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Che televisione guardiamo?

Una cosa è sicura: bisognerà aggiornare anche la fraseologia, perché “guardare la televisione” indica sempre di più un’attività non totalitaria, sicuramente parziale, in qualche caso solo residuale – o addirittura assente del tutto. Che si tratti di un film, di una partita di calcio, di una serie tv o di un documentario, la fruizione dei contenuti video del 2019 è liquida come non era mai stata prima d’ora: merito anche delle offerte sempre più convenienti per Internet mobile (disponibili per il confronto su SosTariffe.it) che consentono di usare il cloud sia per la sincronizzazione che per la trasmissione dei contenuti in streaming.
Smartphone, tablet, PC, console di gioco: gli schermi ci seguono, non siamo più noi a dover tornare a casa in tempo perché sta iniziando il nostro programma preferito. Anche chi ha dominato gli scorsi decenni nel panorama dell’offerta televisiva in chiaro, come Rai e Mediaset, si è dotato di applicazioni che rendono quasi del tutto superfluo possedere un televisore; la stessa tv, dal canto suo, sta diventando sempre di più un qualcosa di simile al cinema in casa, con diagonali sempre più estese (ormai lo standard è il 65 pollici, grande tranquillamente il doppio di ciò che si usava una quindicina d’anni fa) e una qualità audio da fare invidia ai multisala. Insomma, un elettrodomestico per le occasioni speciali, per quei momenti in cui si riesce a ritagliare un paio d’ore sul divano: per tutto il resto ci sono i dispositivi mobili.

Perché la televisione e la radio continuano ad essere importanti
Anche la Relazione al Parlamento per il 2019 dell’Agcom si sofferma sul mutato panorama televisivo, un settore, nelle parole dell’Autorità garante per le Comunicazioni, «investito da profonde trasformazioni tecnologiche e di mercato che hanno influito sui processi produttivi,   sui modelli di business e su quelli di consumo».
Se alcuni mezzi di comunicazione sono usciti con le ossa rotte dal confronto con il web – in primo luogo i giornali cartacei, con l’eccezione di quelli che sono riusciti ad abbinare un’offerta online ben calibrata tra contenuti gratuiti e a pagamento – la radio e soprattutto la televisione sono riusciti a resistere a Internet, anche per quanto riguarda i ricavi; se per alcuni player storici l’avvento della banda ultralarga ha consentito di offrire ai propri clienti nuove opzioni (ad esempio Sky con la sua offerta di tv a pagamento via fibra ottica, pensata per chi non può installare un’antenna parabolica a casa), i nuovi protagonisti hanno addirittura tratto la loro stessa ragion d’essere dalla possibilità di trasmettere i contenuti, anche ad altissima definizione, nelle case di clienti a cui non era richiesto nulla in termini di installazioni hardware: per Netflix o Amazon Prime Video, infatti, tutto quello che serve è un software in grado di trasmettere i programmi, come si può trovare in dispositivi come Roku, Fire TV o Apple TV ma, ormai, anche nella stragrande maggioranza delle smart tv.

Segnali di timida ripresa, ma ancora non basta
Il binomio di pubblicità e pagamento diretto degli utenti – che si parli dell’offerta a pacchetti di Sky o di quella basata sulla qualità video e sul numero di connessioni contemporanee permesse, come con Netflix – ha consentito alla televisione di non soccombere e di rinnovare la propria offerta. Al momento, l’analisi dei dati relativi agli anni passati e le stime per il futuro dimostrano che non mancano i segnali incoraggianti ma che non si può parlare ancora di una vera e propria ripresa, in un contesto che sembra improntato alla stabilità: i dati 2018 (8.215 milioni di euro di ricavi complessivi) sono quasi identici a quelli del 2017 (8.225 milioni), con una ripartizione analoga anche per quanto riguarda il rapporto tra pubblicità, offerte a pagamento e fondi pubblici.
L’arrivo sul mercato italiani dei grandi soggetti mondiali ha sicuramente sparigliato le carte, causando scosse di cui ancora non si riesce a prevedere la portata con sicurezza. Per il momento, almeno a guardare i numeri, la situazione non è poi così tanto diversa da qualche anno fa: i primi tre operatori – ovvero Sky, la Rai e Mediaset – possono contare sul 90% del mercato (rispettivamente con quote di ricavi del 34,6%, del 27,6% e del 25,2%). Un 2,7% è del gruppo Discovery, mentre Cairo Communication, principalmente con La7, si ferma all’1,6%; gli altri sono all’8,3%, con una crescita tutto sommato non straordinaria (0,7 in più rispetto all’anno scorso come variazione percentuale). Molto cresciuta invece Sky (+2,2 punti percentuali), mentre Mediaset ha perso 2,6 punti percentuali, effetto dell’asta dei diritti per la trasmissione delle partite di calcio e in particolare della Serie A e della Champions League, vinta da Sky insieme a DAZN.

Aumentano i prezzi dei pacchetti e scende la pubblicità
Un altro dato di grande importanza che si può notare nella dinamica dei prezzi nei dati forniti da Agcom è come la pubblicità, per la tv a pagamento, sia meno preponderante nell’ottica dei ricavi complessivi: erano 340 milioni di euro nel 2013, ora sfiorano quota 300 (303). Si tratta insomma di una frazione del totale sempre più residuale, considerando che, al contrario, i ricavi dovuto agli abbonamenti sono passati dai 2,984 miliardi di euro del 2013 a 3,117 miliardi, con un aumento dei prezzi superiore a quello degli indici relativi agli altri beni.
Insomma, a fronte di un’offerta più ricca sia di contenuti che di hardware (si pensi all’introduzione del decoder Sky Q), in media i pacchetti costano di più di un tempo, e la pubblicità rende di meno. Del resto, il modello con cui la pay tv “tradizionale” di Sky si deve confrontare è quello di Netflix e Amazon Prime Video, dove la pubblicità è del tutto assente, per una visione che non ha interruzioni obbligate e che viene manovrata dal telespettatore a suo piacimento. Ma se chi è abbonato alla tv satellitare non nota una particolare diminuzione di spot pubblicitari, c’è una spiegazione molto semplice: la contrazione dei ricavi da raccolta pubblicitaria deriva soprattutto dalla perdita di quote di mercato nella tv a pagamento di Mediaset/Fininvest, che sulla pubblicità ha sempre contato molto più dei suoi competitor.

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