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I consumi di informazione come specchio del Paese

“I dati (compresi quelli dell’Ocse) mostrano che siamo tra i Paesi più disuguali d’Europa e che, nell’insieme del vecchio continente – proprio come negli Stati Uniti – le disparità sono tornate ai livelli degli anni Trenta. Tuttavia la questione delle disuguaglianze continua a essere lasciata ai margini del discorso politico”.

E’ l’incipit lapidario della riflessione che, secondo gli intendimenti della Fondazione Basso che la promuove, dovrebbe portare alla redazione di un Rapporto annuale su Diseguaglianze e Diversità.

Leggendo questo incipit, mi è venuto di pensare ad un altro incipit, altrettanto preoccupato, che non dobbiamo a un manipolo di ricercatori estremisti e spaesati, ma al Censis, per la precisione alle Considerazioni generali del 51° Rapporto sulla situazione sociale del Paese: “siamo un Paese invecchiato che fatica ad affacciarsi sullo stesso mare di un continente di giovani; impotente di fronte a cambiamenti climatici e a eventi catastrofici che chiedono grandi risorse e grande impegno collettivo; ferito dai crolli di scuole, ponti, abitazioni a causa di una scarsa cultura della manutenzione; incerto sulla concreta possibilità di offrire pari opportunità al lavoro e all’imprenditoria femminile, immigrata, nelle aree a minore sviluppo; ambiguo nel dilagare di nuove tecnologie che spazzano via lavoro e redditi; incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di ricchezza preziosa per tutti”.

Costruita la cornice, che vorrei restasse presupposta, possiamo atterrare su temi più familiari e consueti ai lettori di Key4biz. Nei giorni scorsi Agcom ha pubblicato un Rapporto sui consumi di informazione degli italiani. Ne vengono fuori moltissime interessantissime istantanee. Proverei a metterne a fuoco qualcuna, che ritengo ben riconnettersi alla premessa. Eccole, molto sommariamente:

Prima di provare a spiegare cosa c’entra tutto questo con l’allarme della Fondazione Basso sull’accentuarsi delle diseguaglianze socio-economiche e culturali e con la disperante fotografia del Paese scattata dal Censis nel dicembre scorso, lasciatemi dire ancora un paio di cose.

Se l’informazione segue i trend che l’indagine Agcom sui suoi consumi preconizza, avrei qualche difficoltà a vivere nel Paese che costruiremo da qui a 50 anni. Un paese sfiduciato, invecchiato, incanaglito e culturalmente impoverito, in cui si urla che uno vale uno, e dove non serve portare dati e conoscenze perché la maggioranza della gente ragiona di pancia, e la classe politica – sempre meno selezionata, sempre più paradigmaticamente espressione di quella “gente”, e sempre più professionalizzata al ribasso – si limita ad assecondare ed inseguire.

Prendiamo la narrazione su immigrazione e sicurezza.

Non serve che il Censis chieda di non guardare al fenomeno dell’immigrazione come ad un fenomeno di apocalisse culturale o di smarrimento di identità (tralascio per carità di patria ogni considerazione sul tema della razza bianca in pericolo, cui pure si è inteso dare dignità politica), ma semmai (come fanno nel Regno Unito, in Francia e altrove, dove si attrae una porzione di laureati e studenti universitari stranieri tre, quattro volte superiore alla nostra) di dotarsi una strategia che punti alla qualità del capitale umano che attraiamo.

E non serve che Istat e Ministero dell’Interno, nelle loro statistiche ufficiali ricordino che i delitti che destano allarme sociale sono in calo (gli omicidi sono in calo costante dal 2007; lo sono, macroscopicamente i tentati omicidi; e lo sono i furti d’auto che nel 2016 sono stati 110mila e nel 2009 erano 144mila. Persino le rapine in casa del 2015 sono in numero inferiore a quelle dei tre anni precedenti, e finanche gli scippi sono più o meno gli stessi del decennio passato). Sono trend che – inutilmente, temo – il Presidente Gentiloni ha richiamato il 14 febbraio scorso intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola ufficiali Carabinieri.

Non serve, perché l’immaginario collettivo prevalente richiede un’altra narrazione, e la ritrova nell’informazione abborracciata che circola sul web, nei circoli mediatici autoreferenziali e consolatori dei social, in un giornalismo sempre più precarizzato e sempre meno incline all’approfondimento, in una classe politica che, in parte prevalente, non trova di meglio che assecondare e inseguire, ovvero, nella migliore delle ipotesi, tacere e glissare.

Bisognerebbe fermarsi a riflettere sulla circostanza che i fenomeni migratori planetari hanno come molla fondamentale la povertà estrema e la fame endemica (se poi siano le guerre piuttosto che le condizioni climatiche, i conflitti tribali piuttosto che il sottosviluppo cronico, a causare fame e povertà è questione di ulteriore complessità). E’ difficile trattenere con metodi democratici questi immensi flussi di persone che vogliono semplicemente provare a vivere.

Secondo i dati più recenti del World Food Program, Agenzia dell’ONU, circa 800 milioni di abitanti del pianeta, di cui 150 milioni di bambini sotto i 5 anni, soffrono per mancanza di cibo (fame quantitativa), e circa 2 miliardi soffrono di fame qualitativa (ossia di mancanza di varietà di cibo e quindi carenza di vitamine, proteine, minerali). Il che vuol dire che oggi, non ieri, metà della popolazione mondiale continua a “vivere” (si fa per dire) in uno stato permanente di sottoalimentazione. In un comunicato stampa dell’11 ottobre scorso, il WFP ricorda non a caso che l’insicurezza alimentare (un eufemismo, direi) è una delle spinte che muovono i grandi fenomeni migratori.

