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Crescita. Come sostenere il debito pubblico italiano?

Il debito pubblico italiano, così elevato, continua ad essere uno dei vincoli alla politica economica. Ne abbiamo visto un’ennesima prova negli ultimi giorni, quando a causa dell’incertezza politica e di allarmi nei mercati finanziari circa la collocazione dell’Italia nell’Eurozona, lo spread – tra titoli italiani e titoli tedeschi – è tornato a salire su livelli che non si vedevano da tre o quattro anni. In queste situazioni di tensioni sui mercati finanziari la speculazione è sempre in agguato e le reti di protezione messe in atto dalla Bce non sempre paiono sufficienti; oltretutto il Quantitative easing è in fase di esaurimento e, ancora più, ci sono preoccupazioni su quella che potrà essere la politica monetaria europea al termine del mandato di Draghi, ossia tra un anno e mezzo (l’importanza di questi temi richiede però una prossima trattazione separata). È comunque evidente che la credibilità complessiva della politica economica, congiuntamente all’intonazione della politica monetaria europea, è importante per contenere la spesa per interessi sul debito pubblico e quindi i processi di auto-alimentazione dello stesso debito.

Tornando quindi alla politica fiscale, l’approccio tradizionale alla sostenibilità del debito pubblico richiede prima di tutto il conseguimento di avanzi primari, ossia di surplus del bilancio pubblico al netto degli interessi sul debito. Premesso che l’Italia, dove il rapporto debito/Pil è da qualche anno un poco sopra il 130%, è uno dei pochi paesi europei ad avere conseguito nell’ultimo quarto di secolo quasi sempre avanzi primari (solo Italia e Germania dal 2014 hanno avuto i più continuativi avanzi primari, ora 2,2% del Pil in Germania e 1,9% in Italia), a mio avviso agire solo da questo lato può essere controproducente ed invece ci possono essere soluzioni alternative o perlomeno complementari. Infatti, accrescere l’avanzo primario significa aumentare la tassazione o ridurre la spesa pubblica ma, in alternativa o in modo complementare, può essere efficace agire sulla composizione di imposte e spese pubbliche.

Il conseguimento di bilanci pubblici tendenzialmente in pareggio, come richiesto dal Fiscal Compact europeo, richiede sostanzialmente avanzi primari persistenti (data l’incomprimibile spesa per interessi, nel 2017 attorno ai 65 mld. di euro, il 3,8% del Pil). È questo l’approccio dell’austerità seguito in Italia e in altri paesi nell’Eurozona, soprattutto dopo il culmine della crisi dei debiti sovrani (2011-12). Un approccio definito da molti esperti, tra cui il Premio Nobel Krugman, come self-defeating. Infatti le politiche restrittive aggravano la recessione o rendono più fiacca la ripresa, come puntualmente si è verificato in Italia, con una caduta del Pil di quasi il 10% negli anni di crisi (2008-13), Pil ancora adesso quasi il 5% sotto i livelli pre-crisi. E non solo: l’effetto controproducente dell’austerità si manifesta sugli stessi conti pubblici, sia perché si riduce il denominatore del rapporto debito/Pil o aumenta poco, per giunta in un periodo in cui anche l’inflazione è stata bassissima (1,3% nel 2017 dopo tre anni prossima  allo zero), sia per l’agire degli stabilizzatori automatici sui disavanzi pubblici (che causano minori entrate e maggiori uscite nel bilancio pubblico durante le recessioni).

Invece basterebbe una crescita economica un poco più spinta per facilitare lo stesso aggiustamento dei conti pubblici. Nel Documento di Economia e Finanza 2018 c’è un grafico che mostra come, date ipotesi abbastanza ottimistiche sugli avanzi primari, tassi d’interesse, ecc. il rapporto debito/Pil potrebbe scendere nel 2029 fino attorno al 105% se la crescita fosse dell’1,5% annuo; ma se solo la crescita fosse di uno 0,5% in più ogni anno (grosso modo quanto cresce in media l’Eurozona), il rapporto sarebbe minore del 90%, sempre nel 2029. Ma purtroppo abbiamo visto che anche nell’ultima fase di ripresa ciclica la crescita non ha mai superato l’1,5% (collocando l’Italia agli ultimi posti nell’Ue) e per i prossimi anni è prevista – a politiche invariate – una decelerazione.

Per crescere, possono servire politiche strutturali (o dal lato dell’offerta), per innalzare la capacità produttiva, il prodotto potenziale, la produttività dei fattori. Esse possono includere riforme strutturali per introdurre più concorrenza nei settori (ad esempio in alcuni servizi o libere professioni) dove è ancora scarsa, ma che vada davvero a beneficio di consumatori o utenti finali. Tuttavia, diversamente dagli approcci neoliberisti, ci vorrebbero anche politiche industriali attive per favorire la ricerca e sviluppo, le innovazioni, lo sviluppo dei nuovi settori (vedi gli articoli di Cappellin e di Pilotti in questo Archivio del Gruppo di Discussione). Molte nuove produzioni, tra quelle realizzabili su scala urbana e territoriale, migliorerebbero anche la domanda di lavoro, sia quantitativamente che qualitativamente, favorendo in particolare l’occupazione giovanile (si consideri che ancora oggi quasi un terzo dei giovani attivi non trova lavoro) e di personale qualificato (l’Italia è all’ultimo posto nell’Ue per numero di laureati).

Nel caso italiano occorrono però anche politiche macroeconomiche espansive, ossia dal lato della domanda aggregata, alla luce anche degli output gap che nel nostro paese persistono da un decennio (ossia continuiamo a produrre al di sotto del nostro prodotto potenziale); in altre parole, considerate le leve disponibili a livello nazionale, ci vogliono politiche fiscali espansive, come è stato fatto dai paesi che sono usciti più in fretta dalla recessione (ad esempio gli Usa, con Obama dal 2009 ed ora anche con Trump).

