Key4biz

Cop 30: Belém dovrà mostrarci come passare dagli impegni alle azioni concrete. L’Analisi ASviS

Cop 30

All’apertura del vertice preparatorio per la Cop 30 in svolgimento a Belém, in Brasile, António Guterres ha pronunciato uno dei discorsi più duri mai rivolti ai leader mondiali in un vertice Onu sul clima. “Il fallimento nel limitare il riscaldamento globale a 1,5°C non è solo un errore politico, è un fallimento morale e una negligenza mortale”, ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite, denunciando il divario crescente tra promesse e azioni reali. Guterres ha inoltre accusato i grandi produttori di combustibili fossili di rallentare la transizione energetica. Un’accusa fondata sui numeri di un settore che, a distanza di dieci anni dalla sottoscrizione dell’Accordo di Parigi, continua a rilanciare su carbone, gas e petrolio.

I dati del rapporto dell’organizzazione Urgewald mostrano infatti che il 96% delle aziende petrolifere e del gas “upstream” sta ancora esplorando o sviluppando nuove risorse, con le aziende che prevedono un aumento del 171% della capacità di esportazione di Gas naturale liquefatto (Gnl).

Si tratta di evidenze confermate dallo studio pubblicato da Carbon Bombs, che mappa i progetti fossili più pericolosi a livello globale. Le cinque compagnie più attive risultano TotalEnergies, Cnooc, BP, Shell e l’italiana Eni. Dal 2021 – anno in cui l’Agenzia internazionale dell’energia ha chiarito che ogni nuovo investimento in fonti fossili è incompatibile con l’obiettivo della neutralità climatica – sono stati approvati 2.300 nuovi progetti estrattivi, di cui 176 classificati come “bombe di carbonio”, ciascuna capace di rilasciare oltre mille miliardi di tonnellate di CO₂. In totale, oggi si contano 601 potenziali carbon bombs. Un numero che stride con la fisica del pianeta: per restare entro la soglia di 1.5°C, il budget globale di emissioni residue è di appena 130 gigatonnellate di CO₂, mentre le emissioni combinate dei progetti già approvati superano le 1.400 gigatonnellate. Undici volte il margine che il clima ci concede.

Una realtà che si scontra con le promesse, o meglio, con gli impegni presi dai Paesi in merito al taglio delle emissioni climalteranti. Sul tema, il synthesis report dell’Unfccc, evidenziato nelle cronache giornaliere della Cop 30 di Andrea Grieco, ricorda che tutti i Paesi erano chiamati a presentare nuovi Ndc – impegni di riduzione – in vista della Cop 30. Tuttavia, solo 64 Paesi, poco più di un terzo del totale, hanno aggiornato ufficialmente i propri piani nazionali di riduzione delle emissioni. Secondo il documento, questi Piani porterebbero le emissioni globali al 2035 a una riduzione compresa tra il 19% e il 24% rispetto ai livelli del 2019, una riduzione modesta. Inoltre, mancano all’appello i principali emettitori, tra cui gli Stati Uniti – che hanno ritirato il proprio Ndc e abbandonato l’Accordo di Parigi –, l’Unione europea e la Cina. Su queste ultime due, però, ci sono delle novità. La Cina, nel corso dell’ultimo Climate action summit, ha sbandierato una riduzione dei gas serra del 7%-10% entro il 2035 rispetto al picco delle emissioni. Per quanto riguarda l’Unione europea, come ricorda il punto di Giovannini, si è trovato in extremis un accordo sul taglio del 90% dei gas serra entro il 2040 rispetto al 1990, anche se al ribasso: si è deciso, infatti, di utilizzare in tale computo fino al 5% di crediti di carbonio internazionali, riducendo dunque la quota dei tagli “interni” all’85%.

Restando sul tema evocato da Guterres – la distanza tra promesse e azioni reali – i dati dell’ultimo Emission gap report dell’Unep raccontano con chiarezza l’entità del divario. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C – soglia media per la prima volta superata nel 2024 -, le emissioni di gas serra dovrebbero diminuire del 55% entro il 2035 (rispetto al 2019), una riduzione ben più drastica di quanto previsto dagli attuali impegni nazionali. Anche l’obiettivo dei 2°C, più realistico ma comunque impegnativo, richiederebbe un taglio del 35% nello stesso arco temporale. Oggi, se tutti i Paesi rispettassero i loro Ndc, il pianeta si avvierebbe verso un aumento di 2,3°C-2,5°C entro la fine del secolo. Un aumento del tutto sufficiente a destabilizzare i sistemi climatici e a moltiplicare eventi estremi come siccità, alluvioni e uragani.

Si tratta tuttavia di stime e proiezioni che vanno lette alla luce di un ulteriore elemento sottolineato dall’Unep stessa: finora i Paesi non sono riusciti nemmeno a rispettare gli impegni assunti, facendo meno di quanto promesso. Eppure, nel suo monito, il Rapporto conserva uno spiraglio di fiducia: “se davvero la comunità internazionale agisse con coerenza e urgenza, fare la differenza è ancora possibile”.

