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Blockchain e smart contract, i nuovi scenari per la pubblica amministrazione

di Roberto Reale, ICT & EU Project Manager |

Le applicazioni sono naturalmente innumerevoli: dalla modellazione dei processi interni alla PA, alla notarizzazione di atti e procedure, all’esecuzione automatica di pratiche, all’offerta al cittadino di servizi digitali di nuova generazione, alla tracciabilità e alla trasparenza.

Il DL Semplificazioni (decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135), convertito in legge (11 febbraio 2019, n. 12), fornisce per la prima volta in Italia la definizione di blockchain (rectius, di “tecnologie basate su registri distribuiti”) e di smart contract.

  • Le prime definite come “le tecnologie e i protocolli informatici che usano un registro condiviso, distribuito, replicabile, accessibile simultaneamente, architetturalmente decentralizzato su basi crittografiche, tali da consentire la registrazione, la convalida, l’aggiornamento e l’archiviazione di dati sia in chiaro che ulteriormente protetti da crittografia verificabili da ciascun partecipante, non alterabili e non modificabili”.
  • Il secondo come “un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse”. In particolare, gli smart contract soddisfano de iure il requisito della forma scritta e diventano così strumenti non soltanto tecnologici, ma strutturali, nelle mani della pubblica amministrazione.

Verso quale modello?

Una tassonomia minima della blockchain si esaurisce in due modelli principali: blockchain permissionless, o pubblica, se non prevede vincoli per l’accesso; permissioned, o privata, in caso contrario. Il primo modello garantisce una disintermediazione “pura”, ma potrebbe non rivelarsi ottimale per le esigenze di protezione e controllo del dato tipiche di una pubblica amministrazione, in particolare di quella italiana con il suo complesso equilibrio di competenze.

Ci si evolverà invece, ipotizziamo, verso un modello di tipo permissioned, eventualmente articolato in un “arcipelago” di blockchain la titolarità di ciascuna delle quali sia riconducibile a un singolo ente ovvero a un raggruppamento di enti (un ecosistema). Un’architettura di questo genere si presta inoltre ad una organizzazione multi-livello o multi-layer, secondo le esigenze funzionali e organizzative di ciascuna amministrazione.

Il “collante” tecnologico potrà essere rappresentato da tecnologie come AION, una piattaforma aperta per lo sviluppo di applicazioni decentralizzate (“dapps”) particolarmente versata nella costruzione di meccanismi di interoperabilità (“token bridge”) tra blockchain anche di natura eterogenea.

È naturalmente vitale garantire una compatibilità sia architetturale sia in termini di governance con gli analoghi sviluppi sia a livello regionale sia, a maggior ragione, a livello comunitario, nell’alveo dei principi generali che regolano la costruzione del Digital Single Market.

Asset digitale nativo?

Il modello distribuito della blockchain prevede che i partecipanti alla rete mettano a disposizione parte delle proprie risorse computazionali in cambio della possibilità di estrarne valore (“mining”): il che presuppone l’esistenza di un asset digitale nativo, generalmente sotto forma di criptovaluta o token. Questo, in linea di principio, escluderebbe una blockchain intesa semplicemente come piattaforma decentralizzata, nel senso in cui la definisce la norma.

Tuttavia, va considerato che in un’ipotesi di adozione da parte del settore pubblico, i meccanismi incentivanti in gioco sono di ordine diverso, attenendo principalmente agli scopi istituzionali per i quali l’amministrazione svolge i propri compiti. In termini economici, si tratta essenzialmente di esternalità la cui rappresentazione tecnologica potrà anche essere demandata ad asset digitali puramente formali.

Interoperabilità con i servizi tradizionali

I servizi decentralizzati offerti dalla pubblica amministrazione dovranno necessariamente dialogare con i servizi digitali tradizionali, offerti secondo le linee guida del modello di interoperabilità emanate da AgID nel 2018. Ne segue la necessità di stabilire criteri ulteriori, che tengano conto della particolare natura tecnologica della blockchain: ad esempio, un ruolo vitale sarà svolto dai cosiddetti “oracoli”, soggetti terzi (suscettibili a loro volta di una configurazione decentralizzata) specializzati nella mediazione con il mondo tradizionale. Ad essi sarà demandato il dialogo nei due sensi, sia per il reperimento di informazioni offerte da pubblici servizi che per l’esecuzione di azioni (ad esempio, l’espletamento di una pratica).

È verosimile allora che si apra un ampio mercato per i soggetti privati in grado di offrire servizi di interoperabilità e di “traduzione”, nonché di identificazione delle parti, sulla scorta di un modello analogo a quello dei servizi in cloud.

Quali applicazioni

Le applicazioni sono naturalmente innumerevoli: dalla modellazione dei processi interni alla PA, alla notarizzazione di atti e procedure, all’esecuzione automatica di pratiche, all’offerta al cittadino di servizi digitali di nuova generazione, alla tracciabilità e alla trasparenza. È naturalmente essenziale distinguere, tra i possibili scenari d’uso, quelli per i quali l’impiego della blockchain e degli smart contract rappresenti un vantaggio effettivo.

Come sempre, poi, i risultati più interessanti si ottengono “contaminando” le tecnologie: un esempio particolarmente interessante è la combinazione tra smart contract e intelligenza artificiale, dove quest’ultima consentirebbe la rappresentazione di clausole complesse o valoriali, mentre i primi implementerebbero una forma di “accountability”, aprendo così alla rappresentazione di una “personalità algoritmica” anche in senso giuridico.