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Cinema, incassi in crescita ma i film italiani perdono ancora quota

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L’industria del cinema presenta un preconsuntivo dell’anno 2019: incassi e spettatori in crescita, ma il cinema italiano perde ancora quota. Soltanto 2 spettatori su 10 vanno a vedere film italiani. L’effetto Zalone non basta.

Mentre la Rai si agita e contorce nelle proprie contraddizioni interne (il consiglio di amministrazione di ieri ha sbloccato un “pacchetto” di nomine, ma la situazione appare assai confusa e conferma le incertezze del “timoniere”, l’Ad Fabrizio Salini), l’industria cinematografica nazionale sembra soddisfatta dei primi consuntivi dell’anno 2019.

Il cinema in Italia sta finalmente meglio, almeno dal punto di vista quantitativo?!

Secondo i dati presentati questa mattina dall’Anica (l’associazione dei produttori e dei distributori) e dall’Anec (l’associazione degli esercenti), l’anno 2019 si chiude positivamente e le prospettive per il 2020 sarebbero incoraggianti.

Alcuni dati sono oggettivi ed incontestabili: dopo il declino degli ultimi anni, secondo le stime Cinetel (che si riferiscono ad un 95 % circa del mercato totale: 1.218 cinema e 3.542 sale) l’anno scorso ha segnato una apprezzabile inversione di tendenza, se è vero che gli spettatori sono cresciuti del 13,6%, e gli incassi sono aumentati del del 14,4 %. Indicatori indubbiamente positivi, ma che vanno analizzati approfonditamente.

La soglia simbolica dei “100 milioni” di spettatori l’anno (ovvero, più esattamente, di “biglietti venduti” nell’anno) verrà quindi verosimilmente raggiunta, allorquando la Società Italiana Autori Editori (Siae) andrà a certificare – tra qualche settimana – la rilevazione fiscale del 100 per cento dei dati sull’intero territorio nazionale, se è vero che gli spettatori censiti da Cinetel sono stati, da gennaio a dicembre 2019, nell’ordine di 97,5 milioni, per un “box office” corrispondente a poco meno di 636 milioni di euro. In Francia, il 2019 ha registrato 213 milioni di biglietti venduti, la Germania è a quota 111 milioni, la Spagna a quota 106 milioni. L’Italia ancora arranca.

Questa mattina, nella tradizionale conferenza di inizio anno, i dati del pre-consuntivo Cinetel sono stati presentati nella sede Anica, alla presenza del Direttore Generale della Dg Cinema e Audiovisivo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo Mario Turetta, che ha confermato l’impressione di un “sistema cinema” (se tale lo si può considerare, nei suoi processi policentrici non granché coordinati da una regia centrale) complessivamente soddisfatto.

Atmosfera rilassata, toni pacati, assenza di allarmi di sorta.

L’apparenza inganna?!

Avremo occasione di analizzare questi dati con cura e con attenzione, ma qui ed ora ci permettiamo di osservare che il mercato del cinema italiano si caratterizza ancora per un deficit strutturale di solidità industriale, e che questi risultati positivi possono rappresentare quella classica rondine ingannevole che non sta a significare una novella gran bella primavera.

Va infatti osservato anzitutto un dato deprimente, triste, inquietante: cresce anche un po’ la quota di mercato della produzione “made in Italy”, con un + 5,6 % di biglietti nel 2019 rispetto al 2018, ma il dato complessivo totale sugli spettatori è impressionante (in negativo): su un totale di poco meno di 98 milioni di biglietti venduti, il cinema italiano ha conquistato soltanto 21 milioni, ovvero un 22 % degli spettatori.

22 per cento: una “quota di mercato” bassa, molto bassa, troppo bassa.

Di fatto, su 10 spettatori che vanno al cinema in Italia, soltanto 2 (due!) vanno a vedere film italiani. Sempre ricordando che si tratta di una semplificazione, dato che, su base aggregata annua, 1 “biglietto” non corrisponde ad “1 spettatore”, perché lo stesso spettatore, nel corso dell’anno, può acquistare più di 1 biglietto, ma d’altronde non esistono in Italia dati sulla “frequenza di consumo”, ed anche questa sarebbe un’area di ricerca da sviluppare, per addivenire ad analisi accurate… E chi va a vedere soprattutto film italiani, li vede con maggiore frequenza di coloro che non vanno a vedere film italiani?! Nessuno ha queste informazioni, in Italia, se non le società di esercizio che utilizzano i sistemi di abbonamento su base mensile, che stanno iniziando a svilupparsi…

22 spettatori su 100 per film italiani, quindi…

Ciò a fronte di sovvenzioni dello Stato nell’ordine di 400 milioni di euro l’anno, grazie alla cosiddetta “legge Franceschini”, approvata a fine 2016, e che in parte ancora arranca nell’andare a regime nel suo complicato meccanismo di sostegni (che hanno richiesto circa 20 “decreti attuativi” ed ancora ne mancano).

