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ArTVision, elogio alla lentezza degli artisti Albanesi

Per Jean Cocteau l’arte non anticipa mai i tempi, al massimo sono i tempi ad arrivare in ritardo. A ben guardare le testimonianze che ci arrivano dall’altra sponda dell’adriatico attraverso gli occhi degli artisti Albanesi, ovvero i punti di vista che utilizzeremo per esplorare la loro terra così simile alla nostra, al drammaturgo francese non gli si può certo dar torto.

L’arte che ci arriva dall’Albania è un’arte immobile e morente, afono singulto sbiadito dall’ateismo di Stato hoxhiano, nel disperato tentativo di riprendersi il suo tempo rubato dalle mille occupazioni e dai piedi di troppi invasori.

Nell’autoritratto di Jona Kuçaj assistiamo all’incedere di una donna abbigliata all’occidentale in un mondo capovolto.

Quel che era non è più, ma quel che è sempre stato. Una terra contesa fra islam e cristianità, che ha continuato a camminare, senza mai accelerare il passo, per giungere con serenità all’ultimo capitolo della sua storia.

Enderra, all’opposto, celebra la stasi.

Una immobilità piacevole e familiare, rassicurante ed eterna. Il loro amore si concretizza nell’accarezzare un cane al quale non danno importanza, i loro sguardi sono persi nel vuoto, convergenti nel fuoco di una fuga prospettica a noi sconosciuta, poco al di sopra delle nostre spalle. Un orizzonte, uno qualsiasi, un orizzonte che prometta loro un’altra terra, meno brulla e più feconda di quella della quale devono accontentarsi.

Un altro autoritratto, quello di Anduela Aliko, una barca di carta per raggiungere l’orizzonte di cui si parlava in precedenza.

Ma la piccioletta barca naviga su un mare di porpora, insanguinato di ideali. Il liquido rosso, con il tempo, per capillarità, risale fino ad affondarla completamente, a farla scomparire nel suo poco profondo abisso.

Lo “Slow” di Fatjon Nurcellari è nuovamente una piccola storia di emigrazione.

Emigrazione non da una nazione ad un’altra, e nemmeno da una città a quella successiva, ma un’emigrazione dolce che va, semplicemente, da un posto all’altro. Tutti guardano in camera, tutti vengono fotografati e assemblati in un istante specifico che si alterna al precedente ed al successivo come se si trattasse di diapositive di famiglia che nessuno ha mai voluto guardare, fino ad oggi.

Etude di Klea Mani è una provocazione, di quelle scivolose e ansimanti.

Una provocazione che gioca sulla sottile linea di demarcazione che separa la vita e la morte; la vita evocata dal corpo teso e prosperoso della artista e la morte delle anguille con le quali lei gioca e tenta di sconvolgere il fruitore. Una contraddizione in termini, come la sua terra, zona pacifica abitata da pacifiche persone che, tuttavia, hanno sempre dovuto convivere con il viscido serpeggiare della notte più nera, quella che oscura il mondo: la guerra.

“Ed è subito sera”, disse un poeta dalle italiche sponde, e rispose un musicista, proprio dall’altra parte del mare, con il suono di un violoncello strozzato e di un pianoforte pazzo e struggente.

Feim Ibrahimi, l’Artista del Popolo, il compositore dalla acuta sensibilità protesa del tutto al futuro, ha accolto e rielaborato alcuni versi di Salvatore Quasimodo e li ha messi in musica, in una piccola suite che lui stesso ribattezzò “dialogo”.

In questo video andiamo alla scoperta degli esecutori moderni di quell’opera che parla così bene di due nazioni che, ogni giorno, si guardano e non si toccano mai.

Gli artisti albanesi che hanno partecipato al progetto hanno fornito il proprio contributo originale, imprimendo una forte decelerazione al nostro modo di concepire l’arte e la vita, ci hanno voluto costringere a guardare con attenzione ciò che avviene nell’infinitamente breve.

L’Albania non vuole anticipare i tempi ed anche se i tempi dovessero arrivare in ritardo, a lei non dispiacerebbe affatto.

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