l'analisi

Ponte Morandi, ecco come uscire dal degrado del sistema infrastrutturale italiano

di Maurizio Baravelli, Ordinario di Corporate e Investment banking - Sapienza Università di Roma |

I ritardi delle modernizzazioni infrastrutturali in Italia non sono dovuti alla mancanza di finanziamenti. Anzi, bisogna tenere presente che i fondi sono spesso disponibili ma le opere sono bloccate per aspetti procedurali e burocratici.

Il grave disastro del crollo del ponte Morandi di Genova ha sollevato un ampio dibatto sullo stato del nostro patrimonio infrastrutturale e sul suo grado di sicurezza. Esso risale in gran parte agli anni Sessanta del secolo scorso per cui si tratta di opere che hanno esaurito il loro ciclo vitale tenuto conto delle tecniche e dei materiali di costruzione di quel tempo. Si è osservato inoltre che non è mai stato fatto un inventario nazionale sullo stato di conservazione delle opere pubbliche, né che esiste un programma di rifacimento di quelle maggiormente precarie in luogo di continuarne una manutenzione che sta costando di più senza assicurarne una adeguata sicurezza. Una situazione quindi a dir poco disastrosa, da tutti i punti di vista. Oltre ai ponti, che continuano a crollare in diverse regioni d’Italia, al Nord come al Sud, va segnalato, ma anche questo è noto, lo stato di totale degrado delle periferie di molte città dove le infrastrutture sono fatiscenti o addirittura inesistenti (mai costruite) senza citare il caso emblematico di Roma con il dilagare ormai da anni delle buche, spesso vere voragini, per le strade di tutta la città. Anche questa è una emergenza che non ha ancora trovato una soluzione.

La situazione di inadeguatezza delle nostre infrastrutture è nota e se ne parla da tempo, così come è noto che negli ultimi decenni la spesa pubblica per le infrastrutture è stata fortemente ridotta. Se la crisi finanziaria pubblica può essere indicata, come viene indicata, tra le cause del taglio della spesa per le infrastrutture, questa è solo una giustificazione di facciata. Le vere cause sono ben altre. E’ pur vero che l’elevato debito pubblico italiano e l’impegno di ridurlo limitano il ricorso all’avanzo primario per fare nuovi investimenti pubblici; tuttavia, bisogna tenere presente che i fondi sono spesso disponibili ma le opere sono bloccate per aspetti procedurali e burocratici. Così come gran parte dei fondi europei assegnati all’Italia resta inutilizzato. O perché i progetti presentati dalle amministrazioni territoriali non rispondono alle condizioni di sostenibilità o perché sono presentati con ritardo, o perché, va pure detto, non vi sono addirittura i progetti per la mancanza di idee e di iniziative.

Il paradosso di questa situazione è che la qualità delle infrastrutture è una condizione essenziale per lo sviluppo soprattutto per un paese come l’Italia che deve rilanciare la crescita e l’occupazione e deve aumentare la propria capacità competitiva. Per di più stiamo assistendo in questi ultimi anni, con la ripresa dei redditi, a un rilancio degli investimenti infrastrutturali in tutto il mondo mentre noi siamo pressoché fermi subendo in tal modo un ulteriore indebolimento rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo.

Un’economia che investe nel suo sistema infrastrutturale, stando così al passo della modernizzazione, oltre a migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti, contribuisce a elevare la competitività delle proprie imprese e del proprio sistema produttivo. Non solo ne contiene i costi con la creazione di economie esterne ma ne promuove anche l’innovazione. Pensiamo all’importanza delle infrastrutture dedicate alla ricerca e alla formazione del capitale umano. Ma sono pure determinanti per un’economia efficiente quelle che riguardano le reti energetiche (gas e elettricità), i trasporti e le comunicazioni (strade, autostrade, porti, ferrovie, aeroporti, reti telefoniche e digitali).

Per la qualità della vita sono essenziali le infrastrutture che qualificano in particolare le aree urbane come le reti di illuminazione, gli acquedotti, le reti fognarie, i parchi; e quelle riguardanti la sicurezza fisica e la tutela della salute. Sono in generale infrastrutture tutti i beni collettivi diretti soddisfare bisogni pubblici. Negli ultimi anni in tutti i paesi industrializzati si sta assistendo a una forte innovazione dei servizi collettivi grazie alle nuove tecnologie digitali che ne riducono i costi e ne elevano la qualità. Tutto ciò ribadisce la centralità delle infrastrutture nella vita economica e sociale di un paese.

