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Cittadini Attivi, il futuro in vetrina da Ikea

Ikea

Ebbene sì, lo ammetto. Avendo bisogno di un’appendice per la povera libreria del salotto, che vomita tomi di svariate dimensioni da ogni lato e inizia a dare segni di cedimento, ho deciso di affrontare l’avventura di un sabato pomeriggio da Ikea.

Lo so: il mostro giallo e blu è il principale responsabile della crisi dei nostri bei mobilifici e anche delle ormai estinte, profumatissime (non trovate un proustiano potere evocativo nell’odore del legno?) botteghe dei falegnami; un luogo in cui lascia ogni speranza chi crede ancora ingenuamente nel defunto “made in Italy”.

Già. Persino noi, popolo di artisti, artigiani e disegnatori, ci siamo fatti corrompere. Da chi poi? Dagli svedesi, non proprio famosi per creare il bello, che al massimo vantano qualche sito vichingo, questa tanto sbandierata natura incontaminata (per noi italiani sopravvalutata e ovviamente inferiore alla nostra “ben” sfruttata) e soprattutto il salmone, unica indiscutibile eccellenza, se non fosse che quello norvegese sembra sia superiore… Mah eppure ci caschiamo tutti, a giudicare dal numero sempre crescente di filiali che hanno invaso il bel paese da nord a sud, e il motivo sospetto che sia per tutti rappresentato dal fatto che, invece di venderti un rene per una sedia di Philippe Starck, da Ikea arredi tutta casa allo stesso prezzo di una lampada di design. La differenza c’è e si vede tutta, ma vuoi mettere la soddisfazione di avere il tavolo sbilenco sapendo di averlo montato male tu?!

Più ancora della qualità assente, il problema principale del colosso svedese è il suo pubblico: in particolare nel fine settimana, si aprono le gabbie e inizia l’invasione di ragazzini e adulti urlanti, disposti a tutto per accaparrarsi orrori dai nomi impronunciabili, e soprattutto soprammobili kitsch che poi esporranno trionfalmente in case arredate in serie.

Ci vuole un fisico bestiale per farsi largo a suon di spintoni sopportando il persistente tanfo di truciolato, ma il mio happy end è rappresentato da un numero consistente di discutibili cubi colorati i quali, decido, non saranno complementi d’arredo inconfondibili né tantomeno solidi, ma assolveranno la loro funzione (in realtà ora i libri hanno il compito di sostenere i cubi già pendenti!).

La novità davvero entusiasmante della mia proficua giornata di shopping però è rappresentata, più che dall’acquisto, da uno stand posto davanti all’ingresso dove gentilissime signorine (probabilmente laureate in ingegneria aerospaziale che in Italia non possono aspirare ad altro) ti porgono degli occhialoni proponendoti di fruire di un’esperienza di realtà virtuale: accetto incuriosita e vengo immediatamente proiettata in una enorme cucina in 3D in cui posso muovermi e interagire con gli oggetti, aprire i cassetti, mettere una padella sul fuoco o cambiare colore alla credenza…il tutto mentre le persone intorno ti vedono gesticolare a vuoto e ridere sguaiatamente a causa di un paio di occhiali allucinogeni! Che dire se non che Ikea con questa trovata, ora tradotta in una app (che ovviamente arriverà in Italia solo nel prossimo millennio, se tutto va bene, così come ARKit di Amazon), ha guadagnato anche l’interesse del pubblico più diffidente, permettendogli di visualizzare l’amata libreria Billy o il famoso divano Kivik nel proprio salotto?

Ovviamente la realtà virtuale era già diffusissima, non c’era bisogno di applicarla al re del compensato, in effetti però integrarla in un esercizio commerciale è un modo per renderla sempre più fruibile e familiare a tutti: nel mondo dell’arte, ultimamente il grande pubblico ha imparato ad amare questa tecnologia grazie alle mostre “Van Gogh alive, the experience” e “Viaggio nei Fori”, eventi che hanno permesso allo spettatore di immergersi tanto nelle pennellate espressioniste del pittore olandese quanto nella ricostruzione dei Fori di Augusto e di Cesare, come se la realtà virtuale nello spazio della mostra diventasse reale. C’è qualcosa di più entusiasmante del trasformarsi, da semplici visitatori, a fruitori e protagonisti di una mostra d’arte, quasi leggessimo il nostro nome sui manifesti del Vittoriano o delle Scuderie del Quirinale?

