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Causeries. Internet per ora non aiuta il pluralismo

Il pluralismo dei media non è più di moda da tempo in Italia, né nei circoli accademici, né in quelli politici.

Non così nel resto del mondo dove la vigilanza sulla questione resta alta.

Lo testimonia da ultimo un’imponente opera collettanea di oltre 1.300 pagine pubblicata da Oxford University Press e diretta da Eli Noam, professore della Columbia University molto noto negli ambienti delle tlc e dei media (Who Owns the World’s Media? Media Concentration and Ownership around the World, Oxford, 2016).

La prospettiva è davvero globale con una infinità di paesi analizzati e una impegnativa conclusione di sintesi su cui mi soffermerò oggi.

Ne vale assolutamente la pena perché l’approdo della ricerca è per molti versi sorprendente.

Innanzitutto attesta un trend di crescente concentrazione a livello generale che si manifesta in modo particolarmente acuto sul versante dei contenuti.

In secondo luogo sfata una volta per tutte il mito che l’avvento di internet abbia decongestionato il panorama dei media, iniettando una massiccia dose di movimentazione.

In terzo luogo attesta una sconsolante relazione tra regolazione e deconcentrazione, suggerendo la scarsa incidenza delle politiche regolatorie classiche sulla possente tendenza alla coagulazione.

Ogni nuova generazione di media – dice Noam – è più concentrata della precedente…e lo stesso internet presenta un indice di oltre 3.000 (Hirschman-Herfindal Index) che è molto alto”.

Certo è motivo di parziale consolazione che tra i Paesi che esibiscono il più elevato livello di concentrazione (Cina, Egitto e Sud Africa) non figuri nessuna nazione europea.

Nondimeno suona allarmante l’osservazione che la “produzione di voci nazionali di media diventerà sempre più esigua, quanto più globali divengono i mercati”.

In ogni caso Noam non lascia adito a dubbi: “l’alto e crescente livello di concentrazione nei contenuti e notizie non può essere soddisfacente per coloro che credono nel pluralismo dei contenuti e nella competizione all’interno delle piattaforme”.

E internet?

Noam ne riconosce l’effetto benefico solo per quanto riguarda la “coda lunga”, ossia l’offerta dei contenuti di nicchia; per il resto le grandi imprese – da Google ad Amazon – contribuiscono a fare schizzare in su l’indice di concentrazione globale.

Che fare allora?

La risposta non è semplice proprio per la scarsa efficacia del classico approccio regolatorio.

Noam suggerisce tuttavia una strada: “il mezzo più efficace per assicurare il pluralismo, al di là dell’eliminazione degli abusi più evidenti, è quello di aiutare a generare nuovi media alternativi e di proteggere il loro accesso e interconnessione”. Tradotto nel lessico giuridico europeo, si potrebbe riassumere così: lo stimolo finanziario; l’interoperabilità; il must carry e must find; e il classico accesso e interconnessione alle reti.

Convincente?

In parte sicuramente, anche se mi sembra eccessivamente pessimista sugli strumenti regolatori classici che possono esprimere ancora notevoli potenzialità – se applicati con una certa costanza e senza dogmatismi. La ricerca del punto di equilibrio tra la regola nazionale e la massa critica richiesta per operare su un mercato che ostenta simili fattezze, è certamente molto delicata.

Ma non bisogna dimenticare che se non è il regolatore a impegnarsi alla fine sarà il giudice o un’istanza sovranazionale, poiché la dilatazione di queste industrie ha sempre innescato una qualche forma di reazione.

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