Naturalmente se si ragiona unicamente in termini di PIL è possibile lasciarsi andare a conclusioni di segno opposto. Secondo stime recenti del Fondo Monetario Internazionale, il PIL dei 45 paesi dell’Africa subsahariana crescerà cumulativamente del 26,3 per cento nel quinquennio corrente 2015-2020 (nei paesi del G7 e della UE tale crescita cumulativa è prevista nella misura del 10,6% e nell’area euro del 7,9%). Ma dovremmo ricordarci anche che quelle stesse economie sono cresciute nell’ultimo decennio al ritmo del 5% annuo, senza che ciò abbia mutato significativamente i numeri della povertà, dell’analfabetismo e dell’insicurezza sociale delle porzioni più povere di popolazione, né si è tradotta, sempre secondo le valutazioni del FMI, in un proporzionale aumento dell’occupazione. Dunque, un decennio di crescita che non solo non ha concorso a risolvere il problema della povertà di massa che affligge la regione subsahariana, ma che anzi, secondo la Banca mondiale, mantiene la diseguaglianza “a livelli inaccettabilmente alti” e il suo tasso di riduzione, ancorché percepibile dalle statistiche pubblicate, inaccettabilmente lento (cfr. al riguardo Banca Mondiale, Rapporto 2016. Poverty e Shared Prosperity. Taking on Inequality).

Ora, chiedere alla politica ed all’informazione un approccio del genere al tema dell’immigrazione è certamente pretendere troppo. Ma lasciare senza contromisure che le derive correnti sui consumi di informazione (l’elenco è lunghissimo: i troll che avrebbero incoronato Trump, le fake che ammorbano il pianeta, l’hatespeach che impera sui social,  e mettiamoci anche Facebook che si candida a giornale globale, e big data, e le echo-chambers che si studiano ormai all’università), esauriscano tranquillamente la loro opera di avvelenamento delle basi sui cui i nostri ordinamenti democratici si sono faticosamente costruiti dal secolo dei lumi in poi, mi sembrerebbe altrettanto forte. Mi domando se non sia a rischio la libera formazione del consenso, ormai ostaggio di due fenomeni egualmente preoccupanti: lo sfiduciato chiamarsi fuori di chi si astiene e la crescente polarizzazione ideologica di chi sceglie di partecipare. E mi chiedo se non sia il caso di progettare rimedi strutturali, a partire da una solida riforma dei percorsi scolastici e formativi (l’educazione digitale e la vecchia educazione civica, rielaborata in formato 3.0, dovrebbero diventare materie curriculari) e da altrettanto solide politiche pubbliche di sostegno alla domanda (soprattutto dei giovani) di informazione professionale e di qualità.

Il Censis, sempre lui, ci ricorda che nell’immaginario collettivo dell’under 30 italiano, oltre al lavoro, che compare al secondo posto della graduatoria, gli altri tre posti sono attribuiti, in ordine di importanza, ai social network (1), allo smartphone (3) e alla cura del corpo, tatuaggi e pearcing in primis (4). Ora, a rischio di peccare di moralismo, mi chiedo se questa classifica delle icone della modernità possa soddisfare e tranquillizzare un lettore appena un po’ attento.

Resto pervicacemente convinto che la ricostruzione di un’agenda sociale condivisa e di un immaginario collettivo da paese civile e democratico, non possano fare a meno di percorsi formativi e consumi di informazione, in definitiva, di una narrazione, all’altezza della sfida dei tempi. Quello che emerge, da ultimo, dalla ricerca Agcom sui consumi di informazione degli italiani, non mi sembra particolarmente rassicurante.

Il nesso inscindibile tra la fotografia della diseguaglianza scattata dalla Fondazione Basso e gli effetti sull’opinione pubblica dei consumi di informazione descritti da Agcom, passa proprio attraverso la descrizione del paese che ci fa il Censis. Un paese demograficamente vecchio, con un tasso di scolarizzazione inadeguato, impoverito sul piano economico, insicuro sotto il profilo sociale, polarizzato e incanaglito dal punto di vista politico, non ha in sé le risorse e le energie per dispiegare consumi culturali e di informazione a prova di futuro. Per riscattare interi pezzi di popolazione dal circuito vizioso della informazione autoreferenziale ed opaca da social network, occorre invertire buona parte di questi trend. E’ evidente, infatti, che una civiltà rifiorisce se al suo interno la stragrande maggioranza della popolazione ha soddisfatto i suoi bisogni essenziali di equilibrio economico, di salute, di istruzione. Solo un nuovo welfare – sottratto all’abbraccio mortale tra austerity, compatibilità di bilancio e politiche neoliberiste – potrà ridare fiato all’Europa e all’Italia. Lo sviluppo riparte, ed intendo per tale anche il rifiorire della cultura oltre che dell’economia, solo se tra masse crescenti di cittadini tornano a crescere reddito e capacità di spesa. Le attese della povera gente, per dirla con un lontanissimo e dimenticato Giorgio La Pira, dovrebbero essere ancora la bussola di un agire pubblico ispirato ed efficace.

Ma questo è compito della politica, della buona politica, più che dell’informazione. Il problema, tuttavia, è che – e chiudo ancora con le Considerazioni generali del Censis – “se chi ha responsabilità di governo e di rappresentanza si limita a un gioco mediatico a bassa intensità di futuro, resteremo nella trappola del procedere a tentoni, senza metodo e obiettivi, senza ascoltare e prevedere il lento, silenzioso, progredire del corpo sociale”.

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