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C’era una volta la Silicon Valley. Trump e Ue a caccia di capitali nascosti nei paradisi fiscali

di Roberto Capocelli |

Giganti della Rete orfani di Obama alle prese con l’America di Trump. A rischio la bonanza dell’evasione fiscale globale. Usa e Ue vogliono stanare le enormi riserve monetarie degli OTT.

Un’idea diversa di futuro si irradia dalle soleggiate spiagge di San Francisco; già regno di surfisti e hippy, negli ultimi 20 anni la California è andata sempre più popolandosi di “geek”, maghi delle tecnologie che, quasi come moderni alchimisti, hanno trasformato i loro garage in fucine da cui si progetta e costruisce il mondo nuovo.

L’esplosione di startup tecnologiche ha iniettato nuova linfa vitale nelle vene del California Dream nato nell’800 dallo splendore della corsa all’oro: quel sogno era valso alla regione l’appellativo di Golden State.

Davvero di golden state si tratta, visto che il prodotto interno lordo della California è superiore a quello dell’Italia, della Francia, della Russia e del Canada.

Insomma, ce n’è abbastanza per iniziare la nostra storia con il classico “c’era una volta la Silicon Valley, luogo di progresso, emancipazione e libertà tutta in salsa tech, fatta di sharing economy, condivisione e possibilità infinite del web”.

 

La crisi del 2008

Soprattutto dopo la crisi del 2008, con la distruzione di milioni di posti di lavoro e la perdita di credibilità del sistema bancario, finanziario e immobiliare, la Silicon Valley si è affermata come simbolo di una forza sana, guidata da valori di apertura e slancio verso il futuro.

Nell’immaginario collettivo, insomma, l’agglomerato di startup tech cresciuto intorno alla Bay Area di San Francisco rappresenta una sorta di Mecca, un luogo di culto a cui guardare per capire in che direzione va la storia.

Non a caso, lo scorso febbraio, l’ex presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, si era recato in pellegrinaggio proprio in California alla ricerca di “ispirazione” dopo la batosta referendaria, raccontando l’entusiasmo del suo incontro con il “vulcanico fondatore” di Tesla, Elon Musk. Un “innovatore”, simbolo di quella voglia di scegliere il cambiamento “contro la rendita”, aveva detto l’attuale segretario del PD.

Del resto tutte delle aziende della Bay Area di San Francisco hanno una “storia” da raccontare e ciascuna di queste è una storia di successo, carica di valori positivi: Facebook vuole aiutarci a rendere il mondo più interconnesso; Google vuole rendere le informazioni più accessibili per tutti; Amazon vuole aiutaci a fare acquisti migliori; Microsoft aiuta individui e aziende a realizzare il proprio potenziale; mentre Apple vuole creare strumenti che aiutino a migliorare la mente umana.

Storytelling

In occasione della sua visita, Renzi non si era risparmiato nel tessere le lodi del concetto di storytelling tanto caro alle tech company, sostenendo che “il vero grande problema dell’Italia è che non sappiamo più raccontare la nostra storia”. Insomma, il paese di santi, poeti e naviganti che eravamo avrebbe perso la sua poesia e, con essa, quella capacità imprenditoriale diffusa che, pure, era riuscita a dar vita alle famose eccellenze italiane.

È davvero un peccato non ricordare che, secondo un’inchiesta di un paio di anni fa del Los Angeles Times, proprio Elon Musk aveva accumulato ben 4,9 miliardi in contributi pubblici tra tassi agevolati, sgravi fiscali e incentivi per far funzionare le sue startup innovative che non fanno profitti.

La bella storia di Tesla, dunque, è costata non proprio poco alle tasche dei contribuenti americani: soprattutto, quella dell’auto elettrica è una storia che incarna un modello e che aiuta a fare un po’ di chiarezza su come funzioni davvero l’ecosistema Silicon Valley.

“Non credo ai profeti della società senza lavoro […] e credo che non si possa vivere nella paura di tutto, sempre”, aveva scritto Renzi sul suo blog.

