Security

AssetProtection. Discriminazione e sicurezza, serve un cambio di passo

di Alberto Buzzoli, Socio ANSSAIF – Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria |

Il terrorismo legato al fondamentalismo islamico è un fattore che deve essere preso in considerazione dai grandi gruppi come dalle organizzazioni più piccole. Ma servono regole chiare

La rubrica AssetProtection, ovvero Riflessioni su sicurezza e terrorismo, a cura di Anthony Cecil Wright, presidente Anssaif (Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria). Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

Sembra oramai chiaro che le normative più disparate convergano verso un modello che trova il suo fulcro nelle attività di gestione del rischio. E sembra oramai altrettanto chiaro che l’input del processo di gestione del rischio sia fornito da un’analisi accurata del contesto. Infine, dovrebbe essere anche chiaro che il contesto da analizzare è molto più ampio e complesso rispetto al passato.

Il fenomeno del terrorismo legato al fondamentalismo islamico è uno dei fattori che indiscutibilmente deve essere preso in considerazione dai grandi gruppi come dalle organizzazioni più piccole. Non manca però un po’ di alterazione nella percezione del rischio che, seppur in modo erroneo, è generata dalla confusione tra attività deprecabili di spietati assassini e una cultura onorabile e millenaria.

Ma qual è effettivamente l’aspetto che deve prevalere?

Confinare in modo irremovibile qualsiasi forma di discriminazione oppure le esigenze correlate alla sicurezza?

Perché, intendiamoci, se per caso fosse in corso una selezione per l’inserimento di nuovo personale e si presentasse un candidato presunto musulmano – individuato come tale per abbigliamento, per usanze dichiarate in fase di colloquio, per provenienza geografica oppure per manifesta appartenenza religiosa -, in assenza di un ragionamento a priori dell’azienda e della definizione dei criteri di analisi del rischio al riguardo, chi svolge il colloquio avrebbe qualche grattacapo da gestire.

Ed il rischio più grave, sempre in assenza di un approfondito ragionamento al riguardo, è che la soluzione identificata sia quella di risolvere la faccenda eliminandolo dalle selezioni, registrando come motivazione ufficiale dell’esito negativo del colloquio qualche forma di inadeguatezza, poco importa che riguardi conoscenze, competenze oppure atteggiamenti riconducibili ai soft skill.

Ma sarebbe solo un modo rapido – discriminatorio e semplicistico – di aggirare la questione. Una soluzione strutturata dovrebbe in qualche modo prevedere un’accurata identificazione di tutti i criteri che possono far scattare un’allerta reale: ad esempio l’eventuale recente viaggio del candidato – come da lui stesso dichiarato, rispondendo ad una specifica domanda – nelle zone considerate calde, oppure un atteggiamento ossessivo dimostrato esplicitamente nei confronti della religione, oltre ad eventuali evidenze risultanti dalla documentazione giudiziaria richiesta (carichi pendenti, casellario).

Anche in questo caso, quale sarebbe il modo corretto per registrare queste constatazioni?

Si procede con la videoregistrazione del colloquio, acquisendo preventivamente l’autorizzazione al trattamento di informazioni tanto sensibili?

Oppure è sufficiente un questionario specifico che raccolga domande esplicite circa il tema, la cui compilazione avviene da parte del candidato?

In fondo è esattamente lo stesso metodo che adottano gli Stati Uniti prima di rilasciare un visto temporaneo.

Ma si è dimostrato veramente efficace?

Insomma non c’è chiarezza sull’argomento, soprattutto per l’impossibilità di prevedere quale possa essere la reazione delle autorità giudiziarie nel caso in cui il candidato, scontento dell’esito del colloquio, decidesse di trascinare l’organizzazione in tribunale.

Basti pensare allo storico contrastante circa le sentenze italiane emesse a proposito di niquab o burqa. Nonostante la legge 152 del 75 sulla pubblica sicurezza espliciti il divieto di utilizzare qualsiasi mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, in alcuni casi è prevalso il rispetto delle motivazioni religiose e della tutela anti discriminatoria rispetto alla vigente normativa e alle esigenze di sicurezza nazionale.

Sembra chiaro che il legislatore ha il compito di riconsiderare quanto già definito oramai 50 anni fa, rimettendo mano ad una normativa che ha dimostrato di non essere del tutto adeguata rispetto al contesto attuale. Inoltre, sarebbe ora che garantisse anche una maggior tutela nei confronti del settore privato, in qualche modo deresponsabilizzandolo dal prendere decisioni importanti ed autonome proprio là dove non v’è chiarezza.

Infine, ciò che non sarebbe affatto giusto succedesse, tanto per tornare alla nostra questione iniziale, è che l’intera faccenda si risolvesse solamente con black list private (e ben nascoste), che fagocitano nomi potenzialmente pericolosi secondo criteri del tutto arbitrari e che arbitrariamente negano il diritto all’opportunità professionale, anche a coloro che la meritano.