Mercato unico digitale

Antonio Preto (Agcom): ‘Stesse regole per broadcaster e OTT’

di Antonio Preto, Commissario Agcom |

L’intervento del Commissario Agcom Antonio Preto al Dibattito sul Mercato Unico Digitale ‘Going Local 2015’ del 13 luglio alla Rappresentanza della Commissione Europea di Roma

La Commissione sta procedendo con il processo di ReFit della Direttiva SMAV, un testo che già dopo 5 anni è molto vecchio, anzi forse era già vecchio quando è stato concepito, dato che la direttiva 2010/13/UE rappresenta solo il testo consolidato di un’altra direttiva del 2007 (direttiva 2007/65/CE). La direttiva SMAV contempla e distingue solo i contenuti trasmessi mediante televisione e non disciplina la distribuzione dei contenuti audiovisivi su Internet. Per un testo del 2010 sembra assurdo, ma è così.

Nel mercato unico digitale, la televisione tradizionale, la cosiddetta “sofa tv”, non può restare l’unico media regolamentato. E i giganti del Web non possono più rimanere fuori dalle analisi di mercato. D’ora in poi, le regole non potranno che riferirsi a tutti gli attori in campo, ma considerandone allo stesso tempo l’influenza sui mercati nazionali ed europei. D’altra parte, il settore audiovisivo è percorso da due macrotendenze che ne stanno alterando i confini e gli equilibri: la convergenza e la globalizzazione dell’offerta dei contenuti. Si tratta di un cambiamento bottom-up, una trasformazione che è figlia dell’innovazione tecnologica e della rivoluzione digitale e che passa attraverso nuovi prodotti e servizi, accordi e fusioni che modificano sia la tipologia e la qualità dell’offerta che le modalità di accesso alle piattaforme e ai contenuti. Pensiamo ad esempio al Quadruple play che oggi, finalmente, si sta affermando anche in Italia con accordi commerciali tra telco e broadcaster.

I dati parlano chiaro: il consumo di contenuti audiovisivi online ormai è quasi la metà del traffico complessivo sulle reti broadband e ultrabroaband. E questi contenuti sono creati da una molteplicità di player: non più solo broadcaster, editori e major ma anche OTT e semplici utenti – i cosiddetti prosumer.

Ecco perché la convergenza tecnica dei media richiede una regolamentazione uniforme con un approccio olistico, anche alla luce dei nuovi operatori del mercato interno e dei Paesi terzi. Questi ultimi, in particolare, non sono assoggettati ad alcuna normativa dell’Unione Europea in materia di mezzi di comunicazione. E ciò crea condizioni di concorrenza diseguali e differenze inaccettabili nella tutela dell’utente. Solleva, inoltre, nuove questioni relative all’accesso, alle modalità di diffusione e alla rintracciabilità dei contenuti, a prescindere dal tipo di media.

Per queste ragioni ritengo sia adeguato l’approccio della Commissione europea che va verso una profonda modifica dell’intero quadro normativo, creando un vero level playing field. In questo contesto, vanno riviste non solo la direttiva sui servizi media audiovisivi ma anche le altre disposizioni in materia di comunicazioni elettroniche (ad esempio il pacchetto Telecom, le direttive sul commercio elettronico e sul diritto d’autore) e l’approccio tenuto verso le piattaforme. Auspico che le modifiche riguarderanno anche le norme in materia di rintracciabilità e di accesso non discriminatorio alle piattaforme, per i fornitori, i creatori di contenuti e gli utenti, ampliando il concetto stesso di piattaforma. Agcom sta contribuendo attivamente, anche nell’ambito dell’ERGA, alla revisione delle regole: la sfida della convergenza fa parte del nostro DNA e da anni è al centro delle nostre attività di studio e di co-regolazione.

Ma entriamo nel merito di quelle che considero le priorità: le condizioni di parità, le risorse, i minori, la promozione dei contenuti europei, il pluralismo e il mercato unico digitale. Rispetto alle condizioni di parità per tutti i servizi media, il quadro tracciato da Asstel nel 2014 descrive un’economia abilitata dalle telecomunicazioni in Italia che ha superato il giro d’affari delle telecomunicazioni stesse: 35 miliardi per gli OTT contro i 32 miliardi delle telco. Broadcaster e OTT competono oramai direttamente, sullo stesso schermo. Sempre nel 2014 Ericsson rileva che tra gli Internet user italiani il consumo di Web TV ha raggiungo il consumo di tv lineare! Nell’attuale scenario, OTT e broadcaster non hanno ragione di sottostare a regimi normativi differenziati. Tanto più se gli OTT fungono da intermediari per la diffusione online dei programmi dei broadcaster. I dati del MAVISE rivelano che la maggior parte dei servizi media online è fornita tramite piattaforme come YouTube e xBox. La competizione è sul servizio: la fornitura di contenuti.

