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Consumer First. Un futuro a pagamento

Questo articolo è rivolto, manzonianamente, ai “miei 25 lettori”: non ha pretese alte o altre, se non quella di levare una flebile voce di dissenso su un tema controverso.

Dopo aver letto l’ultima sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nei confronti di Meta (Corte di Giustizia UE, C-252/21, 4 luglio 2023),  sul tema della pubblicità online e delle relative implicazioni sotto il profilo del trattamento dei dati personali, ho pensato di condividere alcune considerazioni sulle conseguenze pratiche che quell’approccio, culturale prima ancora che giuridico, è idoneo a produrre.

Battaglie ideologiche

Ogni battaglia ideologica ha le sue sofferenze da sopportare: è bene che i consumatori digitali ne siano consapevoli, soprattutto se sono stati assoldati, a loro insaputa, in una guerra che non avevano intenzione di combattere.

Una delle letture più illuminanti fatte in questi anni risale al lontano 2009: si tratta del libro “Moral panics and the copyright wars” di William Patry. Come i miei 25 lettori potranno intuire, esso non ha nulla a che vedere con la protezione dei dati personali o la pubblicità online ma pone l’accento sul ruolo che il “panico morale” può avere rispetto alle scelte di regolazione. Trasformare semplici opzioni di mercato (tutte astrattamente possibili) in una lotta del bene contro il male è il modo migliore per convincere le persone che, in verità, solo una sia la strada concretamente percorribile. Le altre conducono alla perdizione e alla dissoluzione dei valori fondanti della società.

Sotto tale profilo, il ruolo delle metafore è vitale per generare paure, sospetti e dubbi. Ci torneremo fra poco.

Rispetto alla sentenza della Corte di Giustizia ci sono tre punti su cui vale la pena soffermarsi.

Consenso dell’interessato

In primo luogo, l’interpretazione offerta dalla Corte finisce per annichilire la pluralità di basi giuridiche previste dal GDPR per far trionfare di fatto un’unica base, che è quella del consenso dell’interessato. Appare sorprendente, infatti, che lungi dal limitarsi a valutare la fattispecie concreta, si finisca per entrare nel modello di business di un operatore di mercato, sindacandone il perimetro. Come interpretare diversamente, ad esempio, il punto della decisione in cui, con riferimento alla personalizzazione dei contenuti, si afferma che “sebbene tale personalizzazione sia utile per l’utente, in quanto gli consente in particolare di visualizzare un contenuto in larga misura corrispondente ai suoi interessi, resta il fatto che, salvo verifica del giudice del rinvio, la personalizzazione dei contenuti non appare necessaria per offrire a tale utente i servizi del social network online. Tali servizi possono, eventualmente, essergli forniti sotto forma di un’alternativa equivalente che non implichi tale personalizzazione, che non è dunque oggettivamente indispensabile per una finalità che faccia parte integrante di detti servizi”.

Perché mai dovrebbe essere l’organo giudiziario a decidere le caratteristiche del modello di business di un social network? Perché mai, in linea astratta, la personalizzazione dei contenuti e dei relativi messaggi pubblicitari non può essere parte del sinallagma contrattuale e, come tale, assolutamente indispensabile per l’accesso ai servizi senza il pagamento di un corrispettivo monetario?

Un approccio, così radicale, come quello ipotizzato dalla Corte di Giustizia ha come conseguenza il forte ridimensionamento della capacità, per le società che operano nel settore digitale, di fornire servizi personalizzati e rilevanti agli utenti.

Futuro a pagamento?

Il secondo punto di riflessione è strettamente connesso al primo.

Uno degli effetti collaterali della pronuncia della CGUE potrebbe essere la transizione verso un futuro a pagamento per molti dei servizi digitali attualmente gratuiti. Del resto è la stessa Corte a lasciarlo intendere al punto 150 della sentenza: “tali utenti devono disporre della libertà di rifiutare individualmente, nell’ambito della procedura contrattuale, di prestare il loro consenso a operazioni particolari di trattamento di dati non necessarie all’esecuzione del contratto, senza essere per questo tenuti a rinunciare integralmente alla fruizione del servizio offerto dall’operatore del social network online, il che implica che a detti utenti venga proposta, se del caso a fronte di un adeguato corrispettivo, un’alternativa equivalente non accompagnata da simili operazioni di trattamento di dati”.