Aumentare la spesa pubblica, inclusi i trasferimenti, non è facile, non tanto per i suoi livelli attuali (che pur elevati non pongono l’Italia ai primi posti nell’Ue), quanto piuttosto per lo stato dei conti pubblici. Si può però agire sulla composizione della spesa pubblica. Un’ appropriata spending review, che elimini davvero gli sprechi ai diversi livelli dell’amministrazione pubblica soprattutto negli acquisti intermedi (invece i dipendenti pubblici sono diminuiti in assoluto e le loro retribuzioni sono ferme da un decennio), potrebbe creare gli spazi per spese in altri campi (o per ridurre la pressione fiscale). In primo luogo, è necessario invertire le recenti tendenze di tagli, senza eguali e senza giustificazioni, alla spesa sociale di base, alla spesa sanitaria ed a quella per l’istruzione e la ricerca. Basti dire che per l’istruzione spendiamo attorno il 4% del Pil (di cui solo l’1% per quella terziaria), rispetto a incidenze doppie nei paesi nord-europei (dati Eurostat).

Trasferimenti sociali potrebbero essere utili non solo sul piano dell’equità e della redistribuzione, ma anche per sostenere i consumi delle famiglie. Il reddito di cittadinanza potrebbe essere uno strumento efficace (piuttosto che soluzioni parziali come gli 80 euro mensili del governo Renzi), posto che si riescano davvero a riformare i centri per l’impiego, così da inserire in modo efficace i disoccupati nel mondo del lavoro.  Trasferimenti sociali significativi dovrebbero essere destinati soprattutto alle giovani famiglie con figli, in quanto la povertà in Italia si concentra sempre di più nelle coorti giovanili piuttosto che in quelle anziane.

C’è però un tipo di spesa pubblica che senz’altro andrebbe accresciuto, quella per investimenti pubblici, anche alla luce dei tagli attuati nell’ultimo decennio. Pare quasi inconcepibile il fatto che gli investimenti pubblici non siano stati rilanciati nemmeno negli anni di ripresa ciclica (dal 2014 in poi). Con tassi d’interesse sostanzialmente nulli (fino a poco fa), possibile che non esistano opportunità d’investimento il cui rendimento interno superi il costo di finanziamento rappresentato da tassi così bassi? In realtà sarebbero migliaia e migliaia. Non deve necessariamente trattarsi di grandi opere, di solito caratterizzate da lunghi tempi di progettazione, approvazione ed implementazione, con costi spesso rivisti progressivamente verso l’alto ed a elevato rischio di pratiche corruttive. Molti micro-investimenti potrebbero essere più facilmente realizzabili e forse anche più utili: trasporto locale, protezione ambientale, salvaguardia del territorio, interventi di ristrutturazione e adeguamento anti-sismico, efficienza energetica, edilizia popolare, edilizia scolastica ed ospedaliera, infrastrutture turistiche e sportive, beni culturali, e molte altre.

Il rilancio degli investimenti pubblici, che in prospettiva sono da sostenere anche attraverso l’auspicabile introduzione di una Golden rule (ossia lo scorporo della spesa per gli investimenti dal calcolo dei disavanzi rilevanti per le regole europee), farebbe da leva e favorirebbe la ripresa anche di quelli privati, pure scesi di quasi un terzo negli anni di crisi e dal 2014 in fase di ripresa, ma troppo lenta. Gli investimenti privati dovrebbero essere sostenuti anche da condizioni monetarie favorevoli (vedi quanto scritto in apertura di questo articolo), da nuovi strumenti creditizi e modalità innovative di finanziamento  ed anche da incentivi fiscali mirati (proposte specifiche sono state fatte dal Gruppo di Discussione, vedi ad esempio il volume pubblicato con Egea, 2017).

Venendo a trattare ora delle entrate pubbliche, una politica fiscale espansiva richiederebbe di tagliare imposte e tasse, anche perché l’elevata pressione fiscale disincentiva la crescita economica. Di nuovo, si pone il problema del vincolo del bilancio pubblico ed allora bisognerebbe condurre, innanzitutto, una seria lotta alle diverse forme di evasione ed elusione fiscale, per creare margini di riduzione delle varie imposte, dirette o indirette.  Le imposte esistenti devono essere razionalizzate, concentrando i tagli su misure specifiche, ad esempio per l’incentivazione dell’occupazione, specie giovanile. La riduzione delle imposte dirette dovrebbe favorire le classi meno agiate (diversamente da quanto implicato dalle ipotesi di flat tax o dual tax) non solo per motivi equitativi, ma anche perché sono le classi medio-basse che hanno una maggiore propensione al consumo, così da stimolare la domanda aggregata. Per gli stessi motivi, bisognerebbe evitare l’aumento delle imposte indirette, che sono regressive; nel caso italiano attuale, bisogna quindi disattivare la clausola di salvaguardia che causerebbe un aumento delle aliquote Iva dal gennaio prossimo.

In definitiva, nonostante l’elevato debito pubblico (anzi proprio per questo), il settore pubblico deve continuare a svolgere un ruolo essenziale di indirizzo, stimolo, regolazione e complementarità rispetto alle iniziative private. Favorendo un innalzamento della crescita economica anche i conti pubblici diverrebbero più sostenibili nel tempo.

enrico.marelli@unibs.it

Questo articolo fa parte di una serie su: “I bisogni dei cittadini trainano lo sviluppo del Paese” promossa dal Gruppo di Discussione”Crescita Investimenti e Territorio”. Altri articoli di questa serie sono stati scritti da Riccardo Cappellin, Maurizio Baravelli e Luciano Pilotti.

 

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