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Come cambia la guerra con i social media

E quindi, ciò che speravamo fosse sparito dal nostro presente – una guerra a poche centinaia di chilometri da casa nostra, già con migliaia di morti e un milione di sfollati, addirittura con minacce nucleari all’orizzonte – si è materializzato in una manciata di giorni: improvvisamente anche quella che pensavamo fosse la massima emergenza in corso, e dalla quale stavamo uscendo a fatica, la pandemia, è passata in secondo piano, sostituita dalle notizie che arrivano di ora in ora dall’Ucraina.

Anche sui social network, naturalmente, in quanto riflesso sempre più fedele delle nostre, non necessariamente per le nostre intenzioni di presentarci senza filtri – sono, come sappiamo, il regno di ciò che vorremmo essere – ma per il semplice dato quantitativo. Se parliamo di noi 24 ore su 24, o giù di lì, grazie ai bassi prezzi di Internet mobile (con i comparatori come SOSTariffe.it a segnalarci le offerte del giorno), difficilmente potremmo impedire che filtri qualcosa che riguarda la nostra quotidianità in modi imprevisti, soprattutto se catastrofici. E perfino chi è solo uno spettatore, e di mestiere raccoglie sponsorizzazioni sui social, come gli influencer, non può stare a guardare: e così, anche sui profili degli insospettabili sono spuntate bandiere dell’Ucraina, cuori gialli e blu, inviti ad approfondire.

Una guerra social, ancora più delle altre

Ogni volta che si ripete un evento già avvenuto in passato ma in un contesto culturale diverso, si ha l’abitudine di dire che si tratta di una prima volta: la prima guerra con immagini televisive, la prima guerra con le foto arrivate dagli smartphone, la prima guerra davvero “social”. E in effetti la pervasività dei social media è oggi a un tale livello che sui device di tutti, in un modo o nell’altro – vecchi o giovani, utenti abituali o chi solo occasionalmente apre Facebook o Instagram – si è riversata una quantità impressionante di materiale arrivato direttamente dalle zone colpite dal conflitto; senza precedenti perché, comunque, l’Ucraina è un Paese benestante, rapportato ad altre parti del mondo dove i massacri sono continui ma passano sotto silenzio perché nessuno o quasi ha uno smartphone che documenti quello che succede. Su TikTok, immagini strazianti di persone nei rifugi antibomba, terrorizzate e ammutolite; su Twitter, filmati ravvicinati delle esplosioni; su Instagram, storie che raccontano la guerra vista in prima persona da parte di chi non è un reporter, ma qualcuno che, dall’oggi al domani, ha dovuto abbandonare la sua casa per mettersi in salvo.

Come il trentenne monzese Fabio Pansera, in Ucraina da cinque anni, che sul suo profilo aggiorna in tempo reale i follower, fino a diventare un punto di riferimento: come ha dichiarato a Parma Today, «L’Ambasciata italiana mi ha chiesto di diffondere nel gruppo che gestisco su Telegram le informazioni importanti per i nostri connazionali che si trovano in Ucraina». Tutto questo a ribadire quanto siano importanti le comunicazioni non ufficiali, non mediate, ma molto più rapide, ideali in un momento in cui gli eventi cambiano di minuto in minuto. Su Telegram in particolare sembra avere luogo una guerra parallela, con i due opposti eserciti, nonché i civili ucraini, che fanno largo uso di questo sistema di messaggistica – ritenuto “più sicuro” di WhatsApp, ma soprattutto molto più flessibile – per comunicare gli spostamenti del nemico, e allo stesso modo invitando a boicottare i sistemi di comunicazione altrui.

Un difficile equilibrio tra etica e affari

Allo stesso tempo, in un momento in cui parlare nelle piazze e proclamare la propria posizione può essere molto pericoloso, i social network diventano una formidabile piazza dove esprimere le proprie idee, e una “tendenza” può essere un’arma di propaganda o contro-propaganda dal potere imprevisto, soprattutto per chi è ancora legato ai vecchi modelli novecenteschi del conflitto (rispetto a chi invece non ha visto nemmeno la guerra fredda, come molti nuovi CEO del mondo social). Chi fornisce un servizio di questo genere è anche un protagonista dell’economia mondiale, e quindi viene chiamato a rispondere delle sue politiche, in un momento in cui l’Occidente intende imporre sanzioni molto severe alla Russia. «Siamo una società, non un governo», ha detto Nick Clegg, VP dei global affairs di Meta, «ma è una situazione senza precedenti». Per ora, Meta ha deciso di impedire ai media vicini al Cremlino di acquistare spazi per la propaganda su Facebook e YouTube. Il resto si vedrà.

Nuovi modi per raccontare il conflitto

Rimane comunque una situazione inedita. A volte è la stessa modalità della testimonianza a venire alterata in modi che rischiano di essere tanto bizzarri da rasentare il grottesco; proprio TikTok, con le sue modalità ben precise di comunicazione (molto diverse da quelle più “libere” di Instagram, per capirci) ne è la prova. È difficile pensare a come si possa mediare il format “stacchetto di pochi secondi con musica di sottofondo”  (TikTok è pur sempre il discendente di musical.ly, e con esso condivide la stessa predilezione per una sorta di musica applicata ai meme, o viceversa) con le terribili immagini associate ai bombardamenti, alla fuga, alla resistenza contro il nemico. L’effetto è straniante, ma è anche vero che ogni generazione comunica nelle modalità che ha, e con gli strumenti che sa maneggiare meglio. Tra l’altro, varrà la pena di notare come TikTok sia un social cinese, e considerato come la posizione della Cina sulla guerra tra Russia e Ucraina sia una di quelle più cruciali per le sorti del pianeta, non proprio aderenti a quelle degli USA di Facebook o Twitter, di questo fattore bisogna tenere conto; forse non ora, ma in futuro. Abbiamo imparato che i social, per quanto proclamino di essere soltanto dei distributori di contenuto e non degli editori, in realtà non lo sono mai.

Si parla pur sempre, infatti, di piattaforme che non sono libere, ma che hanno dei costi e soprattutto dei profitti ingenti per chi li possiede: questione quindi di algoritmi, suggerimenti, censure di materiale non adatto. Un recentissimo articolo del New Yorker, intitolato Watching the world’s “first TikTok war”, analizza proprio la nuova estetica di questa guerra via social, e di quali sono le implicazioni di una comunicazione veicolata attraverso un colosso informatico con le sue logiche, spesso brutale. Con un interrogativo di fondo dell’autore, Kyle Chayka, a cui è davvero difficile dare una risposta: si tratta di una nuova forma di giornalismo di guerra “dal basso”, fatto dai cittadini e non dai professionisti, o è solo un invito a continuare a cliccare?

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