Il punto, però, non è credere o meno: è capire.

Denaro pubblico

Perché se è vero che la Silicon Valley è la locomotiva dell’innovazione globale è altrettanto vero che, per far correre quella locomotiva, ci è voluto un fiume di denaro pubblico. Ieri come oggi.

Ma, nonostante la narrativa di eccezionalità, quella della commercializzazione di Internet è la storia di come il vantaggio offerto dalle nuove tecnologie, tutte frutto degli investimenti dei contribuenti, sia stato trasformato in sistema commerciale in cui, in barba alla retorica della condivisione all-free, c’è chi vince e chi perde. Tanto.

“C’è una falla nel modo in cui mettiamo in opera il capitalismo degli azionisti, e quando ad entrare in gioco sono i cosiddetti network business questa falla rischia di diventare una frattura”, spiega Brad Burnham uno dei fondatori di Union Square Ventures, il più importante venture capital di New York City che investe in nuove tecnologie.

 

Il dominio dell’algoritmo

“Prendiamo qualunque media business, ad esempio una piattaforma di blog – continua Burnham – i contenuti sono generati e curati dagli utenti, cioè il valore è creato dai partecipanti del network, ma chi estrae quel valore? Nei sistemi basati sul network effect, se sei capace di creare una barriera difensiva intorno al tuo network, potrai estrarre un’enorme ricchezza per gli azionisti della tua impresa, senza avere bisogno di fare assolutamente nulla per i creatori e consumatori dei prodotti creati all’interno del network”.

In sostanza, secondo Burnham, la logica che muove l’economia dei network è basata sulla creazione di piattaforme che mettono in contatto persone con bisogni diversi e convergenti per poi capitalizzare sugli scambi che avvengono sul network. O magari influenzarli, come dimostrato da una recente inchiesta del consorzio di giornalisti investigativi ProPubblica che ha portato alla luce come l’algoritmo di Amazon privilegi la creatura di Jeff Besos e le aziende consorziate con il colosso della vendita online. Nel caso di Amazon, così come in quello di Google, Facebook, gli algoritmi che pure processano le informazioni private di miliardi di utenti sono tenuti segreti, quindi non soggetti allo scrutinio pubblico.

Burnham fa anche notare che, per loro stessa natura, questo tipo di attività economiche basate sul predominio dell’effetto network non hanno bisogno di redistribuire la ricchezza attraverso la creazione di lavoro, come invece accadeva per altre industrie del passato: dopo un investimento iniziale significativo, possono scalare enormemente a costi marginali quasi inesistenti.

Controllo di Internet e nuovi monopoli

La chiave della gratuità su internet è, dunque, tutta nel fatto che i giganti della Silicon Valley si sono garantiti il vantaggio del controllo del canale e, come spiegava anni fa un manager della grande G, “usare il web senza usare Google è come mangiare da In-N-Out [popolare catena di hamburger americana ndr] senza ordinare un hamburger”.

Inoltre la vendita di pubblicità porta ad acquisire una quantità di dati impressionante; i siti su cui AdWords di Google o Facebook vendono gli annunci, infatti, sono disseminati di traccianti che acquisiscono dati su comportamenti e abitudini dei consumatori per poi trasformarli in previsioni.

Non è un caso forse che, negli ultimi mesi, il campanello d’allarme sulla crescita nei nuovi monopoli ha iniziato a suonare insistente sui principali giornali economici mondiali come il Financial Times, The Economist e lo stesso New York Times.

Preoccupa il controllo delle informazioni, ma anche la crescita delle ineguaglianze.

Per dare un’idea, se nel 1956 la General Motors, allora tra i monopolisti del settore americano dell’auto, generava 12,5 miliardi di introiti (paragonabili a 110 miliardi circa di dollari attuali) Facebook nel 2016  ha incassato 27,6 miliardi, un quarto rispetto al colosso automobilistico negli anni ‘50: ma, mentre il Tech Center di GM, inaugurato dall’allora presidente Eisenhower, impiegava circa 570mila persone, la creatura di Zuckerberg a Melo Park ne impiega scarse 6000, cioè poco più dell’1% rispetto a GM.

