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BreakingDigital. La vittoria di Trump? Usare la rete contro i padroni della rete

Michele Mezza

Michele Mezza

È da più di vent’anni che Cris Thorpe, uno dei più attivi e affermati attori del teatro contemporaneo inglese, manda in scena uno straordinario e suggestivo spettacolo dal titolo “Confirmation”.

E’ un adattamento, periodicamente aggiornato, di un saggio di Jonathan Haidt intitolato Menti Tribali.

Haidt, valente neuropsichiatra, analizza i labirinti delle relazioni sociali alla luce dei fenomeni psicopatologici che esplodono nella società moderna.

La sua tesi è che nella città contemporanea, dove ci aggiriamo in cerca comunque di protezione e d’identità, la nostra bussola per riconoscere e collegarci con i nostri simili è quasi esclusivamente l’affinità, quella che lui chiama più radicalmente “la bias confermativa”.

Noi procediamo per affinità, siamo assetati proprio di quella conferma del nostro io negli altri, di quella convergenza comportamentale che Cris Thorpe plasticamente mette in scena nel suo spettacolo.

La “Confirmation” è uno stato d’animo nato con l’uomo, e rafforzatosi con il processo di progressiva e inesauribile attitudine al protagonismo degli individui, che il dispiegarsi della società dell’informazione ha reso galoppante.

Da semplice identità tribale è diventata un fenomeno culturale, uno stato della mente: ha preso forma in quel gorgo di somiglianze e rassomiglianze appunto di “bias  confermativa” di pregiudizio identitario…

Si tratta, spiega il neuropsichiatra Haidt, di una sorta di rifiuto delle differenze, di panico per le diversità, di rigetto preventivo per la dialettica.

Un processo che rifugge la serendipity, ogni forma di trasversalità e di sorpresa nelle frequentazioni culturali e sociali.

Tutto ciò largamente prima e senza i Social Network.

La Bias confermativa è un atteggiamento, meglio ancora, un riflesso comportamentale, che prende forza man mano che si estende l’unità di tempo e di spazio, in cui un numero sempre maggiore di popolazione condivide.

Quell’unità di tempo e di spazio la possiamo chiamare più sinteticamente ed efficacemente la comunità.

La community delle tribù, per usare la metafora di Jonathan Haidt,  è il social network primordiale.

E’ la moltitudine di individui momentaneamente federati attorno ad un tema, una richiesta, un’ambizione o un bersaglio comune. E’ la vera matrice di quel fenomeno che oggi noi chiamiamo appunto socialità virale, o più semplicemente: i Social Network.

Non a caso, mentre la politica annaspa, è ancora una volta il teatro ad incaricarsi di decifrare i meccanismi culturali, sociali, e antropologici, che sovrintendono alla nostra vita, e che specificatamente istruiscono e organizzano le forme di potere.

Già Eschilo, ed Euripide prima, e poi William Shakespeare, analizzarono e ci raccontarono, con lucidità ed ispirazione impareggiabili, le caleidoscopiche componenti del potere che si formava attorno a loro.

Sarebbe facile cedere alle analogie.

Quello che veniva rappresentato allora come forza, furbizia, o ancora spietatezza, nel descrivere i fattori del mito di un sovrano, oggi li ritroviamo, con richiami analoghi,  nella capacità di individuare, selezionare e organizzare quel potente motore della nostra quotidianità che è Appunto La bias confermativa.

 

Donald Trump è stato, ancora da capire quanto consapevolmente, il più abile e istintivo artefice di questo fenomeno, snobbato e sbeffeggiato da chi doveva saperne di più su questo terreno innovativo.

Cosa è stato quel buffo personaggio che si presentava in maniera autocaricaturale, con la certezza della sua vittoria che gli consentiva il tono scollacciato e inelegante che esibiva pubblicamente, se non un pionieristico Artigiano di quella inedita  capacità di identificare, scovare, diffondere e finalizzare la più grande estensione di bias confermativa che allignava nella pancia del paese?

