Fotografia

Cittadini Attivi. Il controcampo di Salgado, ‘La gente è il sale della Terra’

di Fausto Franceschini (Engineering Ingegneria Informatica) |

"Salgado ha capito che non c’è separazione, né tra noi e chi vive in un campo profughi, né tra noi e le specie in via d’estinzione e neanche tra noi e le foreste, che possiamo distruggere o ricreare a seconda di quale sia la nostra più autentica volontà".

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Riordinando tutte quelle cose provvisoriamente ammucchiate e accantonate in un apposito scaffale della libreria, ecco che mi passa per le mani un capolavoro ammirato a suo tempo al cinema e anticipato da un evento al quale partecipai all’Auditorium che mi ipnotizzò per circa due ore: l’intervista al regista Wim Wenders. Ho visto quasi tutti i suoi film e ne conservo gelosamente molti in supporto DVD. Ho aperto mutui per acquistare le sue pubblicazioni fotografiche ed ho avuto l’opportunità di ammirare dal vivo alcune delle sue mostre.

Sono stato infatti tra i 1133 fortunati spettatori dell’anteprima del film “Il sale della Terra” avendo partecipato alla lectio magistralis tenuta dal regista tedesco su “Fotografia, Bellezza, Tempo e Verità” nella sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma il 19 ottobre 2014.

Il film documentario, presentato nel maggio 2014 al Festival di Cannes, è dedicato al celebre fotografo Sebastião Salgado. Autori dell’opera Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio del fotografo stesso.

Sebastião Salgado. brasiliano trasferitosi con la moglie dal suo paese a Parigi a causa del regime militare, è un economista che ha scoperto la fotografia grazie alla moglie (Lélia Wanick) che lo ha fortemente influenzato sulle scelte e da allora ne ha fatto l’attività della sua vita. Ha viaggiato in lungo e in largo per il mondo col suo sguardo orientato all’antropologico e al sociale, spinto da un’unica e costante ossessione: rappresentare le fragilità della natura umana, ridisegnare le linee di confine, le luci e le ombre tra la natura e l’umanità. È un racconto di storie e vicende umane toccanti e strazianti, col fine di documentare gli aspetti più oscuri della vita, accompagnate da aneddoti e commenti di Salgado stesso.

Il regista ha analizzato il lavoro del fotografo intervistandolo e passando in rassegna alcune sue foto tratte dai reportage intorno al mondo. «Pensavo di poter girare rapidamente – spiega Wenders – ma durante la lavorazione mi sono accorto di aver bisogno di più tempo. Abbiamo girato il film due volte. La prima normalmente con tre macchine da presa su di me, lui e una sulle foto. Poi volevo riprendere la sua reazione nel rivedere i suoi lavori. Ho filmato di nuovo riprendendo Salgado da uno schermo semitrasparente mentre riguardava le sue foto e discuteva».

«Una foto non racconta solo di chi è ritratto ma anche di chi scatta, di chi ritrae ed ha un controcampo incorporato che mi affascina. In Salgado questo controcampo ha amore, avventura, infinita conoscenza ma non lo capivo appieno e dunque ho fatto il film».

Ne Il sale della Terra, ci sono molti scatti forti, intensissimi, come quelli che testimoniano la fame in Africa o le foto sui cercatori d’oro della Sierra Pelada: «Salgado è stato criticato più volte per il suo modo ‘estetizzante’ di fotografare. Ma più che parlare del fatto che una foto sia bella o no, bisognerebbe capire se una foto sia giusta o no. Lui non cerca Bellezza ma Verità. Non è vero che nessuno può ritrarre la morte o il dolore, bisogna farlo vedere perché la gente deve capire, l’importante è che sia fatto con rispetto e dignità, le uniche cose che contano».

Un film che ha portato via al regista tempo ed energie, più di quanto inizialmente avesse previsto: «L’aspetto del tempo è fondamentale in quest’avventura. C’è una tale profondità nei lavori di Salgado che ha reso impossibile realizzare il film in tempi brevi. Un intreccio tra viaggio e fotografia, un viaggio in Amazzonia, Congo, Indonesia, Nuova Guinea, Antartide, Cile e Siberia, con la volontà di documentare la bellezza e gli orrori della nostra umanità. Ogni foto è un pezzo di tempo e un pezzo di vita, sia di chi è fotografato sia di chi fotografa».