Con l’aggravante che tutti gli Over The Top digitali sono colossi multinazionali i cui introiti e profitti vengono generati fuori dal mercato statunitense.

Quello della creazione di lavoro è un problema talmente serio che, lo scorso maggio, un Mark Zuckerberg in giacca e cravatta ha lanciato l’idea di un “reddito universale” in occasione del suo commencement speach sul podio di Harvard, su cui era salito per ricevere la laurea honoris causa.

Il protezionismo di Trump

Un bel giorno, infatti, la favola della Silicon Valley è finita, e i suoi profeti si sono risvegliati in un’America diversa da quella raccontata dal mito del progresso; la data è quella dello scorso 8 novembre, quando Donald Trump conquista la Casa Bianca.

Mentre la bonanza tecnologica raccontava il mito di un futuro radioso, macinando miliardi di dollari, nel paese reale crescevano le divisioni geografiche e sociali ed economiche.

Mentre i professionals dell’industria tech continuano ad affollare le grandi città, soprattutto sulle coste, muovendosi con Uber, lavorando sui Mac negli Starbucks e “condividendo” il loro mondo con gli IPhone, il ventre profondo del Paese guarda con diffidenza una crescita vista come esclusione e marginalizzazione; a cominciare dall’emergenza abitativa, che affligge San Francisco come New York dove i prezzi delle case sono schizzati alle stelle, fino ad arrivare alla Rust Belt dove la disoccupazione è rampante e la cosiddetta “epidemia di oppioidi” sembra non conoscere fine. Dinamiche astutamente comprese e sfruttate da Trump per costruire il suo capitale politico; non a caso il miliardario di Queens, al grido di battaglia di “Make America Great Again”, aveva rilanciato un piano protezionistico.

Non lascia stupiti che la strategia protezionista di Trump faccia storcere il naso alla Silicon Valley tutta proiettata verso i mercati internazionali, asiatico ed europeo in primis: solo per fare un esempio, nel 2015, i profitti internazionali di Facebook hanno sorpassato quelli domestici, mentre quelli di Google vengono al 90% da mercati esteri.

Le donazioni dei giganti di internet, da sempre generosi finanziatori delle campagne politiche, erano andate in maniera quasi unanime a Hillay Cllinton superando di 114 volte quelle destinate a Trump, secondo quanto riportato dal Center for Responsive Politics.

Lo stesso Zuckerberg si era schierato apertamente a favore della Clinton e contro il tycoon newyorkese.

Evasione fiscale (mascherata)

Ma dietro l’ostilità verso il neo-presidente qualcuno ci ha visto qualcosa di più di una diversità culturale e politica. Se da un lato la bonanza tecnologica ha beneficiato di varie forme di supporto pubblico, in passato come nel presente, le enormi ricchezze accumulate dalle aziende fiore all’occhiello dell’economia mondiale si basano anche, come si dice in America, su un “dirty little secret”: l’evasione fiscale chiamata “ottimizzazione” per non rovinare la narrativa.

La quantità di denaro che giace al sicuro nei paradisi fiscali, Cayman e Bahamas in particolare, ha raggiunto cifre da capogiro e Trump sembra seriamente intenzionato a far rientrare quei capitali per finanziare il suo piano infrastrutturale e fare l’America “great again”, magari assicurandosi un secondo mandato.

I numeri non sono chiari; secondo le ultime stime di Moody’s si tratterebbe di 1,7 trilioni di dollari nel 2016, di cui ben 512 miliardi riconducibili alle Over the Top dell’industria digitale, Apple, Microsoft, Cisco, Oracle e Alphabet (Google). Ricchezze talmente enormi da rappresentare una leva politica.