Il totale degli incassi del cinema italiano è stato di soltanto 135 milioni di euro, corrispondenti al 22 per cento dell’incasso totale di 636 milioni di euro.

Questo dato – che è, per alcuni aspetti, quello centrale, essenziale, fondamentale, nell’analisi di un “policy making” – è più basso, anche se di poco, rispetto a quello del 2018: 21,56 per cento nel 2019 a fronte del 23,20 del 2018, anche se migliore rispetto al terribile 18,31 per cento dell’“annus horribilis” 2017… Ma – si noti bene – nel 2016, la quota degli spettatori italiani era del 28,74 per cento, e 3 anni dopo la perdita è di ben 7 punti percentuali.

Fatto 100 il totale dei cinespettatori di film italiani nel 2016, si osserva che il calo della quota di mercato è di ben il 25 %, passando da 28,74 a 21,56 (il calo è stato infatti di ben 7,18 punti percentuali, che si traduce in una diminuzione percentuale del 24 %).

In altri termini (e senza entrare nel gergo specialistico o statistico), nell’arco di 3 anni sono stati persi 24 dei 100 spettatori di film italiani del 2016.

Ribadiamo: nel 2016, 29 biglietti su 100 venduti erano per film italiani; nel 2019, sono stati 22 soltanto.

In Francia, nel 2019, i film francesi hanno registrato una quota di mercato (biglietti venduti) del 35 %, a fronte del 22 % dell’Italia. Nel 2018, la quota è stata del 39 %, quasi il doppio rispetto all’Italia. Qualcosa non va, in Italia…

Un altro dato interessante emerge, da una prima pur superficiale osservazione del dataset proposto da Cinetel: nel 2019, sono stati immessi nel circuito delle sale cinematografiche italiane 495 film di prima programmazione (cioè, traducendo in italiano volgare, “nuovi”), di cui quelli italiani o comunque di co-produzione italiana sono stati ben 193, ovvero un 39 % del totale offerto (nel 2018, erano stati il 40 %): è evidente che qualcosa non funziona, nel rapporto tra “offerta” e “consumo”, se un 40 % dei nuovi titoli riescono a conquistare soltanto il 22 % degli spettatori che pagano il biglietto in sala…

C’è forse sovra-offerta, con effetti inflattivi, o più semplicemente esiste un qualche “collo di bottiglia” nel sistema distributivo e qualche errorino nelle strategie promozionali (incluso il controverso progetto speciale “Moviement”)?!

Una domanda eccentrica: quanti titoli italiani vengono offerti, settimana dopo settimana, nei multiplex, e quanti nelle mono-sale che ancora (eroicamente) resistono di fronte ad uno sconcertante continuo processo di desertificazione del territorio cinematografico nazionale (in Italia, sono ancora ben 669 le monosale, su un totale di 1.218 cinematografi, ben il 55 % del totale, ma conquistano soltanto un 10 % del totale degli spettatori)?!

La desertificazione del territorio culturale nazionale

L’analisi della progressiva drammatica desertificazione del “tessuto culturale” del nostro Paese non è mai stata oggetto di studi e ricerche: sarebbe interessante comprendere quante sale cinematografiche sono state chiuse nell’ultimo decennio, a fronte di quanti teatri, di quante librerie, di quante edicole… Il fenomeno è molto più profondo di quanto non si pensi, e sintomatico di un impoverimento ed imbarbarimento socio-culturale diffuso.

In Italia, aumenta continuamente la quantità di “cellulari” e “smartphone” e “smart tv”, ma i presidi storici della cultura chiudono i battenti. Nella prevalente indifferenza dello Stato (anche a livello di Regioni e di Comuni).

Una analisi interessante – tutta da sviluppare (a quanto ci è dato sapere) – sarebbe l’osservazione di quanti titoli italiani sono offerti “nel giorno medio” sul totale dei cinema italiani (multiplex e non), su base settimanale e mensile, studiando l’andamento delle uscite e delle teniture, a partire dalle “copie” distribuite di ogni titolo… Abbiamo ragione di credere che emergerebbero dati molto preoccupanti, che interrogherebbero nel profondo sia il Ministro Dario Franceschini sia il Direttore Generale Mario Turetta.

