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Come cambia la rete fissa in Italia

Siamo sempre più mobili, con i nostri telefonini 4G, 4.5G e 5G e con una dotazione di gigabyte ad alta velocità quasi sempre superiore alle nostre possibilità di consumarli tutti entro la fine del mese. Eppure l’importanza della rete fissa rimane indiscussa, anche se il modo in cui la utilizziamo è radicalmente differente da qualche anno fa. Prendiamo i servizi vocali, ad esempio: secondo l’ultima relazione di Agcom al Parlamento, nell’ultimo anno i ricavi dalle telefonate da fisso sono scesi del 9,2%, nuovo atto di una discesa che ormai sta andando avanti da tempo.

Parliamo usando la vecchia cornetta, è vero, per complessivi 34,5 miliardi di minuti, ma il volume delle conversazioni è sceso del 13,7%. In calo soprattutto il traffico verso i telefoni fissi nazionali (-14,6%), ma anche quello verso la rete mobile (-9,8%). Eppure, i ricavi crescono (+5,3%): merito della banda larga e soprattutto di quella ultralarga, visto che gli abbonamenti a Internet sono oggi 16,8 milioni (+4,9%) e che per avere il massimo che il mercato può offrire, attualmente la fibra ottica FTTH da 1 Gbit/s, in media si deve spendere qualche euro di più (ma le promozioni non mancano mai, e basta consultare il comparatore di SosTariffe.it per rendersene conto).

Verso l’addio all’ADSL

Andando a misurare le velocità medie degli abbonamenti a Internet nelle case degli italiani, quelli pari o superiori a 30 Mbit/s in download – ovvero tutti quelli che si possono considerare fibra ottica, che sia la FTTC da 100 o 200 Mega oppure la FTTH fino a 1 Gbit – sono cresciuti del +14,9%, e oggi rappresentano quasi il 40% delle linee a banda larga complessive. In discesa invece le ADSL, ora al 30% (il 21% per quanto riguarda i ricavi).

In media, i ricavi mensili per la banda larga si aggirano tra i 20,7 euro dei servizi con prestazioni inferiori e i 33,1 euro medi per i collegamenti superiori ai 30 Mbit/s, con un valore medio che si attesta sui 28,4% al mese.

Gli accessi con tecnologia in rame – ovvero l’ADSL – erano il 96% del totale solo sei anni fa, nel 2013, oggi – anzi, a fine 2018 – sono scesi al 58%. Sempre nel 2013 non esisteva quasi la fibra FTTC, oggi invece al 31%; la fibra FTTH arriva invece al 4,2%, con una crescita più lenta (per forza di cose, considerando che la cablatura è molto più complessa rispetto al semplice allacciamento della vecchia linea in rame all’armadio stradale).

Come stanno andando gli operatori

Sempre paragonando 2013 e 2018, si può vedere come TIM sia passata dal 62,7% al 50,2% del totale degli accessi, mentre sono cresciuti quasi tutti gli altri, in particolare Vodafone (passata dal 9,4% del totale al 14%), Fastweb (dal 9,4% al 13%) e gli operatori minori (dal 5,2% al 9,6%), mentre Wind Tre (compresa l’ex Infostrada) è rimasta sostanzialmente stabile, passando dal 13,4% del mercato all’attuale 13,2%.

Il quadro che ne emerge è quindi molto più lontano dal monopolio di quanto non fosse tempo fa, non solo per la crescita dei diretti concorrenti di grandi dimensioni di TIM ma anche per i soggetti meno strutturati.

Dal 2013 al 2018, il traffico dati totale è quadruplicato, arrivando agli attuali 22.600 petabyte, ed è cresciuto altrettanto il consumo unitario, ora stimabile in più di 110 gigabyte al mese per abbonato. A giustificare tale aumento c’è soprattutto la crescita della fruizione di contenuti video: non è un segreto che Netflix (e in minor misura altri fornitori come Amazon Prime Video o Chili, ma anche la stessa Sky con NOW TV e con l’offerta dei pacchetti classici anche via fibra ottica) sia diventata una presenza molto familiare nelle nostre case, e la presenza di contenuti (e dispositivi hardware, televisori ma anche smartphone e tablet, in grado di suopportarli) con definizioni altissime ha portato una crescita dei consumi soprattutto per chi non si accontenta di una buona visione, ma vuole il meglio.

La questione è anche anagrafica: la Generazione Z e quella che verrà dopo è abituata a gestire gran parte delle proprie interazioni attraverso lo smartphone, da Instagram a WhatsApp agli altri social, e infatti il 94,4% delle famiglie in cui c’è almeno un minorenne in casa ha una connessione a banda larga, fissa e mobile; le famiglie composte solo da ultrasessantacinquenni, invece, hanno una percentuale molto più bassa, il 31,4% (comunque in aumento rispetto al 24,5% dell’anno precedente). E, naturalmente, una questione di formazione: il 94,9% delle famiglie con almeno un laureato ha la banda larga, percentuale che scende al 64% nelle famiglie dove non si va oltre la licenza media.

Il dilemma TIM-Open Fiber

La situazione della banda larga, in Italia, è particolarmente complessa anche per i rumour che si rincorrono ormai da giorni su una possibile fusione tra TIM e Open Fiber. Un matrimonio che potrebbe significare il ritorno a una situazione di monopolio di fatto, come in passato: Open Fiber, infatti, è la società di proprietà di Enel e di Cassa Depositi e Prestiti – quindi a controllo statale per una percentuale non irrilevante – che ha sviluppato gran parte dell’attuale infrastruttura fisica in fibra ottica, in concorrenza con la stessa TIM. Oggi Open Fiber fornisce infatti la fibra agli altri operatori del mercato italiano, da Vodafone a Infostrada.

L’idea della fusione (per ora corroborata da un accordo di non divulgazione firmato dai soggetti coinvolti) porterebbe quindi a un risparmio di costi per le due aziende e a notevoli sinergie, basi che pensare che l’attuale duopolio fa sì che molte unità abitative italiane abbiano una doppia cablatura, quando ovviamente ne basta una.

D’altro canto, la convergenza tra TIM e Open Fiber (che potrebbe teoricamente seguire due strade: da una parte lo scorporo della rete di TIM e la fusione con gli asset di Open Fiber, dall’altra l’acquisto da parte di TIM delle infrastrutture di Open Fiber nelle zone non a fallimento di mercato) porterebbe a un solo soggetto monopolista e a migliaia di esuberi.

Per questi motivi Angelo Cardani, subito prima di lasciare la poltrona di presidente di Agcom, ha parlato in modo piuttosto critico dell’eventualità, definendola “un passo indietro”.

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