Manie di grandezza? Sì, grazie. E soprattutto queste nuove tecnologie hanno centrato l’obiettivo tanto caro ai “grandi”: quello di tornare bambini mentre giocano in un paese delle meraviglie digitale. Da profana, ammetto di aver sempre confuso la realtà virtuale con quella aumentata; da ex prof precisina e puntigliosa (anche per sfatare il motto “Chi sa, fa. Chi non sa, insegna”) decido di informarmi chiedendo a professionisti del settore; da cittadina attiva, cerco faticosamente di attivare i due neuroni presenti nel pigro emisfero sinistro del mio cervello (sono consapevole di usare esclusivamente il destro) per cercare di capire quanto queste tecnologie possano esserci utili nel quotidiano.

Sia la realtà aumentata che quella virtuale forniscono ulteriori informazioni al nostro mondo sensibile, immagini e testi fruibili grazie a un supporto specifico, ma se la AR sovrappone tali dati alla realtà che vediamo intorno a noi, la VR catapulta l’utente in un luogo creato dal supporto stesso, sostituendo completamente il mondo reale con quello virtuale.       Quindi ecco che la differenza sta soprattutto nel completo scollamento con la realtà di una tecnologia contro la semi-aderenza dell’altra, diversificate anche nei supporti utilizzati: la realtà virtuale prevede necessariamente l’ausilio di un visore, mentre quella aumentata può anche farne a meno a seconda dell’utilizzo nei diversi programmi e applicazioni; infatti, se in ambito militare (campo in cui è nata tale tecnologia) i piloti necessitano dell’head-up display, visore a sovrimpressione che mostra informazioni come la velocità del velivolo o la distanza dall’obiettivo senza distogliere lo sguardo dalla guida (altrimenti ci sarebbero conseguenze spiacevoli!), nel settore della telefonia il reality browser Layar permetteva di ricevere direttamente sul proprio smartphone informazioni relative a punti di interesse nelle vicinanze semplicemente inquadrandoli con la fotocamera.

È un po’ come facciamo oggi con il QR Code per leggere la storia di monumenti o musei, ma in più Layar ti aiutava a rintracciare il benzinaio o il ristorante più vicino, come fanno le app più recenti. Quanto ci sentiamo protetti sapendo che, se finiamo la benzina o abbiamo un attacco di fame violento e improvviso, il nostro fedele telefono (termine ormai in disuso, dato che tutto facciamo con lo smartphone tranne che telefonare), ci salverà!

Quindi ecco che, se ci sembra impossibile che i nostri genitori siano sopravvissuti senza una “sana” simbiosi con il cellulare da cui siamo tutti affetti, in un domani che è già oggi la realtà aumentata sta diventando utile anche nella vita di tutti i giorni, e si sa che dall’“utile” all’“indispensabile”, in un mondo roso dal consumismo, il passo è istantaneo. Ma, cari i miei cittadini attivi, a questo punto potreste essere disorientati nell’afferrare l’importanza di quella che vi sembra l’ennesima novità futurista, lontana dalla nostra vita: che ruolo potrebbe mai avere una tecnologia così innovativa nel quotidiano?

Effettivamente me lo chiedevo anch’io finché non mi sono informata sugli sviluppi e le applicazioni che derivano dalla AR, capaci di migliorare tante esperienze della nostra realtà, dall’intrattenimento, alla mobilità, a svariati ambiti lavorativi: per quanto riguarda l’aspetto ludico, non avete figli adolescenti o mariti Peter Pan (o lo siete voi stessi pur negandolo strenuamente!) che hanno vissuto un periodo di completa dipendenza da Pokemon Go?

Il giochino infernale ha rimbambito grandi e piccini a livello planetario, rivoluzionando il mondo gaming grazie appunto alla realtà aumentata, che permette di visualizzare i Pokemon direttamente sul proprio smartphone per la gioia di milioni di giocatori/drogati.

Oltre a queste divertenti (per molti!) applicazioncine, anche il nostro modo di spostarci verrà investito dalla rivoluzione AR: infatti esistono già alcuni sistemi in grado di sovrapporre in tempo reale informazioni stradali, indicazioni sul traffico e segnaletica direttamente sul parabrezza della nostra auto, tanto che il caro TomTom, ami-nemico di ogni guidatore, è ormai già obsoleto. L’unico rischio di questa tecnologia è che siate talmente affascinati dal vostro parabrezza da accomodarvi sui sedili posteriori della vettura davanti alla vostra!

L’ambito in cui la realtà aumentata risulterà davvero indispensabile è però quello lavorativo: sono in fase di collaudo delle applicazioni per cui, in campo medico, un chirurgo potrà visualizzare la cartella clinica del paziente, in caso di necessità, anche durante un’operazione rendendo l’intervento più rapido; nelle fabbriche, il lavoro degli operai sarà reso meno pesante grazie agli smart glass (nipotini riusciti dei fallimentari Google glass), supporto che garantirà una maggiore sicurezza ai lavoratori fornendogli quante più informazioni possibili sulla catena di montaggio.

