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Big Tech, investimenti per 210 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo nel 2022. Meta 39 miliardi come l’Italia, Amazon 73 miliardi come la Francia

Nel dicembre scorso il portale web Trendline ha pubblicato i dati della spesa in ricerca e sviluppo nell’anno 2022 delle prime dieci aziende del listino Nasdaq. Il totale dei fondi spesi ammonta a 222 miliardi di dollari. Si tratta evidentemente di una cifra enorme. Tra questi dieci giganti i primi sei sono i colossi dell’informatica mondiale Amazon, Alphabet, Meta, Apple, Microsoft e Nvidia. Tutte imprese americani che da sole hanno investito circa 210 miliardi di dollari nelle attività di ricerca e innovazione per lo sviluppo di nuove soluzioni hardware e software in settori cruciali come quelli dei servizi cloud, dei social media, dell’intelligenza artificiale, dei sistemi mobili, del metaverso, della robotica e dei nuovi processori.

I big tech più potenti di intere nazioni

Se non bastassero le cifre assolute a mostrare l’enormità di capitali a disposizione delle Big Tech mai visti prima per finanziare la ricerca e l’innovazione digitale, si possono fare alcuni confronti con gli investimenti in ricerca e sviluppo delle nazioni avanzate per comprendere la straordinarietà delle cifre e degli investimenti che queste grandi società mettono in campo.

Soltanto l’investimento annuale di Meta (la proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp) è pari a quello che lo Stato italiano investe in un anno nell’insieme di tutti i settori di ricerca e sviluppo (circa 39 miliardi di dollari), mentre Amazon ha investito quanto ha speso la Francia (73 miliardi di dollari) nello stesso anno. Complessivamente la spesa delle sei aziende è stata pari alla somma di quelle di Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Messico e Svezia. Quindi, sei aziende private spendono quanto sei grandi Stati nazionali e lo fanno soltanto in un settore, quello dell’informatica e delle telecomunicazioni.

Oltre a rivelare i grandissimi investimenti che ognuna di queste aziende fa, queste cifre spiegano anche quanto siano insufficienti i fondi in ricerca e sviluppo degli Stati nazionali (eccettuati gli Stati Uniti, la Cina e la Germania). E ciò serve a chiarire perché poche aziende private sviluppano la quasi totalità dei sistemi innovativi digitali che il mondo produce. Per quanto le università e i centri di ricerca pubblici possano impegnarsi e per quanto si possa provare a creare spinoff in questo settore, il differenziale finanziario è di diversi ordini di grandezza e nei fatti impedisce una vera concorrenza con queste grandi aziende.

I confronti numerici descritti spiegano, molto più di tante analisi e teorie, il ruolo quasi monopolistico che le grandi aziende digitali, proprietarie di sistemi software usati quotidianamente da miliardi di persone, hanno nel mondo. Un ruolo certamente economico e tecnologico, ma grazie a questa enorme disponibilità di denaro e alla potenza delle loro innovazioni, anche un ruolo politico che giocano per condizionare miliardi di individui e moltissimi governi nel mondo. Non a caso i loro amministratori vengono spesso invitati agli stessi tavoli dei presidenti o dei premier dei paesi più avanzati. Ad esempio, in questi giorni Sam Altman è intervenuto a Davos, mentre Bill Gates ha incontrato il premier Meloni e il presidente Mattarella per discutere di IA.

L’impegno Ue per regolamentare i big tech

Gli imponenti valori di investimenti privati in ricerca e innovazione devono necessariamente richiamare molti stati nazionali e anche l’UE a riflettere sui limiti dei loro investimenti in nuove tecnologie e sul fatto che questi limiti li portano ad essere dipendenti dalle tecnologie digitali dalle grandi aziende statunitensi. L’Europa deve fare di più e dovrebbe seguire politiche di costruzioni di grandi centri europei di ricerca che permettano di aumentare la competitività del vecchio continente.

L’Unione Europea sta lavorando molto sulla regolamentazione dell’uso dei Big Data, dei sistemi di intelligenza artificiale e sul mercato dei prodotti software, ma non fa altrettanto sul lato degli investimenti. Anche il piano di aumenti degli investimenti previsto per i prossimi anni non è sufficiente a colmare un divario che vede gli americani, soprattutto grazie ai loro colossi privati, condurre il gioco e gli europei essere soltanto consumatori delle loro soluzioni, incapaci di sviluppare servizi e prodotti competitivi con quelli che vengono sfornati negli USA.

Meta investe 39 miliardi come un Paese come l’Italia

Se poi consideriamo che l’Italia investe in ricerca e sviluppo (in tutte le aree) la stessa cifra investita dall’azienda di Zuckerberg soltanto nel settore informatico, la situazione appare ancora più preoccupante. Questo dato da solo rende evidentissimo che sul tema della ricerca e dello sviluppo tecnologico l’Italia è in ritardo, nonostante abbia ricercatori e gruppi di studiosi di valore internazionale che producono risultati innovativi ma che non riescono a diventare prodotti. È evidente che le scarse risorse e la ridotta massa critica ci penalizzano molto.

Quest’anno l’Italia guida il G7 e il governo ha dichiarato di volersi impegnare molto sui temi del digitale e in particolare dell’intelligenza artificiale. Queste dichiarazioni però rischiano di essere soltanto enunciazioni di principio senza veri effetti pratici. Serve certamente una strategia nazionale, che al momento è in fase di definizione e che non è scontato poi verrà realmente attuata. Una strategia nazionale che sia coordinata anche con quella dell’EU e delle altre nazioni europee. Tuttavia, per quanto visto in precedenza, la strategia da sola non sarà sufficiente. Se non si faranno investimenti molto superiori a quelli fatti finora, una singola azienda tra le Big Tech conterà più di noi e svilupperà investimenti e soluzioni molto più efficaci delle nostre.

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