Ma c’è chi ipotizza che, in totale, la cifra sia molto più alta.

“I capitali mantenuti all’estero ammontano ad almeno due trilioni e mezzo di dollari”, spiega Greg David professore di economia e direttore del Ravitch Fiscal Reporting Program a New York.

“Il punto è che negli Stati Uniti, a differenza della maggior parte dei paesi europei, vengono tassati anche i profitti prodotti all’estero. In America, inoltre, abbiamo una pressione fiscale molto alta. Ecco perché le grandi corporation si rifiutano di pagare e lasciano il danaro nei paradisi fiscali per evitare il prelievo che, per legge, avviene solo al momento del rientro su suolo americano”.

Pressione politica e “Double Irish” 

L’analisi del professor David omette però un dettaglio non da poco; per non pagare extra, le corporation americane finiscono col pagare nulla sui profitti in questione, trasformando la montagna di denaro accumulata nei paradisi fiscali in un potente strumento di pressione politica.

Non è un caso che il CEO di Apple, Tim Cook, rispondendo ad una domanda sulla multa europea dello scorso anno, aveva perso il suo aplomb definendo le accuse di evasione fiscale “merda politica”.

Di merda politica si tratta, in effetti, visto che attraverso due tecniche molto “politiche”, una chiamata Double Irish” e l’altra “Dutch Sandwich”, Apple così come Google, Facebook e altre, sottraggono all’erario pubblico europeo e americano miliardi di dollari. Dopo aver registrato la propria base nella vantaggiosa Irlanda, che offre una tassazione del 12,5%, i giganti di Internet creano una serie di società sussidiarie in Olanda per trasferire i soldi alle Bahamas o alle Cayman finendo per evadere anche il vantaggioso regime irlandese. Le stime parlano di spese di intermediazione (quindi non tasse) che si aggirano intorno al 2-6%.

Dati nuovo petrolio

Ma, dietro l’impressionante massa di denaro accumulata dai giganti tecnologici non ci sono solo i trucchi per evadere il fisco: il concetto che i dati sono il nuovo petrolio, pur formulato già negli anni 2000, è emerso prepotentemente negli ultimi anni fino ad arrivare a toccare la Casa Bianca con il caso della Cambridge Analytica, azienda di consulenza politica che usa i big data nelle champagne elettorali ingaggiata da Trump sotto elezioni.

“Le informazioni sono esattamente come un qualunque bene o servizio; vendere informazioni è come vendere automobili, non c’è assolutamente nulla di diverso. Ford e GM diventarono dei colossi perché erano i migliori, poi il mercato si è regolato e sono entrati altri”, dice il professor David.

Una tesi confutata dagli studi sull’economia dell’informazioni che distinguono queste ultima dai tradizionali beni e servizi: l’informazione, infatti, non si consuma con l’uso, ha un costo marginale quasi nullo, ed è estremamente preziosa perché genera sistemi naturalmente monopolistici in cui il vincente ha in mano l’asso pigliatutto. Le informazioni, inoltre, a differenza del denaro o di altri beni immobili, posso essere usate molte volte, anche allo stesso tempo e hanno la caratteristica di essere auto-generabili, cioè la loro la qualità e accuratezza tende a migliorare con l’uso e l’incrocio.

Gioco delle tre carte

A completare il quadro, è opportuno menzionare che, come ricordato dallo stesso CEO di Apple Tim Cook, molte delle aziende tech preferiscono prendere in prestito i soldi da investire, beneficiando dei tassi di interesse mantenuti prossimi allo zero dalla FED dopo la crisi finanziaria, piuttosto che usare le proprie riserve. Infine, i denari in questione vengono persino depositati in banche newyorkesi grazie ad una sussidiaria basata in Nevada, la Braeburn Capital, che dalle Bahamas riesce a far rientrare i capitali “scudandoli” dalle tasse con un vero gioco delle tre carte. Soldi che vengono investiti in buoni governativi: secondo stime di Bloomberg, la sola Apple ha più di 41 miliardi di bond del Tesoro USA che, nel 2012, ha dovuto pagare almeno 1,4 miliardi di dollari in interessi alle grandi multinazionali sui capitali prestati, ma mai tassati.

