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Causeries. Autorità indipendenti: la discrezionalità amministrativa non sia il pretesto per decisioni politiche

Innovazione

#Causeries è una rubrica settimanale sulle criticità dei mercati della convergenza e il loro rapporto con le grandi tematiche della regolazione, curata da Stefano Mannoni, professore di Diritto delle Comunicazioni presso l’Università di Firenze.
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Raffaele La Capria, nella Bellezza di Roma, descrive il potere burocratico romano tramite la “teoria del fine secondario”. Ossia: mentre in balistica si punta a una direzione diversa da quella del bersaglio per poterlo colpire, per la burocrazia la direzione diversa diviene il fine in sé, dimenticando interamente quale fosse il bersaglio originario.

Stento a immaginare una migliore ouverture per introdurre l’argomento di oggi: ossia la discrezionalità delle autorità indipendenti.

Un tema che va trattato, dato il contesto, con una certa leggerezza di tocco.

La riflessione nasce dai commenti all’uso che faccio nel mio libro dell’espressione “indirizzo politico regolamentare”.

Una formula che ho utilizzato per descrivere la competenza dei regolatori.

Mi è stato fatto osservare che la concettualizzazione è sbagliata: al massimo si tratta di discrezionalità amministrativa.

Touché: accuso il colpo e chiedo venia.

Ho errato e correggerò nella seconda edizione: sì è discrezionalità amministrativa, ammetto; non vi è dubbio alla luce del diritto italiano.

A suggerirlo è tanto la dottrina quanto il pudore: non sta bene descrivere l’azione di un’istituzione che pur sempre reca l’aggettivo di “amministrativa” e, per giunta, “indipendente” come “politica”.

E tuttavia una precisazione si rende necessaria, più che altro per gli addetti ai lavori.

Ammettere questa formula – “discrezionalità amministrativa” – non significa dare licenza a usarla come foglia di fico per praticare surrettiziamente un decisionismo tutto all’insegna del politicamente spregiudicato. Ossia: quello che esce dalla porta non è destinato a rientrare dalla finestra, una volta che la rispettabilità dell’etichetta sia assicurata.

Con l’umiltà di chi è più pronto a ricever lezioni più che a darle, mi sento inoltre di aggiungere la seguente postilla. Ovvero: la qualifica come “discrezionalità amministrativa” del potere delle autorità implica qualche corollario che va oltre il rispetto formale delle regole.

Insomma il problema non sono i vizi di legittimità davanti al TAR, ormai parte di un fisiologica patologia del procedimento.

E’ a ben altro cui alludo: ossia all’ethos della discrezionalità che si traduce in alcuni banali comandamenti. Per carità, non impegnativi imperativi categorici – si intende – bensì solo prosaici consigli di misura: provenienti dalla saggezza della nonna, non da quella di Immanuel Kant.

Il primo dei quali è quello di regolare dandosi una regolata. Mentre il secondo è quello di esercitare il libero arbitrio in modo non troppo arbitrario perché – notoriamente – il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Per i più sofisticati e meno provinciali la massima si riassume nell’ammonimento rivolto in Francia ai baroni universitari in vena di delirio di onnipotenza: il ne faut pas trop en faire!

Né vale a sostenere il contrario invocare il principio della Ragion di Stato, volgarizzato nella formula: il fine giustifica i mezzi. Poiché i padri gesuiti avevano in mente un fine ultimo talmente trascendente da non essere assimilabile a mondane preoccupazioni.

E neppure è di alcun aiuto la teoria della grazia della Riforma Protestante, la quale ammoniva il gregge a non cullarsi nell’idea che siano le buone azioni a salvarci. Perché questo non era un invito alla licenza (tanto la virtù non mi serve a niente), ma, al suo contrario, un impegno morale più ambizioso di quello corrente: Pecca fortiter sed fortius crede!

E allora?

Con la puntualizzazione di questi modesti paletti, ebbene anch’io sono disposto ad associarmi al coro: viva la discrezionalità amministrativa!

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