Magnificamente ispirato dalla potenza lirica della fotografia, è un documentario monumentale, un’esperienza estetica esemplare e potente, un’opera sullo splendore del mondo e sull’irragionevolezza umana che rischia di soffocarlo. Alternando la storia personale di Salgado con le riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il documentario ha un respiro intimo e cosmico insieme, è una preghiera che dialoga con l’uomo, la natura e l’Onnipotente. Fotografo umanista della miseria e della tribolazione umana, egli racconta le storie della parte più nascosta del mondo e della società. Le sue foto arrivano dentro alle cose perché nascono dall’osservazione, da un fenomeno naturale come la testimonianza umana. Un lavoro scritto con la luce e da ammirare in silenzio. Un viaggio epico che comprova l’uomo e la natura, le questioni del territorio, la maniera dell’uomo di creare o distruggere, le storie di sopraffazione scritte dall’economia, l’effetto delle nostre azioni sulla natura, sempre intesa come “bene comune”.

Inizialmente lo scopo era raccontare con le immagini quello che la parte più ricca del mondo non conosce, quell’umanità diseredata e disperata che vive nelle zone più difficili del pianeta; dalle straordinarie, terribili immagini delle migliaia di lavoratori nelle cave aurifere della Sierra Pelada ai genocidi e agli epici esodi di massa africani fino alla prima guerra del golfo. Immagini in bianco e nero di una potenza evocativa unica, bellissime e terribili al tempo stesso, che lasciano poco spazio alla speranza di un mondo migliore. Nonostante questo, accanto alla sua vita di fotografo, alle immagini si accompagna un’attività positiva ed ottimista da parte sua e di sua moglie: ripopolare di piante le zone diventate quasi desertiche della proprietà del padre di Salgado.

Il film è una lettura reale della nostra condizione terrena che lascia la speranza di un futuro migliore per l’umanità intera. L’essenza rivela come l’amore, la passione e la fede possano diventare un’indomabile forza che si trasforma in opera come esempio per tutti. “Genesi”, il suo ultimo progetto che lo ha occupato ben 8 anni per oltre 30 reportage distinti in giro per il mondo, è una raccolta di immagini che omaggiano la bellezza del nostro pianeta, satura di un silenzio pieno di vita che dà valore al senso ultimo dell’esistenza; allontanarsi dalla baraonda del mondo senza mai abbandonarlo, per immergersi invece nella natura incontaminata e onnipresente, di cui basta prendere coscienza per innalzarla a miglior alleata dell’uomo e della sua felicità. Accanto alle sofferenze comuni dell’uomo narrate dai suoi lavori viene contemporaneamente proposta la possibilità di liberarsene per mezzo di un diverso atteggiamento mentale e spirituale. Il film è anche la storia di un uomo che ha difeso il mondo in una guerra solitaria cambiando prima di tutto sé stesso e riuscendo, forse, a rendere meno banale la nostra speranza.

Un film epico, grandioso, monumentale, per nulla retorico, semplice, profondo e bellissimo. È un ritratto estremamente realistico del nostro pianeta, grazie ai tanti elementi diversi, sia di luce che di ombra; chi meglio di lui può insegnarci come può comporsi un’immagine con la compresenza di luci e di ombre?

Salgado ha viaggiato intensamente per tutta la vita col proposito di raccontare storie da mettere a disposizione dell’umanità intera affinché ciascuno di noi vi si potesse guardare allo specchio. Ha raccontato dell’avidità dei cercatori d’oro in Brasile, rivelandone la condizione di schiavitù autoimposta. Ha passato settimane nel Sahel, uno dei posti più disperati della terra, testimoniando di genitori che assistevano scheletrici alla morte per dissenteria dei propri figli. Tutti progetti pensati prima a tavolino, assieme alla moglie. Dunque non un fotoreporter “spedito” nei luoghi più difficili della terra, ma uno – anzi una coppia – che ha perseguito con tenacia un disegno di verità. Finché non è arrivato il lavoro più duro, quello in Ruanda, dove è stato testimone di atrocità troppo grandi anche per un carattere intrepido come il suo. Nonostante fotografasse le più grandi sofferenze molto da vicino, non era affatto indifferente, ci riusciva perché era determinato anche se a volte, come lui stesso racconta, scoppiava a piangere dopo lo scatto.

