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AssetProtection. Azienda 3.0, un modello che non teme il cambiamento

di Alberto Buzzoli, Socio ANSSAIF – Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria |

Il panorama imperante dell’incertezza esige sempre più l’adozione di un nuovo modello di organizzazione aziendale, in grado di adattarsi al cambiamento

La rubrica AssetProtection, ovvero Riflessioni su sicurezza e terrorismo, a cura di Anthony Cecil Wright, presidente Anssaif (Associazione Nazionale Specialisti Sicurezza in Aziende di Intermediazione Finanziaria). Per consultare gli articoli precedenti clicca qui.

Il panorama dell’incertezza, che abbraccia per sua definizione una gran quantità di dimensioni e fattori, esige sempre più l’adozione di un nuovo modello di organizzazione aziendale, evoluto rispetto al passato, basato su regole nuove. Il fattor comune che le caratterizza è l’orientamento – la predisposizione nativa – alla capacità di gestire il cambiamento, arginando le sacche – a volte veri e propri abissi – di inefficienza che si possono venire a configurare nel breve, medio e lungo periodo.

Nel tentativo di declinarle, è possibile individuarne alcune di carattere strategico: la capacità di monitoraggio, la flessibilità nell’assegnazione delle responsabilità, l’applicazione di un ciclo produttivo basato sul processo di analisi e gestione dei rischi sono alcune di esse.

Nell’ambito dei monitoraggi compiuti, per misurare efficienza ed efficacia di servizi e processi, esiste una vasta gamma di indicatori qualitativi e quantitativi utilizzati.

Non di rado questi vengono implementati e osservati per suffragare ipotesi precostituite a tavolino da parte delle persone interessate, che hanno necessità in qualche modo di dimostrare la loro professionalità, confermando implicitamente di essere indispensabili.

Lo sforzo che invece in pochi compiono è quello di ricondurre il proprio lavoro su di un piano economico, per quanto doloroso possa risultare, tradizionalmente regolato da tre parametri canonici: costi, ricavi e margine di contribuzione. Sebbene non sia sempre naturale, la conversione economica dei più disparati indicatori è una condizione alla quale le organizzazioni dovrebbero tendere.

Ciò rappresenterebbe un significativo accorciamento del divario che tradizionalmente esiste tra attività core e quelle che invece vengono genericamente definite di supporto.

Ovviamente questo discorso interessa anche le attività della sicurezza.

Il rischio di non procedere in questa direzione?

Uno scivolone nel blocco unico dei costi indiretti, con la conseguenza di diffondere la percezione che in realtà si tratti di attività secondarie, di mero valore aggiunto (ed invece di fatto indispensabili), di zone di facile sfoltimento nei periodi di vacche magre.

E le vere aree di inefficienza restano ben nascoste, tra logiche fantasiose di ribaltamento nei centri di costo e significati fumosi di KPI strampalati.

Le emergenze operative (non faccio riferimento alle attività correlate al crisis management, ma semplicemente alle situazioni di maggior urgenza) si verificano con sempre maggior frequenza, in ragione dell’instabilità alla quale mi riferivo al principio.

E’ naturale, quindi, l’esigenza di allocare e liberare risorse in determinate aree con una certa rapidità, ma nella maggior parte dei casi ciò avviene non senza creare qualche perplessità anche per le persone direttamente coinvolte.

Questa esigenza entra in netto contrasto con le architetture di ruoli e responsabilità definite in organigrammi e mansionari. Ciò si verifica perché in molti casi l’associazione di conoscenze e competenze alle varie funzioni è un meccanismo più formale che sostanziale.

Ragionare associando le attività di volta in volta prioritarie con competenze e conoscenze, piuttosto che con le funzioni, consentirebbe di ingaggiare in modo molto più agevole le persone giuste, senza destabilizzare l’organizzazione, senza demolire concettualmente i sistemi di gestione o modelli organizzativi, entrando in contrasto con le interazioni in essi definite.

Certo, l’argomento necessita di un serio approfondimento in ambito giuslavorista, in quanto potrebbe minare le strutture convenzionali dei contratti collettivi nazionali, ma prendiamo come dato di fatto che è un’esigenza forte, ormai impossibile da nascondere o ignorare.

Per ciò che riguarda il modello del progetta, fai, controlla e migliora (ciclo di Deming) è necessario ammettere che ha funzionato bene per decenni, ma che è ormai sottodimensionato rispetto al contesto attuale.

Per nostra fortuna, abbiamo già la possibilità di avere a disposizione quello nuovo e soprattutto adeguato.

Sovrapponendo ed integrando il tradizionale ciclo con il processo di analisi e gestione dei rischi otteniamo una conseguente riduzione dei costi perché, lo ricordiamo nuovamente, la questione non è più ‘se l’incidente succederà’ ma ‘quando succederà, sapremo rispondere rapidamente, arginando le perdite?’

L’azienda 3.0 non è una soluzione difficile da raggiungere. Bisogna solo adattarsi al cambiamento. Perché l’evoluzione della specie ci insegna che chi fa troppa resistenza ne paga le conseguenze, pesanti, a volte letali.