lavoro agile

AssetProtection. Lo Smart Working è un modello veramente agile?

di Alberto Buzzoli, Socio ANSSAIF – Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria |

Sebbene la normativa sullo smart working nasca sotto le migliori intenzioni, focalizzate sulle politiche di sostenibilità sociale ed ambientale, incontra (e si scontra) con alcuni aspetti la cui gestione potrebbe risultare quanto meno laboriosa e articolata.

La rubrica AssetProtection, ovvero Riflessioni su sicurezza e terrorismo, a cura di Anthony Cecil Wright, presidente Anssaif (Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria). Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

Dal 22 maggio del corrente anno il lavoro agile, più noto sotto l’etichetta di Smart Working, trova regolamentazione  anche nei rapporti di lavoro subordinato con la legge 81/2017 (art.18 e successivi).

Sebbene la normativa nasca sotto le migliori intenzioni, focalizzate sulle politiche di sostenibilità sociale ed ambientale, incontra (e si scontra) con alcuni aspetti la cui gestione potrebbe risultare quanto meno laboriosa, articolata.

Il primo aspetto, che emerge già nell’art.18 comma 1, riguarda l’ “organizzazione [del lavoro] per fasi, cicli e obiettivi”. Ciò presuppone che l’azienda che decide di attivare accordi di smart working sia ben strutturata dal punto di vista del project management (le fasi), che abbia una buona definizione documentata dei processi in essere (cicli) e che investa tempo prezioso nella definizione di obiettivi di efficienza non solo di carattere economico. Qualora non possieda questi requisiti, subentrerà oggettivamente un problema di valutazione dell’operato dei “lavoratori agili”. Si consideri anche, in aggiunta, che per quanto siano buone le intenzioni delle aziende che promuovono questa tipologia di accordi – ma diciamocela tutta, spesso lo fanno anche per ridurre i costi di infrastruttura – diventa difficile smantellare il concetto di controllo ormai radicato in decenni. Sappiamo bene che lo sguardo fisso sul monitor e le interazioni presenziali non sono un indice valido di impegno e di efficacia, ma rischiano di diventare l’unico metodo a disposizione del management, in assenza della possibilità di tracciare l’operato sulla base dei parametri sopra discussi, per fare una valutazione di produttività. Il rischio? Che il “lavoratore agile” si ritrovi ad essere considerato la pecora nera del gruppo, pur producendo il doppio.

La seconda questione (art. 19, comma 1) riguarda “le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. Questa disposizione, che in ambito legale viene spesso interpretata come la necessità di innescare meccanismi automatici e forzati di logout dai sistemi aziendali, potrebbe risultare incompatibile con le esigenze di business continuity riscontrate dall’azienda. Addirittura rischia in qualche modo di diventare un elemento discriminatorio (anziché funzionare come tutela) nei confronti di quei lavoratori a cui sono stati assegnati ruoli attivi nell’ambito della continuità operativa, facendo apparire gli accordi di lavoro agili difficilmente applicabili.

Il terzo (e più difficile) elemento da gestire, definito all’art. 18, comma 2, riguarda il fatto che “il datore di lavoro è responsabile della sicurezza […] degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore”. Su questa definizione aleggia la solita incertezza linguistica che riguarda il termine sicurezza. Ma poiché di safety se ne parla all’art. 22, si suppone che in questo caso si faccia riferimento all’information security. Ed è in questo caso che si può assistere alla configurazione delle più fantasiose (ed incoerenti) soluzioni. Senza approfondire la questione circa contromisure e controlli compensativi necessari in caso di lavoro agile, le organizzazioni dovrebbero però mantenere una linea coerente di sicurezza. Perché se gli accordi di smart working, specie in caso di prime applicazioni sperimentali, fanno venire voglia di proibire operatività in luoghi pubblici, connessioni a reti aperte ed inducono all’obbligo dell’impiego di smartphone e portatili esclusivamente aziendali nonché all’impiego di modalità di autenticazione a due fattori, le stesse accortezze dovrebbero riguardare quei dipendenti “non agili” che si muovono in trasferta, ai quali invece è richiesto, ad esempio, di utilizzare in modo produttivo i tempi di viaggio, con tutte le “insicurezze” che ne conseguono.

Come sempre il Legislatore se ne guarda bene dall’addentrarsi in indicazioni di carattere operativo e le aziende dall’assumersi la responsabilità ed investire tempo nel definire istruzioni precise e coerenti. Certo è che questo modo di lavorare, così come l’abbiamo descritto, tra obbligazioni e complicazioni,  può evocare molteplici percezioni; tutte ben distanti dal carattere di agilità.