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Causeries. Antitrust: meglio la Ue degli Usa. La Scuola di Chicago ‘ha passato il segno’

Perché l’antitrust europeo è superiore a quello americano?

Perché la Scuola di Chicago “ha passato il segno” (How the Chicago School Overshot the Mark, a cura di Robert Pitofsky, Oxford University Press, 2008).

Sono certo che se Carlo Marx fosse vissuto abbastanza da vedere la luce dello Sherman Act del 1890 non avrebbe risparmiato il suo leggendario sarcasmo al capitale che provava a mettere la museruola ai suoi spiriti animali.

Ma a suonare ancora più paradossale è che la scuola più restrittiva sull’antitrust – quella di Chicago appunto – la penserebbe allo stesso modo. Ben pochi illeciti antitrust sopravvivono allo scrutinio di quella rigida dottrina dando involontariamente ragione a Marx: è perfettamente inutile provare a domare l’impetuoso conflitto insito nel sistema del mercato che obbedisce a una sua, per quanto discutibile, razionalità evolutiva.

Ecco allora che gli sforzi prodigati dalle autorità pubbliche per combattere gli illeciti verticali risultano inani.

Fissare il prezzo minimo di rivendita al dettaglio? Perché?

Non solo esistono mille motivi che spingono un’impresa a vigilare sulla distribuzione al dettaglio della propria merce che non danneggi la sua immagine, ma il prezzo minimo al dettaglio può incentivare la concorrenza incoraggiando l’ingresso di nuovi attori pronti a raccogliere la sfida.

Attori che però non siano free riders, ossia che non approfittino dell’obbligo minimo di prezzo dell’impresa concorrente per sottrargli sottobanco i clienti. Altrimenti ci troveremmo di fronte a imprese che hanno investito per lanciare l’immagine del prodotto, ed altre che capitalizzano sugli sforzi altrui.

Non sfiora il dubbio che il prezzo minimo obbligatorio possa indurre l’impresa che lo impone a utilizzarlo per creare cartelli orizzontali o per scoraggiare i dettaglianti che sono costretti a praticarlo ad approvvigionarsi presso altre ditte. Senza contare lo svantaggio per i consumatori derivante da un prezzo prestabilito, una volta vietati gli sconti.

Le fusioni? Vietarle equivale a compromettere l’incremento dell’efficienza complessiva del sistema, con un danno evidente per il consumatore. E questo vale tanto per le fusioni verticali che per quelle orizzontali, le quali dovrebbero suscitare un certo allarme eliminando un attore dalla scena e autorizzando il nuovo soggetto ad aumentare unilateralmente i prezzi.

Efficienza che non è compatibile con un ideologico attaccamento a una concezione strutturale della concorrenza, secondo la quale solo la persistenza di un numero di attori sufficiente (anche se inefficiente!) può garantire la sopravvivenza della concorrenza.

Ma la rivalità sul mercato può avere la meglio sulla produttività efficiente? La risposta è ovviamente no. Quello che conta, si dice a Chicago, non è l’ortodossia dei comportamenti, in ossequio alla forma, ma la valutazione degli effetti concreti sul mercato.

Basta con i dogmi!

Tra i più illustri è quello della strategia dei prezzi predatori che si verifica quando un’impresa che detiene potere di mercato abbassa i prezzi sottocosto per respingere la concorrenza di un rivale nuovo entrante il quale, messo alle strette da prezzi insostenibili, abbandonerà la contesa.

Ebbene, avverte Chicago, poiché gli attori sono razionali, occorre presumere che la vendita sottocosto, in perdita, possa fare affidamento sulla concreta prospettiva di recuperare in un breve lasso di tempo ciò che si è perduto per mettere i bastoni tra le ruote ai rivali. Rivali che devono comunque essere almeno dotati di una efficienza comparabile a quella dell’impresa dominante.

Ahimè questa occorrenza si verifica assai raramente, rendendo il temibile divieto di prezzi predatori un inutile spauracchio. Nessuno è così folle da perdere senza la prospettiva di recuperare, per il solo calcolo di liquidare un concorrente.

Se l’efficienza economica è l’unico valore saldo e misurabile al quale ancorare l’antitrust, allora altre preoccupazioni, come quella di creare le condizionai ottimali per l’ingresso nel mercato di attori (anche poco efficienti), deve cedere il passo.

La preoccupazione per la struttura pluralista dell’industria, tipica degli anni Cinquanta e Sessanta, non scaturisce da un’analisi scientifica, ma da un partito preso politico: più sono gli attori e meglio funziona la concorrenza.

Al contrario l’economia di scopo e di scala è favorita dalle concentrazioni, non dalla dispersione del potere di mercato.

Quanto alle barriere all’entrata, il potere monopolistico è più “scalabile” e insidiabile di quanto si possa pensare di primo acchito. La distruzione creatrice di Schumpeter ne è una prova. L’innovazione tecnologica detronizza rapidamente i poteri dominanti ripristinando – senza intervento statale – l’equilibrio tra le forze in campo.

Circa la regolazione, dove essa è ritenuta necessaria ebbene là deve cedere il passo l’antitrust che, se intervenisse, creerebbe solo confusione e sconcerto circa la condotta da seguire.

Infine, venendo all’obbligo a contrarre, esso non esiste per l’impresa dominante a meno che circostanze fattuali provino il contrario (come è avvenuto nel caso Aspen, dove non si poteva ritrovare alcuna ragione di efficienza nella condotta escludente).

Torniamo ora all’esordio.

Marx avrebbe di che ironizzare su una teoria dell’antitrust che ha consolidato monopoli e oligopoli a discapito della concorrenza.

Se l’efficienza produttiva è indubbiamente un valore, altrettanto lo è il benessere del consumatore che, per l’appunto, viene esaltato e non mortificato da una struttura industriale policentrica e competitiva. Obbiettivo che dovrebbe essere per l’appunto fatto proprio dall’antitrust e che fortunatamente in Europa ha piantato solide radici disseminando i semi del dubbio anche in America, dove si comincia a parlare di condannare comportamenti che non abbiano “ragionevole senso sul piano economico”.

Ma passiamo alla regolazione.

Non avrebbe certo trovato un atteggiamento più benevolo da parte di un Marx convinto di ridurre a sovrastruttura l’architettura giuridica. A dire il vero si sarebbe tentati a volte di dargli ragione, data l’evidente collusione tra regolati e regolatori. Eppure sarebbe riduttivo.

Così come per l’antitrust, che non si è lasciato appiattire sui dogmi di Chicago, allo stesso modo la regolazione vive almeno in parte di vita propria rispetto agli interessi che è chiamata a disciplinare. Il diritto, insomma, non è solo il frontone sul tempio. Ma costituisce una parte degli assi portanti del sistema.

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