Il vento è cambiato

Di fronte a questo quadro, Trump ha promesso di cambiare le cose, ma come spesso accade quando si tratta delle proposte del neo-presidente, i piani dell’Amministrazione sulla riforma fiscale sono tutt’altro che chiari.

Eppure ci sono almeno due parole chiave del confuso piano di Trump che sembrano agitare i sonni dei colossi del tech: la prima è ripatriazione forzata, la seconda è tax border. Il concetto è che, seppur a tassi inferiori ancora da negoziare, gli OTT saranno obbligati a far rientrare i capitali che nascondono all’estero.  Una mossa che garantirebbe a Trump di finanziare la sua rielezione mettendo in atto il tanto promosso piano infrastrutturale di cui ancora non si vedono avvisaglie.

La partita è complicata e poco coperta dai media sempre più vittima alle logiche degli algoritmi che generano click; di sicuro la negoziazione si basa su sottili strategie e giochi di sponda che tutti gli attori in gioco usano per non scoprire le carte fino all’ultimo.

Barriere virtuali

Nel frattempo, seduti su una montagna di danaro, gli Over The Top continuano a consolidare il proprio vantaggio, fortificando le barriere intorno ai propri network: è di pochi mesi fa la notizia della prossima diffusione sul mercato di un ad-blocker da parte di Google che, mentre filtra le pubblicità “indesiderabili”, permetterà a quelle della grande G di caricarsi indisturbate.

Ma l’ulteriore accentramento del mercato pubblicitario digitale è solo lo specchio di una più generale, e pericolosa, centralizzazione delle informazioni commerciali.

Google e Facebook, così come Amazon, sono infatti impegnate nella posa di cavi sottomarini nella speranza di scalzare anche gli ingombranti gestori delle linee dal processo di gestione delle informazioni e ottenere finalmente un controllo a 360 gradi.

 Se nelle teorie economiche e finanziarie il prezzo rappresenta l’informazione che il mercato offre sul punto di incontro di domanda e offerta, è legittimo inferire che il controllo delle informazioni genera la possibilità di stabilire i prezzi, cioè di decidere il mercato.

Greg David minimizza il valore dei dati, sostenendo che tutto il dibattito intorno ai rischi di monopolio della digital economy non sia altro che tanto rumore per nulla: “Vendere dati o vendere auto è la stessa cosa. Non c’è niente di nuovo; vincono i migliori e il mercato si regola da solo come è sempre stato”.

 Eppure il professor Shane Greenstein, co-direttore del programma sull’economia digitale al National Bureau of Economic Research e docente di Harvard, non è così sicuro. Greenstein, che pure ci va cauto sulla natura rivoluzionaria dell’economia di Internet, dice: “Il problema è riconoscere cosa è nuovo e cosa non lo è. Su questo c’è molta confusione. Mi è capitato tante volte di parlare con giovani che credevano di aver cambiato l’economia, ma in realtà ripercorrevano modelli consolidati. C’è però, a dire il vero, qualcosa che ancora non riusciamo bene ad inquadrare: l’economia digitale è comportamentale”.

Il docente di Business Administration ad Harvard spiega, infatti, che i prodotti digitali non vengono creati semplicemente per raggiungere un preciso scopo utilitaristico, ma per prevedere, creare, rispondere e adattarsi, in tempo reale, al comportamento degli utenti.

Di fronte ad uno scenario del genere è facile intuire come quella sulle informazioni e sui dati, in un mondo digitale sempre più centralizzato, rappresenti non tanto una storia di emancipazione di massa, quanto una vera e propria guerra commerciale che avrà dei vincitori e dei vinti. Ognuno ha il dovere, almeno, di capire per poter scegliere da che parte stare.