Ma Sebastião e Lélia sono una persona sola e così la moglie ha avuto un’idea meravigliosa per risollevarne il morale: riforestare le terre di proprietà della famiglia rese aride dalla deforestazione, uno dei tanti mali che affligge il pianeta, specie per via del consumo eccessivo di carne. Questo miracolo, ad opera di una sola famiglia determinata, può essere un esempio di come il tragico destino del riscaldamento globale, che ci accomuna tutti, possa essere scongiurato con la volontà. Ma questa volontà possiamo avercela solo se impariamo ad amarla, questa Terra e con lei amare l’umanità, che è un tutt’uno con la Terra, senza separazioni.

Il film è prevalentemente dominato da lunghe carrellate di fotografie accompagnate, raccontate, ritmate dalla sua stessa voce. Con il veloce susseguirsi dei suoi lavori, Salgado si è trovato forse inconsciamente in cerchi concentrici esploranti condizioni umane di coloro che l’autore chiama “il sale della terra”: gli esseri umani. Persone immortalate in disparati angoli del mondo, prevalentemente vittime non solo di sistemi socio-economici ingiusti e sproporzionati, vincitori e vinti, dalla terra e dalla natura che ci pervade. Quando nelle sue foto le crepe della secca terra fungono da base a scheletrici corpi morenti, i macilenti bambini restano aggrappati a rinsecchiti seni materni, gli occhi spenti di un vecchio volto nascondono giovani anni, i vetri frantumati dalla guerra violentano l’innocenza di un bambino, difficilmente lo spettatore potrà opporsi ad una commozione pari solo all’indignazione di ciò che lo stesso Salgado ci rivela. Il punto massimo dell’indignazione è la parte che racconta il viaggio in Ruanda per i lavori sulle migrazioni; trovò una distesa abnorme di corpi privi di vita, un genocidio che costrinse l’artista a fermarsi. Tanto sul piano privato quanto su quello lavorativo Salgado ha dunque compiuto in anni recenti scelte ben precise e connesse.

Se dopo una vita apolide torna a vivere nelle terre brasiliane natìe, circondato da una natura nuovamente fiorente, decide per la prima volta di spostare il baricentro della sua opera; con il progetto “Genesi” sonda popolazioni sperdute (dall’Amazzonia al Nord della Siberia), fotografa territori incontaminati, regnati da animali e bellezze nascoste. Semplicemente, con l’intento di comporre una memorabile lettera d’amore alla terra, sprigionando emozioni in un’ottica più ottimistica con uno sguardo non antropologico ma fieramente e fedelmente emozionale. Emozioni che Wenders restituisce con una adesione e una intensità che rendono onore alle opere di Salgado.

Con “Genesis” il fotografo scrive una vera e propria “lettera d’amore al pianeta“, come da lui stesso affermato, scoprendo che il 50 per cento della sua superficie è ancora intatta, proprio come ai tempi della Genesi. Ne trae un grande insegnamento: «Per otto anni ho osservato e ho capito che sono parte della natura come una tartaruga, un albero, un sassolino».

Salgado ha capito che non c’è separazione, né tra noi e chi vive in un campo profughi, né tra noi e le specie in via d’estinzione e neanche tra noi e le foreste, che possiamo distruggere o ricreare a seconda di quale sia la nostra più autentica volontà. Forse il suo messaggio ci potrà salvare.

E alla fine, ritorna ciclicamente un’affermazione a proposito degli esseri umani: «Siamo animali molto feroci, siamo animali terribili noi umani. Sia qui in Europa che in Africa che in America Latina, dappertutto. Siamo di una violenza estrema. La nostra è una storia di guerre, una storia senza fine, una storia di repressione. Una storia folle».

Le sue fotografie sono un mezzo per informare, provocare, emozionare; con il suo esempio, il mondo potrebbe essere salvato. Tutto ruota sul concetto del “give back”, il concetto di «restituzione», che fortunatamente non è un’utopia e che anzi anche in Italia è sempre più in voga. Un business che, invece di depredare e spremere il contesto in cui si sviluppa, lo migliora restituendo alla collettività parte di quanto ricevuto.