Il modello

City brain e protezione dei dati, pregi e difetti del modello Singapore

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Sono i dati a guidare le decisioni degli amministratori, ma per proteggere la privacy dei cittadini serve un “patto di fiducia”. Ora la Città Stato asiatica sogna un ‘cervello elettronico’ della metropoli con una rete di 100 milioni di smart objects.

Una vera e propria Città Repubblica con oltre 5,5 milioni di abitanti e quarto più rilevante centro finanziario al mondo, Singapore è uno Stato nella metropoli e forse un modello urbano unico, che si farà strada in futuro anche in altri Paesi.

Costruita su 63 isole, Singapore ha una densità abitativa tra le più alte del mondo e una composizione demografica così variegata da renderla una vera e propria città cosmopolita.

La sua amministrazione pubblica è di fatto un Governo e tra i piani di crescita e sviluppo non mancano quelli dedicati alla smart city, con la diffusione di migliaia di sensori interconnessi, delle reti 4G/5G, di servizi avanzati per cittadini e imprese, di soluzioni per l’Internet delle cose, di droni per la consegna di pacchi e posta, di sistemi per il controllo e la gestione intelligenti del traffico urbano.

I dati ovviamente hanno un ruolo chiave nella visione del Governo di Singapore. Servono ufficialmente a migliorare la qualità della vita dei cittadini e a promuovere un nuovo modello di economia digitale, ma certo sollevano molte perplessità nel modo in cui sono raccolti e per l’utilizzo che ne viene fatto.

Proprio qui due anni fa è stato lanciato il programma ‘Smart Nation, cioè una piattaforma di raccolta ed elaborazione dei big data urbani che ha il compito di integrare tutte queste nuove tecnologie digitali per coordinare i progetti, trattare informazioni e regolamentare il loro uso nei vari settori dell’economia e dell’amministrazione pubblica, dall’housing alla salute ai trasporti.

I dati guideranno le decisioni degli amministratori” e “i cittadini sono d’accordo nel cedere i dati che li riguardano in cambio di servizi” (e qui siamo chiamati in causa tutti), spiegano dal Governo, e per fare in modo che questo processo che loro considerano “dal basso verso l’alto” sia efficace e sostenibile è stato annunciato un nuovo progetto quinquennale: costruire entro il 2022 una rete di 100 milioni di dispostivi intelligenti collegati tra loro via wireless per raccogliere ed elaborare i dati relativi ai flussi di pedoni in strada, al traffico, alle condizioni climatiche, ai livelli di inquinamento e molto altro.

Ufficialmente, come in altri progetti simili di altre città nel mondo, i dati relativi agli spostamenti quotidiani delle persone, ai mezzi che usano per muoverci, ai locali che frequentano di più, ai negozi in cui entrano, a quello che preferiscono mangiare, a che ora escono e rientrano di casa, servono a migliorare l’offerta di servizi, magari personalizzati.

In molti si sono subito preoccupati del livello di privacy e di protezione dei dati personali: “Che fine faranno i nostri dati? Come saranno trattati? In quale misura sarà rispettata la riservatezza dei dati personali?”. Domande legittime che, secondo il Governo di Singapore, trovano già risposta nel “Personal data protection Act”, forse uno dei primi esempi di pacchetto legislativo dedicato alla privacy in una smart city.

D’altronde l’idea dichiarata di voler creare un vero e proprio “cervello della città”, un inedito “city brain”, necessità di attenzioni legislative particolari, di riflessioni sociali ed etiche. L’uso improprio dei dati è una realtà, tanto quanto lo è la loro importanza in chiave di promozione e sviluppo di una diversa visione della Città.

Tracciare continuamente le persone, controllarne gli spostamenti, monitorare le abitudini e magari condividere questi dati con i privati e le imprese, può portare facilmente alla violazione della privacy. L’unica possibilità è che si instauri un rapporto di ‘fiducia’ tra i cittadini e gli amministratori e tra questi il mondo imprenditoriale.

Singapore, per affrontare il problema, si è dotata di un’Agenzia governativa per l’innovazione tecnologica e il suo ruolo è quello di armonizzare le esigenze di tutte le parti e trovare sempre una soluzione che non danneggi nessuno e permetta a tutti di trarre vantaggio dall’utilizzo di una determinata tecnologia nel rispetto della privacy delle persone.

Un modello di smart city, insomma, di cui è difficile al momento stabilire se positivo o negativo, se legato alle specificità di Singapore o replicabile nel mondo, ma che pone degli interrogativi. Se è vero che la città del futuro dovrà basarsi sulla fiducia tra amministratori e cittadini, perché non ascoltarli prima di installare ad esempio migliaia di videocamere in strada e poi valutarne l’impatto sociale? Non era meglio coinvolgere direttamente chi sarà ripreso giorno e notte da quei dispositivi?