Il reshoring

Automazione, le tecnologie 4.0 per porre fine alla delocalizzazione industriale

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Stop ai trasferimenti degli impianti produttivi nei Paesi dove la manodopera costa poco. La trasformazione digitale favorirà il ritorno nei Paesi occidentali dei processi produttivi, grazie soprattutto al cloud.

India, Cina, Malesia, Indonesia, Brasile, Vietnam, Filippine, Thailandia, Cile e Colombia, sono i 10 Paesi al mondo dove le grandi imprese e le industrie dei Paesi più ricchi vanno a delocalizzare maggiormente. L’automazione industriale e il paradigma 4.0 potrebbero ora rovesciare tutto e mettere in discussione addirittura i progressi fatti dai Paesi emergenti negli ultimi 20 anni.

Servizi IT, contabilità, gestione amministrativa, call center e altri ancora sono i settori che più di altri sono stati oggetto di processi di outsourcing. Ora, con l’automazione crescente AT Kerney calcola che solo tra India, Polonia e Filippine si potrebbero perdere nei prossimi cinque anni tra 400 e 500 mila posti di lavoro.

Tutti nuovi posti di lavoro nei Paesi tradizionalmente più industrializzati?

Non proprio. Tra Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna, i mercati dove tali tecnologie (internet delle cose, cloud computing, big data, automazione, robotica) sono sviluppate ed utilizzate in maggior misura, la domanda di nuove figure professionali vedrà sicuramente un boom, ma parliamo di professioni con skills elevati.

È il fenomeno del reshoring, cioè del rientro nella casa madre di quelle imprese o attività produttive precedentemente delocalizzate.

Questo non solo per via dei grandi risparmi offerti dal cloud computing e dalle tecnologie più avanzate 4.0, ma anche per avvicinare le produzioni alla casa madre, per il controllo di qualità, per le oscillazioni dei costi dell’energia, per l’instabilità di molte aree del pianeta, per il costo del lavoro in crescita anche nei Paesi finora più poveri.

Per quanto riguarda l’Italia, Andrea Majoli, partner di ATKearney, ha spiegato oggi sul Sole 24 Ore quello che potrebbe essere lo scenario che ci aspetta nel breve periodo: “A grandi linee, possiamo immaginare che l’esternalizzazione di questi servizi da parte delle aziende italiane abbia generato occupazione per circa 500mila addetti. In una prima fase queste funzioni sono state delocalizzate nel Sud Italia, grazie anche agli incentivi al settore. Poi, alla ricerca di costi ancora più ridotti, le nostre aziende hanno guardato a quei Paesi dove fosse possibile trovare chi parlasse anche la lingua italiana: prima la Romania e il Sudamerica, più recentemente l’Albania e il resto dei Balcani. Così come per gli Usa, però, il diffondersi dei software intelligenti apre anche per l’Italia un futuro fatto di reshoring: nuova occupazione di fascia alta si creerà nel nostro Paese per scrivere e gestire questi nuovi sistemi informatici automatizzati”.

La trasformazione digitale nel suo dispiegamento a livello globale determinerà la creazione di un nuovo posto di lavoro ogni quattro persi. Come dire, le macchine non distruggeranno il lavoro, né lo sottrarranno agli uomini, a patto che questi ultimi accettino di aumentare e di molto le proprie competenze (amministratori di sistema, programmatori, esperti di sicurezza e microelettronica ad esempio).

Professioni di alta fascia, con skills elevati e più alte retribuzioni, che al momento riguardano davvero una bassa percentuale di occupati.

Entro il 2020, secondo l’Unione europea, ci sarà una domanda di nuovi occupati nel settore ICT per 700 mila persone. Oggi però solo il 3,6% della forza lavoro Ue ha almeno una specializzazione nel settore high tech e appena il 56% degli europei può vantare delle “competenze digitali di base”.