A questo punto, viste le carenze del sistema infrastrutturale italiano, il suo rilancio dovrebbe essere una priorità del Governo del cambiamento. Ciò anche per rimettere in moto l’economia e creare soprattutto nuovi posti di lavoro grazie all’effetto moltiplicativo di tali investimenti. Si pensi solo agli stimoli che possono derivare da un programma di più intensa manutenzione. Al contrario pare che le società concessionarie delle nostre autostrade abbiamo negli ultimi anni tagliato gli organici e ridotto la spesa. Ma bisogna che il Governo pensi a realizzare soprattutto investimenti innovativi e non semplici rifacimenti delle strutture esistenti. Perché, come ho già avuto modo di dire su questo giornale (cfr. “Rilancio economico e sistema bancario, le maggiori leve del contratto di governo” del 25 maggio), la spesa per investimenti in beni collettivi deve avere ricadute soprattutto sui settori tecnologicamente più avanzati in modo da promuoverli visto il ritardo che stiamo accumulando su questo fronte. Naturalmente ciò significa anche migliori prestazioni e maggiore efficienza delle stesse infrastrutture. Occorre quindi che gli appalti siano assegnati alle imprese più accreditate sul piano tecnologico sia nella progettazione che nella realizzazione. Poiché la qualità dei progetti riguarda anche la loro sostenibilità economica, che spesso è la causa per cui non sono finanziati, essi devono passare al vaglio della valutazione dei costi e benefici ma occorre saper decidere in tempi brevi.

E qui sta il vero nodo da sciogliere. Come ha ricordato Sabino Cassese (Corriere della Sera del 18 agosto: “L’Italia che fa e disfa”), il nostro paese è arcinoto per la sua incapacità di decidere ma ora anche per ritornare sulle decisioni prese, di andare avanti e indietro, senza concludere alcunché. Ma occorre aggiungere: senza avere una vision strategica da perseguire. Invece, specie nelle grandi scelte è necessaria una continuità di orientamento. Una continuità che, in realtà, non c’è mai stata, perché al di là dei governi che pensano ogni volta diversamente, in Italia non c’è mai stata una vera e propria strategia delle infrastrutture, un piano generale da attuare nel tempo. Questa incapacità di decidere e di varare piani a medio-lungo termine condivisi non è solo frutto dei veti incrociati ma deriva anche da una incapacità di visione e di progettazione. Quando poi le decisioni sono prese, è la burocrazia a rallentarne l’applicazione. Quindi il problema finanziario, è bene rimarcarlo, è un problema di livello successivo perché prima bisogna avere una strategia, poi decidere quali progetti realizzare coerentemente con tale strategia, e, cosa essenziale, fare buone progettazioni sul piano tecnico e al tempo stesso sostenibili sul piano finanziario. Il finanziamento è l’ultimo passaggio della filiera.

Il ministro dell’Economia e delle finanze Giovanni Tria, sull’onda della tragedia del ponte Morandi, ha affermato la necessità di un grande piano di investimenti pubblici e che i fondi non mancano e comunque si possono reperire. Staremo a vedere in concreto quale sarà la condotta effettiva. Nel bilancio dello Stato, dice Tria, sono stanziati 150 miliardi già scontati nel deficit, di cui 118 miliardi già attivabili. Occorre però negoziare lo scorporo di tali investimenti dal calcolo del deficit. E qui sta il primo problema perché non sarà cosa facile ottenere l’autorizzazione della Ue visto che l’Italia ha già goduto di margini di flessibilità. Perché allora Tria non comincia a ragionare in modo concreto anche sull’uso dei fondi europei, in aggiunta a quelli nazionali? Intanto il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, oltre a fare l’elenco delle opere da mettere in sicurezza, dovrebbe stabilire un piano delle nuove opere da realizzare, sciogliendo pure le riserve sui grandi progetti messi in discussione dal nuovo governo, e verificare la compatibilità tra tale piano e le risorse necessarie. Queste in buona parte ci sono ma non sono utilizzate o sono male utilizzate. Basti pensare ai finanziamenti assegnati all’Italia dal piano Junker e ancora in gran parte da spendere (ma quali investimenti sono stati finora realizzati e con quali risultati?).

Ma si deve pensare pure alla mobilitazione dei capitali privati. Le modalità sono varie compresa quella del partenariato pubblico-privato. Quando i progetti sono di qualità e sostenibili si può ricorrere ai finanziamenti dei cosiddetti “fondi infrastrutturali”. Questi sono intermediari specializzati nel finanziamento delle infrastrutture con l’apporto soprattutto di equity. I “fondi infrastrutturali” si stanno sviluppando in tutto il mondo perché il business delle infrastrutture sta fortemente crescendo e attira i capitali internazionali. Inoltre il settore privato può partecipare al finanziamento delle infrastrutture anche attraverso le “società infrastrutturali “ che a loro volta si finanziano presso le banche o emettendo proprie obbligazioni quotate. Vi è poi da considerare che se le infrastrutture sono affidate in concessione a imprese private sono queste eventualmente a doversi indebitare per effettuare gli investimenti di ammodernamento. In questo modo lo Stato subisce minori pressioni sul debito pubblico. In ogni caso un ruolo rilevante può essere svolto dalla Cassa Depositi e Prestiti che è in grado di supportare con varie soluzioni finanziarie gli investimenti in molti comparti dei servizi pubblici. Quindi è opportuno che questo istituto nazionale venga coinvolto nella definizione del ricordato piano di investimenti pubblici con un ruolo di regia e di coordinamento sul piano finanziario.

