anno, con un lento e inesorabile stillicidio occupazionale, che nell’ultimo decennio ha praticamente dimezzato la forza lavoro dei maggiori gestori italiani. Sul versante occupazionale, infatti, il settore è stato caratterizzato negli ultimi 15 anni dal continuo ricorso ad ammortizzatori sociali, esodi incentivati, tagli nella contrattazione aziendale, perdite di professionalità importanti e blocco pressoché totale del ricambio generazionale;

   ad incidere negativamente su tale situazione non può non evidenziarsi un modello industriale che ha puntato sulla separazione della gestione delle infrastrutture di rete dai servizi. Una soluzione che rischia di impoverire ancor di più il settore, trasformando aziende leader del comparto in meri rivenditori di servizi, con un azionariato di riferimento, spesso, neanche italiano. Un modello che imporrà una continua ricerca della riduzione della struttura dei costi, con inevitabili ed ulteriori ricadute sui livelli occupazionali;

   una strategia che ha visto il suo compimento con la recente decisione della vendita della rete Tim al fondo statunitense Kkr, presa dal consiglio di amministrazione a maggioranza, con il voto favorevole di 11 consiglieri e contrario di tre, e con l’annunciata battaglia legale da parte del gruppo Vivendi;

   con tale decisione, avallata dall’Esecutivo, si evidenzia la mancanza di una reale visione di politica industriale per il Paese, cui sono strettamente legate le sorti per circa 17.000 lavoratori, con un’età media di 50 anni, per i quali non sono ben chiare le prospettive industriali e certezze occupazionali, senza contare le ricadute per tutto il sistema dell’indotto;

   a riprova, si consideri a giudizio dell’interrogante la paradossale decisione del Governo di stanziare 2,5 miliardi di euro per consegnare la rete in mano ad un fondo d’investimento che si è impegnato per un arco temporale di soli 5 anni. Con il risultato di contraddire le dichiarazioni e gli annunci a favore di una «rete nazionale» e la consegna di un asset strategico per il futuro, non solo industriale, del Paese a un gruppo straniero di investimenti finanziari;

   secondo quanto dichiarato dall’amministratore delegato di Tim, degli attuali 36 mila dipendenti (full time equivalent), 20 mila andranno in NetCo, la società che gestirà la rete, mentre gli altri 16 mila faranno capo alla nuova Tim, divisi in 5 mila su enterprise e i restanti 11 mila su consumer, di cui 4 mila nei call center;

   numeri che fanno emergere, soprattutto per quanto concerne la gestione della rete, significative differenze rispetto ai modelli organizzativi delle altre principali imprese del settore;

   ad accentuare la preoccupazione per le ricadute occupazionali, non può non registrarsi l’emblematica circostanza del mancato coinvolgimento da parte dell’Esecutivo non solo delle organizzazioni sindacali, ma anche della stessa Ministra del lavoro e delle politiche sociali –:

   quali urgenti iniziative intendano adottare per avviare un immediato confronto con le organizzazioni sindacali del settore delle telecomunicazioni, al fine di scongiurare che si determini un ulteriore depauperamento occupazionale e la dispersione delle competenze professionali di migliaia di lavoratori, al contempo restituendo un ruolo centrale al Ministro del lavoro e delle politiche sociali su un tema di tale rilevanza sociale ed occupazionale”.

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