È con questo spirito che il presidente della Cop 30, André Corrêa do Lago, ha delineato per il summit tre grandi obiettivi di natura politica. Il primo è riaffermare il ruolo centrale del multilateralismo come unico orizzonte possibile per una crisi che non conosce confini. In un mondo frammentato da conflitti e rivalità geopolitiche, riaffermare la centralità del “ciclo dell’ambizione” significa difendere la logica della cooperazione come strumento di sopravvivenza collettiva. Il secondo obiettivo è rilanciare l’Action agenda, la rete di iniziative parallele in cui imprese, governi locali e società civile possono contribuire alla transizione ecologica. È anche in questo spazio ibrido che la diplomazia climatica può ritrovare efficacia, superando il rischio dell’impasse negoziale. Il terzo punto riguarda l’attuazione degli strumenti previsti dell’Accordo di Parigi.

Per quanto riguarda i temi principali su cui si svilupperà il negoziato, oltre alla mitigazione, adattamento e finanza restano centrali. In questo contesto si inserisce il lancio del Tropical forests forever facility (Tfff), il fondo promosso dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva per la conservazione delle foreste tropicali. Il contributo iniziale del Brasile – circa un miliardo di dollari – e l’adesione di Paesi come Cina, Francia e Regno Unito indicano che il tema della conservazione forestale può diventare un terreno di convergenza politica oltre che ambientale.

Una delle sfide più complesse riguarda il “Global goal on adaptation”, in particolare per la definizione di un sistema di indicatori condivisi per misurare i progressi nell’adattamento. A differenza della mitigazione, i cui risultati sono quantificabili attraverso le emissioni, valutare la resilienza alla crisi climatica implica confrontarsi con realtà nazionali diverse, con politiche che spaziano dalle infrastrutture alle soluzioni basate sulla natura. L’accordo su un set di indicatori comuni – ridotto e armonizzato rispetto ai cento individuati a Baku lo scorso anno – sarà decisivo per dare credibilità al processo.

Tutto ciò si intreccia con il delicato nodo della finanza climatica. Il nuovo obiettivo quantitativo di finanza globale (Ncqg), che triplica la soglia fissata a Copenaghen nel 2009 portandola a 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035, resta insufficiente rispetto ai 1.300 miliardi ritenuti necessari dai Paesi più vulnerabili per sostenere l’adattamento e la transizione verso le fonti rinnovabili. E, inoltre, non risolve la questione dell’equilibrio tra mitigazione e adattamento. La ripartizione “50 e 50”, più volte evocata, rimane lontana, anche perché i progetti di adattamento continuano a essere considerati meno redditizi, e più rischiosi, per i Paesi industrializzati. Inoltre, il Brasile starebbe lavorando a un “pacchetto per l’adattamento” con l’obiettivo di triplicare i fondi disponibili. Un segnale politico che va nella giusta direzione, sebbene non sia stato ancora completato il raddoppio promesso negli anni scorsi.

Un altro tema destinato a occupare un ruolo centrale a Belém è quello della “giusta transizione”, introdotto formalmente alla Cop 27 di Sharm el-Sheikh. Nel quadro dell’Accordo di Parigi riguarda l’impatto delle politiche climatiche sulla forza lavoro – creazione di nuovi posti, riqualificazione, sostegno ai lavoratori – ma per molti Paesi emergenti significa qualcosa di più ampio: una transizione equa che concili obiettivi climatici, sviluppo sostenibile e riduzione della povertà. La Cop30 dovrà definire la struttura del programma di lavoro su questo tema, anche alla luce del parere della Corte Internazionale di giustizia.

Infine, mentre scrivo, la presidenza brasiliana ha annunciato l’adozione formale dell’agenda della Cop, evitando – a differenza di precedenti round negoziali – le lunghe dispute sull’ordine del giorno. Un piccolo segnale positivo per quella che sarà la prima vera Cop dell’implementazione, cioè dell’attuazione, dato che con la definizione alla Cop 29 dell’articolo 6 sui mercati del carbonio il “libro delle regole” dell’Accordo di Parigi può dirsi completo. Il successo o meno di Belém dipenderà dunque dalla capacità di tradurre gli impegni in azioni concrete, tenendo conto anche di quel “transitioning away” (allontanamento) dai combustibili fossili sancito dal primo Global stocktake approvato alla Cop 28, ma rimasto finora senza seguito: sia sul piano negoziale e sia su quello politico.

In questa prospettiva, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) richiama la necessità che la Cop 30 rappresenti una vera svolta. L’ASviS chiede di rafforzare l’ambizione climatica in linea con l’obiettivo di 1,5°C, accelerando la decarbonizzazione globale con il phase-out del carbone entro il 2030 nei Paesi Ocse e del gas fossile entro il 2035, e definendo impegni di riduzione coerenti al 2040. Centrale, secondo l’ASviS, è anche l’inclusione nei nuovi Ndc di scenari climatici aggiornati e di meccanismi di monitoraggio trasparenti.

La seconda priorità riguarda l’urgenza di rendere credibili gli impegni sulla finanza per il clima, sulle perdite e sui danni e sull’adattamento, attuando concretamente il Fondo dedicato e definendo un obiettivo di finanziamento climatico che assegni priorità ai Paesi più vulnerabili.

Infine, il ruolo dell’Italia sulla giustizia sociale, climatica e intergenerazionale. Un tema da integrare in tutte le decisioni che prenderà il Governo attraverso strumenti come la Valutazione di impatto generazionale (Vig) per le politiche climatiche e di bilancio, in coerenza con la riforma della Costituzione del 2022.

Exit mobile version