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BreakingDigital. Crisi Rai: ‘l’accozzaglia’ di Campo dall’Orto alla prova ‘gentilonizzazione’

Michele Mezza

Michele Mezza

Proprio su questa testata qualche mese fa ci permettemmo di ipotizzare per Natale la crisi della Gestione Campo Dall’Orto in Rai. Abbiamo sbagliato di qualche giorno: non è stato Babbo Natale, sarà la Befana  a ratificare le fine anche di quest’improvvisazione.

Non fummo particolarmente preveggenti, già il balletto attorno al simulacro di piano industriale ci faceva intendere che il gruppo dei talenti raccolto dal direttore generale/amministratore delegato di viale Mazzini aveva il fiato corto.

La Pantomima che si è consumata sul così detto piano delle news di Verdelli mette una lapide sulle aspettative del campione inviato dal governo in Rai. E siccome la Rai continua a prefigurare gli equilibri politici del paese, archivia anche la stagione della stessa leadership di Renzi.

Paradossalmente quello che poteva essere perdonato all’ex sindaco di Firenze sulla crisi del Monte dei Paschi di Siena non sarà concesso sul servizio pubblico.

E’ il segno che la comunicazione batte moneta più delle banche ed è il rivelatore non tanto dello storytellig ma di un’idea di paese che un leader politico esprime.

Renzi sulla Rai ha manifestamente messo in vetrina la limitatezza culturale e politica di una vision del paese che si riduce ormai al mantra della rottamazione e non arriva mai alla fase della costruzione.

Campo dall’Orto e la sua “accozzaglia” di talenti, potremmo dire adottando un termine sdoganato istituzionalmente proprio dall’ex presidente del consiglio, si è trovato sbalzato al vertice del sistema comunicativo più complesso del paese senza un mandato strategico, senza un quadro di riferimento, senza sapere realmente cosa volesse il governo ed a cosa dovesse essere funzionale, se non l’immediatezza di rendere meno spigolosa l’informazione in vista del referendum costituzionale.

E il fatto che a bocciare i progetti della squadra del direttore generale sia stato un asse Freccero/Diaconale/Siddi che guida ora il solito, per quanto rinnovato nei componenti, partito Rai che tutto vuole cambiare meno se stesso, non basta a garantire la bontà di quanto si voleva fare.

Un’azienda pubblica, tanto più se viene stressata nei suoi equilibri interni, non può essere governata se non con una bussola strategica del decisore politico. Chi intende l’autonomia della Rai come una carta bianca da concedere ad un manipolo di tecnocrati non sa di cosa sta parlando. La libertà di produrre e di informare è una commodity, un’ovvietà che quando manca è segno del malaffare, come è stata la lottizzazione dei linguaggi, prima che delle carriere.

Ma un’impresa pubblica che presidia un segmento strategico come la comunicazione non può prescindere da un contesto politico nazionale pena la sua marginalità e decadenza. In un elegante libretto di fine ‘800, George Bernard Show intervenendo sulle polemiche contro le nascenti aziende municipalizzate in Gran Bretagna, spiega a conferma del carattere essenziale che svolgono queste imprese che nel mercato “il pubblico deve fare tutto quello che non trova conveniente il privato per il bene comune”.

Questa è la regola che rende indispensabile una buona politica come riferimento di un servizio pubblico. Soprattutto in uno scenario come quello attuale in cui non solo è confuso il confine fra quanto fanno i privati e quanto fa il pubblico, ma è indeterminato l’oggetto: cosa sono i contenuti di un’impresa multimediale? I suoi linguaggi? Le sue tecnologie? I suoi significati? I suoi modelli?

In questa storia vedere “l’accozzaglia” di Campo Dall’Orto infilarsi nei cunicoli di Viale Mazzini priva di riferimenti e protezioni ha fatto persino tenerezza. Un gruppo di indubbi professionisti, alcuni persino di assoluto pregio, quasi tutti di buona levatura, prevalentemente cresciuti in aziende private, si sono trovati alla testa di un reparto del governo reale del paese senza avere la più assoluta idea di cosa fare. E quando un manager di cultura privatistica non sa cosa fare si rifugia in due azioni: l’efficientamento (come dicono loro con un termine da brividi) della gestione, e il marketing dell’offerta.