Un artigiano dicevamo, perché lui e il suo staff hanno lavorato sapientemente con strumenti e abilità – algoritmi e sterminati data base – che leggendo e interpretando linguaggi, vocabolari, immaginari, ma anche rabbia e dolore di popolazioni sommerse e comuni, gli hanno fatto toccare con mano quanto profonda fosse la sua America.

Certo Trump da tempo un borghese estremista anzi un privilegiato radicalizzato ma per la prima volta tramite l’aggettivo radicalizzato ha potuto entrare in sintonia dopo decenni che tentava l’acrobazia elettorale con un pezzo di popolo consistente rilevante determinante.

Ci vorranno anni per dare un volto concreto a questa base sociale che ha sovvertito tutti i pronostici, ci vorrà tempo per capire i meccanismi reali che hanno sottratto al Partito Democratico il riconoscimento di quella alleanza fra produttori industriali e folla di giovani creativi che portò alla Casa Bianca Barack Obama.

Solo 4 anni fa quello schieramento si confermò maggioranza politica ed elettorale del paese ed otto anni fa riuscì addirittura ad imporre all’establishment democratico la candidatura del giovane senatore del’Illinois.

Ora nulla sembra rimanere di quell’esperimento politico che sbigottì i professionisti del Congresso e ammaliò gli orfani della sinistra di tutto il mondo.

Ovviamente gli errori dei vincitori di ieri hanno contato molto per spiegare gli sconfitti di oggi.

Ma i numeri ci raccontano di fenomeni sociali, di processi organizzativi e tecnologici che non sono spiegabili solo con la tradizionale algebra politica, per la quale in un ballottaggio a due se uno perde l’altro è costretto a vincere.

Donald Trump era considerato un perdente a prescindere. Non solo per la sua fisionomia e la sua non credibilità politica, ma soprattutto per l’insufficienza, la limitatezza, la minorità delle figure sociali e dello schieramento che voleva imbastire.

E’ stata la vittoria della vecchia America isolazionista agricola rispetto al rampantismo globalista delle grandi città.

O, forse, è stata la conferma che nel dualismo fra l’America orizzontale, cioè il paese delle Grandi Pianure provinciali, e l’America verticale, delle potenti città dei grattacieli, come circa 10 anni fa descrivevano il conflitto politico americano nel loro reportage sulla destra giusta di Bush i due inviati dell’Economist John Micklethwait e Adrian Wooldridge, vince sempre la matrice fondamentalista?

Oppure, guardando a quanto accade in tutto il mondo, dall’Inghilterra della Brexit alla Spagna senza governo, ai populismi sudamericani e asiatici, non è il caso di vedere in America il consolidarsi di una nuova forma della democrazia occidentale dove lo scontro non è più tra destra proprietaria e sinistra del lavoro ma fra populismi a volte reazionari a volte progressisti e élites finanziarie di governo.

Uno scontro forse non inedito ma che per la prima volta vede lo schieramento populista, peronista – si sarebbe detto tempo fa – acquisire strumenti, comportamenti e linguaggi tali da insidiare organicamente ogni egemonia culturale dei vertici metropolitani.

La rete, con i suoi asset asimmetrici, gli algoritmi, le potenze di calcolo, i Big Data, i flussi di connettività e i sistemi di relazioni istantanei, sicuramente oggi rappresenta l’elemento che rompe ogni tradizione e permette ogni incursione a forme irregolari e corsare della politica. Ma perché i giganti del sistema digitale, tutti schierati con la Clinton, sono stati surclassati sul loro terreno? Forse perché la politica più del software guida sempre le comunità.

La rete è un megafono protestatario, ma non un sistema di governance, si dice.

In America forse stiamo assistendo ha una variazione di questo schema.

Sembra paradossale ma la figura massiccia, tronfia, sazia e arrogante, di questo miliardario presidente, si trova a ripristinare proprio attraverso il senso comune della sua gente in rete, il primato della democrazia rispetto alle intelligenze.

Potrebbe essere l’inizio di un corto circuito disastroso.

Ma potrebbe anche riportare al centro della scena un pezzo di mondo che finora non capiva perché era stato abbandonato da chiunque fosse popolo.

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