L'analisi

BreakingDigital. TV e Referendum: come parlare al paese dai micro canali di massa

di Michele Mezza, (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) - mediasenzamediatori.org |

Referendum e auditel? Due mondi che non si toccano o vi sono indizi sull’esito del primo ricavabili dalle dinamiche dei dati sull’ascolto televisivo?

BreakingDigital, rubrica a cura di Michele Mezza (docente di Culture Digitali all’Università Federico II Napoli) –mediasenzamediatori.org. Ultimo libro pubblicato Giornalismi nella rete, per non essere sudditi di Facebook e Google,Donzelli editore. Analista dei processi digitali e in particolare delle contaminazioni social del mondo delle news. Clicca qui per leggere tutti i contributi.

Referendum e auditel? Due mondi che non si toccano o vi sono indizi sull’esito del primo ricavabili dalle dinamiche dei dati sull’ascolto televisivo?

Qualcosa di rilevante si sta muovendo sotto le nostre poltrone. Si intuisce una faglia sismica di grande rilevanza e conseguenze. Negli ultimi mesi le due ammiraglie del mercato televisivo italiano hanno perso qualcosa come il 20% della propria platea. Il primo canale del servizio pubblico, nonostante il profluvio di show e di fiction è sotto di ben 8 punti, 8,66% per la precisione. Ancora più traumatico lo scossone che scuote Canale 5: -11,36%.

Un colpo mortale e del tutto inedito per quantità e qualità al cuore delle due casseforti di spettatori. A perdere sono proprio le aree più fedeli e considerate dipendenti dal linguaggio della tv di massa.

Diciamo meglio: è proprio la dimensione di massa che tende ad esaurirsi anche nell’ultimo ridotto in cui si erano asserragliate le sirene a caccia di uniformità sociale. Possiamo dire che si è ulteriormente smagrito l’ultimo lascito della società fordista, che secondo Baumann aveva generato la triade sociale che ha guidato il ‘900: lavoro di massa, consumi di massa, media di massa.

Oggi invece le masse si frantumano in tribù, e queste in famiglie, che a loro volta generano singolarità.

Lungo questo percorso si consumano tutte le categorie che erano state forgiate dalla grande fabbrica: il partito del popolo, il sindacato dei lavoratori, il welfare dei cittadini, i prodotti dei consumatori, e appunto, le narrazioni del paese.

Se andiamo a vedere dove si sono rifugiati gli orfani di Rai1 e di Canale 5, vediamo che gli altri canali di massa dei due network nazionali al meglio tengono i propri aficionados, mentre a crescere è quel pulviscolo di  canali di nicchia o di identità che pullula sulla piattaforma Sky, guidato dal più grande dei  nani che è La 7 di Cairo, che al netto di performance eccezionali, come il confronto sul referendum fra Renzi e Zagrebelsky, cresce dello 0,87%.

Sembrerebbe una bazzecola, ma il dato per quanto limitato, rappresenta circa un 20% della sua  audience abituale. Così come gli altri nani della nidiata Sky, che incrementano tutti, più o meno, il proprio ascolto di qualcosa. L’insieme costituisce quella pancia di teleutenti in fuga dai grandi marchi.

Anche all’interno di questo pulviscolo lo scenario è molto variegato, da una parte ci sono canali fortemente di nicchia, ancora di più, quasi di clan, con ascolti contabilizzabili in poche decine di migliaia, dall’altra parte micro canali di massa, come l’ex MTV, ora Canale 8, o l’ex Tele Deejay, ora Canale 9.

Il senso è che ormai le reali identità dell’immaginario, o comunque quella base comune su cui si creava il senso comune se non proprio l’opinione pubblica che cresceva discutendo e condividendo la stessa TV, non c’è più. Come non c’è più una stessa identità di gente che fa lo stesso lavoro, che vive nello stesso quartiere, che condivide lo stesso servizio, che è vittima dello stesso sopruso.