Il Presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani continua a sottolineare che l’Italia può contare su di un ampio sostegno finanziario europeo. Nel bilancio 2014-2020 ci sono stati assegnati 2,5 miliardi per strade e ferrovie e in aprile è stato sbloccato il piano di investimento per le autostrade per 8 miliardi e mezzo. Quanto alla flessibilità di bilancio, nel 2017 sono stati autorizzati 3 miliardi per investimenti e messa in sicurezza di infrastrutture; quest’anno è stato reso compatibile con le regole sugli aiuti di Stato il programma italiano di spese in infrastrutture, ivi compreso il nodo autostradale di Genova. Nel bilancio 2021-2027 sono previsti ulteriori fondi soprattutto per le ferrovie. Inoltre si potrebbero utilizzare anche i fondi regionali della UE e i fondi Bei.

Ciò premesso, appare del tutto chiaro che se il problema non è tipicamente e soprattutto finanziario, occorre che il Governo del cambiamento intervenga per sciogliere tutti gli altri nodi che impediscono di avviare processi decisionali più rapidi e lineari. Il codice degli appalti va ancora migliorato? Occorrono semplificazioni burocratiche? Occorre rivedere i livelli di competenza tra il governo centrale e le amministrazioni territoriali? Come migliorare la progettazione? Come meglio assistere le amministrazioni territoriali che non sempre dispongono delle necessarie competenze? Perché non realizzare più strette collaborazioni con le università? E perché non stanziare fondi da destinare alla progettazione per migliorarne la qualità? Ciò che occorre fare su questi aspetti si faccia al più presto. E soprattutto bisogna avere una volta per tutte le idee chiare in materia di privatizzazioni della gestione delle infrastrutture.

A quest’ultimo riguardo, è noto come la crisi della finanza pubblica e l’ondata di neoliberismo, che hanno coinvolto anche l’Italia, abbiano spinto alla privatizzazione di numerosi servizi collettivi attraverso la gestione in concessione (come le autostrade) o la vendita ai privati. L’Europa ha in realtà indotto l’Italia alle privatizzazioni nella prospettiva delle riforme strutturali dirette a risanare la finanza pubblica e ad aumentare la competitività del sistema-paese. L’idea centrale su cui si regge questo orientamento è che il vero motore dello sviluppo è il mercato (ma non è sempre così).  Per cui le “infra-strutture” (concetto legato alla sfera pubblica) devono diventare “strutture” (quindi non più monopoli pubblici) e operare in un contesto competitivo. Ma le privatizzazioni in Italia non si sono accompagnate ad adeguate liberalizzazioni per cui dai monopoli pubblici si è passati ai monopoli privati; e i servizi pubblici non sono stati sempre gestiti meglio dalle imprese private. Queste hanno spesso fatto profitti alle spese dei consumatori aumentando le tariffe senza fare nuovi investimenti ed elevare la qualità.

Orbene, in seguito alla tragedia di Genova, si è scoperto che la gestione della società Autostrade è inefficiente, e si è giunti così alla conseguente decisione di revocare la concessione da parte dello Stato. In tal modo viene riproposta la questione dell’opportunità delle privatizzazioni e del possibile ritorno alla gestione diretta da parte dello Stato. Ma purtroppo in Italia il fallimento è doppio: sia dello Stato sia del mercato. Quindi bisogna capire dove sta veramente il problema. Le società concessionarie in molti casi non operano in regime di concorrenza per cui lo stimolo a effettuare adeguate manutenzioni ordinarie e straordinarie e soprattutto nuovi investimenti è legato alle clausole contrattuali che regolano le concessioni e alle modalità con cui vengono fatte le gare delle concessioni scadute. Se i contratti sono male formulati e i controlli sono deboli, è del tutto evidente che la questione si risolve intervenendo su questi aspetti. Con un comunicato del 17 agosto il presidente del consiglio Conte annunciava una revisione del sistema delle concessioni con la previsione, in particolare, che i concessionari dovranno reinvestire buona parte degli utili nell’ammodernamento delle infrastrutture che hanno ricevuto in concessione.

Ma al di là della presa d’atto che molte cose devono cambiare, sembra di capire che purtroppo siamo sempre alle solite. Cioè in presenza di un contesto dove prevale l’improvvisazione, che spesso maschera il malaffare, mentre la politica resta il più delle volte immobile essendo essa stessa inefficiente e incompetente. Noi andiamo avanti, quasi sempre, sulla spinta dell’emergenza. In altri paesi i problemi quando sorgono si risolvono senza grandi discussioni e si decide in modo tempestivo; si perseguono strategie di investimento pubblico con regolarità e il sistema infrastrutturale funziona. Nel campo delle infrastrutture e dei trasporti l’Italia è attualmente al 17° posto sui 28 Stati membri della Ue (scoreboard 2016), una posizione di mezza classifica, mentre il grado di soddisfazione dei consumatori in merito ai servizi di trasporto urbani, ferroviari e aerei è tra i più bassi d’Europa. Vedremo se il Governo del cambiamento riuscirà a farci risalire la china.