Se invece, come me, svolgete un lavoro che vi àncora alla sedia per gran parte della vostra giornata, anzitutto iniziate una dieta e iscrivetevi in palestra, e poi prendete in considerazione l’idea che un giorno diventerete inseparabili dalla vostra scrivania del futuro: Workspace non ha monitor, né tastiera, né mouse né…computer!

Sembrerebbe una strampalata invenzione di Doc davanti alla quale persino Martin sarebbe rimasto sorpreso, invece questo gioiello tecnologico, nato in una startup americana, è già stato collaudato e presto inizierà la commercializzazione: grazie a un programma e a un dispositivo di realtà aumentata come un visore o gli smart glass, è possibile gestire elementi virtuali come pagine web o applicazioni semplicemente tramite i movimenti delle mani, visualizzando le immagini come se fossero sospese per aria. Quanto tempo potremmo risparmiare in ufficio se non dovessimo mai temere il rallentamento dei sistemi e delle reti, i continui aggiornamenti di programmi e software che ci costringono a fermarci e ad aspettare i comodi del pc? Senza contare i risparmi di spazio, dato che non avremmo neanche bisogno di una scrivania capiente; certo, probabilmente all’inizio ci sentiremmo in un lieve disagio smanacciando a vuoto davanti a colleghi o utenti, ma, come abbiamo fatto l’abitudine al touchscreen, impareremo a destreggiarci con disinvoltura anche con questa nuova tecnologia, aprendo la posta con la mano destra e facendo una ricerca con la sinistra, il tutto mentre veniamo assaliti da dati e immagini fluttuanti nell’aria.

Ironia a parte, la realtà aumentata sta aprendo nuovi scenari inaspettati che non possiamo ignorare, perché miglioreranno tanti e tali aspetti della nostra vita che l’unica cosa da fare è aggiornarsi per approfittare di un futuro che ci sembra ogni giorno piò fantascientifico, e anche per questo traguardo dovremmo imparare dai nostri ragazzi che, come sempre, sono molto più in gamba di noi nel proiettarsi verso il domani. L’unica difficoltà che hanno i giovani in Italia è che devono essere necessariamente autodidatti quando si parla di nuove tecnologie, perché nelle scuole non si sfiorano nemmeno materie che non siano quelle canoniche, decise da riforme vecchie, appartenenti ad anni in cui nemmeno esistevano i computer e mai aggiornate, perché nel bel paese si sa, se qualcosa funziona discretamente perché cambiare?

I ragazzi si affacciano al mondo del lavoro avendo come strumenti unicamente quelli che si sono saputi procurare da soli: tra loro si confrontano sull’utilizzo dei programmi e problematiche dei software, per non parlare della realtà aumentata che possono solo sbirciare dai programmi tv americani o attraverso le mostre-evento di Nexo Digital; all’università la situazione non migliora se pensiamo che anche quei giovani che scelgono corsi di laurea in grafica e progettazione multimediale non vengono formati sulle ultime innovazioni tecnologiche ma su programmi ormai già desueti.

Ancora una volta l’istruzione italiana fallisce, e pensare che ci sarebbero così tante applicazioni utili in ambito formativo che i ragazzi potrebbero essere più stimolati da una nuova scuola che da un pomeriggio a ciondolare con gli amici: le lezioni frontali potrebbero in parte cedere il passo a quelle interattive in cui il ragazzo, anziché immaginare il Foro Romano nella sua integrità per descriverne meraviglie aleatorie perché non tangibili, potrebbe “entrare” nel Foro tramite un visore per mezzo della realtà virtuale o acquisire informazioni importanti sui quadri più rappresentativi di una mostra per mezzo degli smart glass grazie alla realtà aumentata. Ma soprattutto questi dati acquisiti verrebbero memorizzati perché precedentemente visualizzati e non letti; qui sta la differenza: un ragazzo oggi immagazzina le immagini, non le parole scritte su un testo; i giovani hanno sviluppato, rispetto a noi, una maggiore capacità mnemonica visiva per cui si appassionano e ricordano ciò che vedono ma difficilmente ciò che leggono.

Se sappiamo come stimolare la curiosità dei ragazzi e capiamo che queste tecnologie sono ormai il futuro prossimo, perché lasciamo che i giovani siano outsider del nuovo anziché discenti?

Se siamo almeno in parte solleticati da un domani in grado di svelarci il passato e facilitarci il presente, perché non ci facciamo prendere per mano anche noi da questa rivoluzione e ci tuffiamo in una realtà parallela che arricchisce quella in cui viviamo?

È possibile che per guardare al futuro dobbiamo andare da Ikea?

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