Il dibattito

‘Bullismo, renderlo reato non serve. Ecco come contrastarlo’. Intervento del Procuratore Anna Maria Baldelli

di Anna Maria Baldelli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della valle d’Aosta |

La sintesi dell’audizione in tema bullismo alla Commissione Giustizia ed Affari Sociali alla Camera di Anna Maria Baldelli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta

Poiché ho letto l’articolo pubblicato su Key4biz lo scorso 10 febbraio “DigitalCrime. Cyberbullismo, luci ed ombre nelle proposte di legge” e poiché, in qualità di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta sono stata audita dalla Commissione Giustizia ed Affari sociale della Camera, mi permetto di girare il mio intervento per contribuire alla discussione.

Sintesi dell’audizione nella Commissione Giustizia ed Affari Sociali del  18 gennaio 2016.

 

Gli strumenti di punizione già esistono e possono essere utilizzati meglio se i magistrati sono formati ad analizzare il fenomeno.

Non si sente assolutamente il bisogno di una fattispecie nuova, cioè del reato di bullismo, che creerebbe una pericolosa confusione confusione con il reato di stalking a cui somiglia (e quando i reati si assomigliano troppo l’imbarazzo interpretativo può soltanto avvantaggiare l’autore del reato…) perché già le norme penali generali consentono la punizione delle condotte di reato. Fra di esse c’è, ad esempio, nei casi più gravi, la violazione dell’art. 586 c.p., che punisce con la pena dell’omicidio colposo o delle lesioni colpose aumentata, chi abbia cagionato lesioni o la morte della parte offesa attraverso la commissione di altri reati (minacce, stalking, abuso sessuale, diffamazione, produzione e diffusione di immagini pedopornografiche ecc..) per i quali l’autore deve già rispondere penalmente.

Ad aprile c.a. è fissata udienza GUP c/o il T.M. del Piemonte e della Valle d’Aosta proprio per un procedimento nel quale sono presenti queste imputazioni.

Anche l’ipotesi di prevedere la configurazione di un’ipotesi specifica di istigazione al suicidio è priva di fondamento: se si prova il nesso di causalità fra la condotta del reo ed il suicidio, oltre alla volontà di dare un contributo alla sua realizzazione (secondo i principi generali) già ora si configura il reato di istigazione; tuttavia la difficoltà nella prova di questo reato è proprio quella di dimostrare sia la volontà che il nesso causale. Il rischio è di prevedere un reato che sia un incomprensibile duplicato di uno già esistente (art. 580 c.p.) ed altrettanto impossibile da provare. (cfr. Cass. Sez. V n. 22782 del 29.4.2010, imputato Bagarini Livio, che ha cassato con rinvio una condanna per istigazione al suicidio pronunciata dalla Corte d’Assiste d’Appello di Torino pronunciata in data 3.7.2009. Nel procedimento la sottoscritta era Pubblico Ministero).

Creare un nuovo reato oltre a non essere necessario, può essere una strategia dannosa, perché rischia di focalizzare l’attenzione sulla punizione, mentre in questa materia la vera strategia vincente è la prevenzione, primaria e secondaria, che si rivolge a quei comportamenti che non sono reato (e che non è il caso lo diventino), ma che, ciò nonostante, creano profondo disagio, e sofferenza nella vittima, e, se non affrontati precocemente, si trasformeranno, verosimilmente presto, in franche violazioni di una norma penale.

Ad es. sistematico mancato invito ai compleanni non è reato, né lo può o deve diventare, tuttavia determina un’esclusione dai rapporti sociali che crea profonda sofferenza nella vittima.

Se si riesce ad investire in interventi che colgano già queste dinamiche, che diffondano la cultura della responsabilità e del rispetto, questi fenomeni possono essere intercettati tempestivamente e risolti “prima” che sfocino in condotte di reato.

A Torino, ormai dal 2009 si sta lavorando con le scuole in questa direzione con modalità di prossimità che una convenzione con la Polizia Locale ha ormai permesso di collaudare.

Il metodo:

La polizia giudiziaria, prima che la notizia di reato venga inviata, all’interno dell’attività di iniziativa indicata dall’art. 55 c.p.p., raccoglie ogni elemento utile per la ricostruzione del fatto e per l’individuazione del colpevole e pone in essere misure atte a evitare che il reato venga portato a ulteriori conseguenze. Nell’ambito di tale attività, raccoglie sommarie informazioni, effettua accertamenti e rilievi, anche tecnici/tecnologici, propone la ricomposizione tra le parti. In particolare, quest’ultimo strumento, finalizzato al sostegno alla parte offesa e alla riduzione del danno, rappresenta un percorso per la risoluzione sostanziale del conflitto, vede l’intervento di un terzo super partes che, ponendosi in posizione equiprossima alle parti, favorisce una rielaborazione delle posizioni, finalizzata a razionalizzare una condizione accettabile da entrambe le parti al conflitto che li oppone. La ricomposizione tra autore e vittima restituisce alle parti il potere di discutere del fatto di reato e delle sue conseguenze, responsabilizza l’autore, dà soddisfazione alla vittima e comporta una deflazione del contenzioso giudiziario. Se lo si ritiene opportuno, la ricomposizione può anche essere comprensiva di modalità dirette alla riparazione del reato con atti riparatori concreti posti in essere dall’autore a favore della vittima o della collettività. La ricomposizione, oltre che della valenza educativa, si può connotare anche di un valore sociale, in quanto volge non solo a beneficio dell’individuo, ma anche dell’intero sistema comunitario, ricostruendo il tessuto sociale lacerato dall’atto deviante; consente di superare la separazione tra autore del reato e vittima, può assumere anche una valenza preventiva dei comportamenti criminali recidivanti. Ma soprattutto, la ricomposizione è un modo con cui viene restituita alla vittima la dignità di persona, anche attraverso l’esposizione delle sue ragioni e del suo vissuto di dolore, eliminando, così, i rischi di vittimizzazione secondaria, con conseguente perdita di autostima e rischio di compromissione del percorso evolutivo.

Questo metodo ci permette di far emergere il disagio prima che diventi reato (quindi di far emergere il “sommerso”) con una funzione di prevenzione primaria; inoltre, ci consente di “riparare” il danno quando ci sia stata la commissione del reato, con una funzione di prevenzione secondaria. Il risultato è stato un aumento esponenziale degli interventi, ma una drastica diminuzione di denunce per fatti di reato.

Su questo, a parere di chi sta lavorando sul campo, la nuova legge dovrebbe investire, formalizzando responsabilità istituzionali (come mi pareva facesse il disegno di legge licenziato dal Senato, con qualche minimo correttivo).

Sull’ammonizione, si può dire che vada bene, ma con il correttivo di prevederla per quelle condotte che non integrano reato, ovvero sono commesse da persone minorenni infra-quattordicenni (cioè non imputabili), ovvero per ipotesi di reato procedibile a querela quando questa non venga presentata. In tutti gli altri casi si porrebbe come una pericolosa interferenza nelle indagini del Pubblico Ministero.

Con queste precisazioni l’ammonimento si potrebbe effettivamente apprezzare come “risposta responsabilizzante” che può andare a coprire la fascia grigia del “non reato”.

Non è vero che se non c’è un reato specifico (di bullismo) non è possibile la riparazione del danno: le regole del processo minorile prevedono già per tutti i reati la possibilità della mediazione e della riparazione, anche nell’ambito della MAP.

Non ha fondamento giuridico la previsione della MAP obbligatoria perché è una contraddizione in termini in quanto la M.A.P. si fonda sull’assunzione di responsabilità dell’indagato minorenne e sulla promessa di impegno personale (che sono, entrambi, atti volontari, non coercibili), dai quali non si può prescindere. Per essere concreti, l’autore del reato di bullismo che neghi la propria responsabilità come potrebbe assumersi gli impegni del percorso di rieducazione/riabilitazione proprio della M.A.P.?

La violenza di gruppo trova già la sua punizione nel codice penale (forse si potrebbe aumentare semplicemente la pena per il reato di lesioni, ma non soltanto in tema di bullismo!) solo se è ravvisabile una condotta concreta dei partecipi che apporti un contributo concreto (diverso dall’essere semplici spettatori). Se fossero semplici spettatori non sarebbero punibili mai, neppure con la previsione di un reato di gruppo perché la responsabilità penale è personale (e lo dice la Costituzione, quindi non può, una legge, modificare questo principio).

Anche gli spettatori, peraltro, hanno una precisa responsabilità morale, perché è proprio a beneficio della “platea silente” che il bullo trova lo spunto per agire (anche se tecnicamente non sarebbe mai sostenibile il concorso previsto dall’art. 110 c.p.), ma per costoro l’unico strumento è il richiamo alla responsabilità relazionale, è l’educazione alla solidarietà e al rispetto. In questo compito la scuola non può e non deve essere lasciata sola. Tutti i progetti di peer education devono essere valorizzati e finanziati; le FF.OO. e l’Autorità Giudiziaria devono rendersi referenti credibili.

Vale la pena, infine, sottolineare, oltre alla obbligatorietà della denuncia dei fatti di reato da parte della scuola (che non è affatto un dato acquisito), anche la rilevanza degli interventi civili di tutela (di limitazione della responsabilità genitoriale) nei casi in cui le famiglie (del reo e/o della vittima) non siano in grado di assolvere al loro compito educativo e/o protettivo.

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