Gli unici elementi di connessione di massa sono comportamenti e strumenti fortemente individualizzanti, come, ad esempio, i percorsi previdenziali, le diversissime opzioni di pensione, che mentre una volta univano grandi masse di lavoratori, oggi sono incredibilmente lo specchio di infinite e infinitesimali differenze fra ognuno dei candidati alla pensione.

Oppure come gli smartphone, che accelerano il processo di individualizzazione di ogni singolo utente che si ritrova fra le mani capacità e potere per mettersi in proprio quasi su tutto: sull’informazione, sulla comunicazione, sulla produzione, sui servizi, sulle relazioni con la PA.

Arriviamo a questo punto al referendum istituzionale: chi andrà a votare e come gli si parla? Infatti vedo grande confusione nei linguaggi e nei comportamenti dei due schieramenti referendari, figli di una certa incapacità di capire a quale paese ci si rivolge.

Mi sembra, dopo 30 anni, di ritornare al referendum del 9 e 10 giugno del 1985, quello sul taglio dei punti di contingenza, il famoso voto sulla scala mobile. Anche in quell’occasione ci fu un abbaglio, sia da parte della sinistra, principalmente del PCI, che ancora pensava di rivolgersi ad un paese uniformemente massista e protezionista, che reclamava tutela, e fu sonoramente sconfitto; sia da parte dello stesso Craxi, che sferrò il colpo contro il sindacato più per una tattica elettorale che per una strategia sociale chiara. Tanto è vero che dopo il risultato nessuno riuscì a parlare con quel paese dove stava nascendo una soggettività estesa, competitiva e individualista.

Oggi Renzi, che sembra il più in sintonia con logiche non massiste, non pare capace di parlare a quel popolo dell’autoprogrammazione del proprio lavoro, come lo definisce Castells, e alterna suggestioni innovative (Milano Human Technopole o la fuga del ponte di Messina) con richiamo generico ai poveri (aumenti della pensione e mance varie). Non parliamo invece delle opposizioni tutte abbarbicate al paradossale slogan “giù le mani dalla costituzione”. Uno slogan ridicolo in bocca a Brunetta e Salvini, ma anche con Bersani e D’Alema richiama il grido “Fermi tutti non muovete niente”.

In mezzo a questa afonia il pulviscolo dei nani.

La platea dei canali di clan, quelli che costruiscono le proprie differenze, che declinano la propria competitività, che si vedono collocati nel mondo.

Chi parla con loro?

Chi parla con i più dei 100 mila usciti dal paese lo scorso anno in cerca di opportunità e di partner?

Chi parla alle centinaia di start up della Makers Faire che si aprirà la prossima settimana a Roma?

Chi parla ai giovani del corso di programmazione di Apple a Napoli?

Ma anche agli anziani che ormai chiedono all’ospedale con un semplice click del telefono di prenotare una visita o un esame?

Ovviamente, come sempre in queste occasioni, si dirà: ma c’è ancora un pezzo di paese che sta sullo scoglio, fermo in attesa dell’onda. Come c’è ancora un pazzo di paese che guarda Rai 1 e Canale 5.

Ma chi investirebbe su quel paese?

Chi pensa all’espansione di quello scoglio?

Il rischio, lo abbiamo visto in Inghilterra, con la Brexit, o in Colombia con la pacificazione, o ancora in Spagna e in Francia: nessuno parla ai figli e i figli non votano e rimane una minoranza rancorosa e populista di padri che cerca di vendicarsi della propria marginalità.

Non si tratta di numeri, di scambiar elettorati o di puntare su nuovi consensi. Si tratta di afferrare la locomotiva della storia di candidarsi a guidare i driver della competizione e in nome di questo poi aggregare anche il popolo dello scoglio.

Del resto se guadiamo indietro la stagione più fruttuosa dei partiti di massa coincise con la capacità di questi partiti – DC e PCI su tutti – di parlare ai segmenti nascenti: il ceto urbano intellettuale la sinistra, le aree della provincia sociale la DC. E sulla base di queste risorse leggere il mondo ed egemonizzare le retroguardie.

Esattamente come i palinsesti televisivi. Dove ormai nessuno più sale sulle spalle dei giganti, ma tutti corrono sulle gambe dei nani.