Esattamente quanto ha tentato di imbastire “l’accozzaglia”. Non funziona.

Come anche le esperienze precedenti hanno dimostrato, a cominciare dall’ultima di Gubitosi, partire dalla vetrina in Rai non è né adeguato né plausibile per due motivi.

Da un lato, perché nella comunicazione la corrispondenza fra come si produce e cosa si produce è strettissima; dall’altro, perché siamo nel pieno di un tornante in cui  la prevalenza del come sta diventando totalizzante, come tutte le esperienze sul mercato ci indicano.

Infatti dire che la Rai deve adattarsi al digitale è come dire che si è adattata all’energia elettrica. Una stupidaggine. Oggi il digitale è una banale realtà. Il problema è cogliere le infinite varianti di questo sistema liquido, è capire come incardinare un progetto aziendale in un mondo in cui linguaggi, tecnologie, contenuti e utenti mutano semestralmente.

Oggi una televisione è soprattutto il suo algoritmo, ossia la sua capacità di dotarsi di autonomia strategica nella selezione delle intelligenze artificiali che gli permettono di costruire relazioni sempre più strette con i suoi utenti: da Netflix a Sky, alla stessa Mediaset, fino alle nuove realtà che stanno arrivando da Amazon a Facebook, la dieta audiovisiva di una comunità è determinata dalle modalità di auto programmazione dei linguaggi e dei tempi di fruizione.

Su questo punto la Rai si è limitata a mettere in campo un’app, RAI Play.

E’ come dire che se si vuole sconfiggere il cancro intanto ci si lava le mani: indispensabile e inevitabile, ma scontatamente inutile al fine dell’obiettivo.

Sia Campo dall’Orto nel suo scheletro di piano industriale che Verdelli nel suo vagheggiato progetto delle news hanno comprato sapone e asciugamani in quantità, ma in reparto si continua a morire di tumore.

Proprio il piano Verdelli, per il prestigio del suo autore, e la sua struttura è un monumento a tutto quello che non si doveva fare e non si dovrà ripetere: comporre mosaici di efficientamento dell’offerta e razionalizzazione del marketing è una materia che afferisce alla sovranità del paese.

Quali sono i primati che il servizio pubblico nazionale, tanto più se l’ibridazione di Mediaset procederà con la francese Vivendi, deve difendere? L’integrazione rainews24 /TGR indica una strada: il territorio. L’obiettivo sarebbe quello di diventare la spina dorsale dell’informazione nazionale di flusso. Diciamo l’Ansa multimediale.

Ma la petizione di principio su quale idea editoriale poggia? Con quali figure professionali si realizza? Con quale geometria a rete si costruisce? Con quale know how locale si irrobustisce? Soprattutto questa eventuale fabbrica dell’informazione Rai dove si colloca nel treno produttivo dei TG in testa o in coda o, peggio ancora, si aggiunge?

Tutto questo con l’inevitabile corredo delle forme: quanto mobile e che tipo di mobile nella produzione di news? Che intreccio con i social? Quali alleanze sulla scena dei service provider?

L’assenza di questi aspetti ha reso il piano fragile e omologabile ai precedenti, come appunto il piano Gubitosi che viene rilanciato dalla presidente non contenta dello sfascio prodotto nel web con la sua gestione. L’attacco del neo partito situazionista/berlusconiano nel CdA ha fatto il resto insieme all’immancabile coro di Niet dell’Usigrai.

Ora si attende la caduta del ridotto di Campo dall’Orto. Qualsiasi pretesto sarà buono. E la Rai è una catena di montaggio di pretesti. Anche perché se non va avanti, l’azienda va indietro e torna ai suoi istinti che la vogliono sempre in sintonia con il cavallo al momento in corsia a Palazzo Chigi.

Siamo alla viglia di un nuovo esperimento genetico: la “gentilonizzazione” del servizio pubblico. Non una conquista, ma un’anestesia. Il Cavallo non reggerà al anestetico. Ma forse nessuno se ne accorgerà.

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