Poiché le aziende non potranno più fare affidamento sulla pubblicità personalizzata o potranno farlo solo in modo molto più limitato e con grande fatica, gli utenti potrebbero trovarsi costretti a pagare per molti dei servizi digitali di cui beneficiano gratuitamente.

Ciò potrebbe comportare una riduzione dell’accessibilità per gli utenti a basso reddito o un aumento dei costi per coloro che desiderano continuare a utilizzare tali servizi. Inoltre, potrebbe danneggiare le piccole e medie imprese che si affidano alla pubblicità online per raggiungere il loro pubblico di riferimento, poiché potrebbero non essere in grado di sostenere i costi delle soluzioni a pagamento.

Internet trasformato in una gigantesca pay tv?

È questo il futuro che si auspica? Internet trasformata in una gigantesca pay-tv, oppure, ancor peggio, popolata (come già sta accadendo da mesi con i quotidiani online) di servizi nei quali il consenso alla profilazione rappresenta l’alternativa al pagamento in moneta corrente? In uno scenario ai limiti del surreale, quel consenso “spintaneo” è considerato perfettamente in linea con il GDPR, mentre il ricorso a diverse basi giuridiche del trattamento, come il legittimo interesse o la necessità contrattuale, va combattuto con ogni mezzo.

Società della sorveglianza

Il terzo e ultimo spunto di riflessione ci riporta al tema dell’importanza delle metafore nella regolazione.

L’orientamento giurisprudenziale sopra descritto non nasce nel deserto. È stato nutrito da anni di narrazione sulla c.d. società della sorveglianza, dall’aver trasformato, soprattutto in certi ambienti politici, un semplice modello di business nella Stasi della Germania dell’Est, il potente servizio segreto che monitorava i comportamenti di tutti i cittadini.

Scorrendo la sentenza quell’humus culturale emerge con forza (cfr. il punto 118: “il trattamento in causa nel procedimento principale è particolarmente esteso, giacché verte su dati potenzialmente illimitati e ha un notevole impatto sull’utente, di cui Meta Platforms Ireland controlla gran parte, se non la quasi totalità, delle attività online, il che può suscitare in quest’ultimo la sensazione di una continua sorveglianza della sua vita privata”).

Occorre essere politicamente scorretti, cari i miei 25 lettori. Della vostra vita privata, alle piattaforme online, non interessa proprio nulla. Non siete così importanti. Nessuno di noi lo è. Quello che è per loro interessante non è il nostro corpo fisico, ma uno dei nostri tanti e cangianti corpi elettronici (per citare Stefano Rodotà) in cui la nostra identità si compone e scompone continuamente nelle interazioni online.

Il giorno che parlerete online solo di ricette di cucina cinese, pur rimanendo i più grandi e sfegatati tifosi della vostra squadra di calcio, nessuno vi proporrà di acquistare la maglietta della nuova stagione o un abbonamento allo stadio.

Siete quello che condividete

Siete quello che condividete. Il giorno che capirete questo e smetterete di condividere quello che siete, vi accorgerete che non esiste nessuna Stasi che segue ogni passo che fate, ma solo delle aziende che provano a proporvi pubblicità in base ai vostri gusti. Nulla di particolarmente innovativo, funziona così dall’avvento della televisione commerciale, l’unica differenza è che i dati a disposizione, ora, sono molti di più e gli spazi potenzialmente infiniti con conseguente abbattimento dei costi per gli inserzionisti.


Le piattaforme digitali hanno svolto un ruolo significativo nell’offrire servizi gratuiti e accessibili a miliardi di utenti in tutto il mondo. La pubblicità personalizzata è stata uno dei principali driver di questo modello economico.

I modelli economici nascono, si evolvono, muoiono. Non abbiamo bisogno di battaglie etiche, ma, caso mai, di modelli alternativi parimenti sostenibili, se ce ne sono.

Oppure, rassegniamoci: il futuro è a pagamento.

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