Va precisato che esiste una caratteristica tipica del sistema cinematografico: il dato complessivo su base annua è influenzato da una pluralità di fattori, e basta 1 film uno soltanto a scompaginare pagine e pagine di possibili analisi, senza dimenticare effetti di stagionalità e variabili più o meno impazzite (il famoso “effetto Checco Zalone”, che quest’anno si sta dimostrando meno forte del passato).

Comunque, quel che qui vogliamo segnalare è che lo “stato di salute” di un sistema cinematografico ed audiovisivo deve essere valutato attraverso un insieme di fattori multidimensionali, con valutazioni di impatto accurate e ricerche transdisciplinari, a partire dalla osservazione di alcune dinamiche: non soltanto la quota di mercato di una cinematografia nazionale ed il numero dei film offerti, ma anche – esemplificativamente – le chance che ogni nuovo titolo ha di affermarsi sul mercato, essendo ben diverse le potenzialità uscendo in 50 copie piuttosto che in 500 copie…

L’economia del cinema è anche “politica del cinema”, ovvero processi decisionali nei quali la mano pubblica non può intervenire su un versante soltanto: per capirci, non ha gran senso stimolare la produzione di “tanti” film (in Italia siamo ormai a quota 200 nuovi lungometraggi ogni anno!), se la gran parte di essi finisce per… scomparire dalle sale dopo fugaci apparizioni.

La dinamica dei film italiani “invisibili” (secondo i detrattori dell’intervento pubblico spesso perché… “invendibili”) è un problema storico del sistema assistenziale italiano.

E ha forse senso ri-ragionare su un circuito nazionale di sale cinematografiche a proprietà pubblica, finalizzato alla circuitazione e alla promozione dei film italiani?! A qualcuno la domanda apparirà impertinente e passatista, mentre crediamo che essa abbia assolutamente senso.

Chi cura queste noterelle è convinto (all’opposto dei liberisti estremisti del “think tank” Istituto Bruno Leoni – Ibl) che la “mano pubblica” debba assolutamente intervenire nel sistema culturale e specificamente nel settore cinematografico, non soltanto per superare i “deficit” strutturali del mercato stesso, ma per stimolare pluralismo espressivo, diversità di offerta e pluralità di impresa.

Si ha però ragione di ritenere che meccanismi come il decantato “tax credit” (tanto in voga da un decennio) finiscano per assecondare anzi per ri-produrre un sistema di mercato che si caratterizza per storture varie nelle differenti fasi della “filiera”.

Basti pensare a quanti pochi film italiani vengano ancora proposti in fascia pregiata di palinsesto dalla stessa Rai

Non staremo a ripetere ancora una volta – anche se la tentazione è forte – che il mantra di un “tutto va bene, madama la marchesa” è molto pericoloso: come dire?! la casa non sta certamente andando a fuoco, ma ci sono molte zone pericolanti.

Senza dubbio, è cosa buona e giusta non lasciarsi andare a cupo catastrofismo, ma forse non è con iniezioni di letture positive dei dati, con un eccessivo ottimismo buonista che si affronta la perdurante “crisi strutturale” del sistema cinematografico (e audiovisivo) italiano.

E nemmeno bastano – a questo punto lo si può dichiarare – iniezioni corpose di sovvenzioni pubbliche.

Il problema è infatti non soltanto il “quanto”, bensì anche il “come”.

È vero, la nuova legge cinema voluta dal Ministro Franceschini è stata approvata soltanto a fine 2016, e, dopo tre anni, non è ancora perfettamente a regime (ci si domandi però anche… “perché?”), ma i segnali di rigenerazione del sistema tardano.

Non è ancora possibile comprendere se la “legge Franceschini” stia producendo effetti realmente benefici nel sistema cinematografico nazionale, o se stia assumendo una funzione squisitamente palliativa, non andando a modificare un assetto che si conferma strutturalmente patologico.

E perché in queste presentazioni “dell’industria” sempre un po’ rituali, non vengono mai coinvolte dall’Anica e dall’Anec “categorie” altre, dalle associazioni degli autori a qualche piccolo produttore e distributore indipendente e finanche eroico proprietario di monosale?

Un dibattito pubblico con interlocutori “differenziati” – lungo tutta la “filiera” – provocherebbe un prezioso valore aggiunto di interpretazione dialettica: utile anzitutto al “decision maker” ministeriale.

Clicca qui, per leggere il documento Cinetel “Il cinema in sala nel 2019: i dati del box office”, presentato a Roma, presso la sede Anica, il 15 gennaio 2020.