Uno dei punti centrali dove si crea la distorsione di concorrenza è il concetto di responsabilità editoriale. Ma com’è cambiato nell’era della convergenza? Ai sensi della direttiva SMAV, i broadcaster sono responsabili per i contenuti video che forniscono. Non così gli OTT, che sono invece sottoposti al regime molto meno stringente di responsabilità della direttiva e-commerce. A mio avviso, più che di responsabilità si dovrebbe parlare di un regime di “irresponsabilità”…  Gli OTT, inoltre, non esercitano un controllo “preventivo” sui contenuti – dato che sono ormai user generated – e intervengono semplicemente sulla loro organizzazione e presentazione, tramite gli algoritmi e la profilazione dell’utente. In questo modo, comunque, gli OTT esercitano un controllo sull’accesso ai contenuti e sulla loro visibilità. Non dimentichiamo, inoltre, il controllo “economico”. Per inserire la pubblicità nei video su YouTube, l’utente deve rispondere a determinati criteri (frequenza nel caricamento dei video, un certo numero di visualizzazioni, rispetto del copyright…).

Ecco perché dovrebbe essere rivista proprio la definizione di “fornitore di servizi media audiovisivi”, che a mio avviso dovrebbe ricomprendere tutte quelle entità commerciali la cui attività principale è la distribuzione di contenuti al pubblico e la vendita di pubblicità da questa derivante. Il fatto di fornire servizi attraverso un algoritmo e non attraverso l’attività umana non deve poter esimere dal rispetto di standard legislativi.

La produzione di contenuti nuovi anche attraverso l’utilizzo di prodotti già esistenti, invece che mera prestazione di servizi, potrebbe dunque costituire il discrimine per identificare la responsabilità editoriale.  La concorrenza effettiva, infine, e non i differenti business model o le differenti tecnologie, dovrebbe definire il livello di regolazione e determinare il miglior livello di protezione del consumatore nell’ambito delle piattaforme. Sul tavolo valuterei due opzioni: o la responsabilità editoriale non dovrebbe più essere componente essenziale della definizione di fornitore di servizi media audiovisivi oppure andrebbe modificata chiarendo che ogni forma di controllo sul contenuto, anche se esercitata ex post comporta responsabilità editoriale. Mi riferisco in questo caso quando un singolo file di contenuto è stato caricato nel catalogo, anche da un terzo, e il fornitore di servizi è stato informato o quantomeno è consapevole dell’antigiuridicità della pubblicazione.

In termini di risorse, la pubblicità rappresenta la risorsa per eccellenza del settore delle comunicazioni. E quella online cresce a tassi inimmaginabili fino a poco tempo fa per tutti gli altri mercati pubblicitari: negli ultimi cinque anni, è praticamente raddoppiata! Certo, strozzature della concorrenza nella raccolta pubblicitaria su Internet determinerebbero effetti negativi sia sulla natura stessa di Internet, aperta e competitiva, sia sulle informazioni e notizie a disposizione di cittadini e utenti. Per questo la pubblicità rappresenta un’opportunità per la concorrenza, ma può anche essere un rischio per l’indipendenza editoriale. L’avvento della televisione via IP richiede allora maggiore flessibilità delle norme quantitative in materia di pubblicità. Se la televisione digitale deve fare ricorso a nuovi modelli commerciali, nuovi divieti – o l’ampliamento di quelli esistenti e altre misure che influiscono sul finanziamento pubblicitario – sarebbero un ostacolo alla competitività e alla concorrenza nel settore.

I tetti oggi previsti dalla direttiva servizi media solo per i servizi lineari (20% orario) creano, dunque, un effetto di spiazzamento per i broadcaster e non hanno più ragione d’essere.

Rispetto invece all’elemento qualitativo, nell’interesse di una tutela dei consumatori – minori, anziani e categorie svantaggiate – occorre che le limitazioni qualitative imposte ai servizi di media audiovisivi siano estese a tutte le modalità di trasmissione mantenendo così un livello elevato di protezione su tutte le piattaforme.

Le varie possibilità di utilizzo offerte dalle apparecchiature ibride mettono in discussione l’obbligo di separazione tra pubblicità e programma o le disposizioni in materia di inserimento della pubblicità. Perciò la separazione tra pubblicità e contenuto del programma non ha senso se generalizzata a tutte le tipologie di media. Una vera tutela potrà essere realizzata se la pubblicità e il contenuto di programma saranno chiaramente riconoscibili e distinguibili, senza per questo dover imporre una separazione “fisica”. Le strategie pubblicitarie che si avvalgono delle nuove tecnologie (screenshot, definizione del profilo dei consumatori, strategie multischermo) sollevano, inoltre, la questione della protezione dei consumatori, della loro vita privata e dei loro dati personali. Le norme sulla privacy non possono riguardare solo i broadcaster tradizionali, ai quali oggi è inibita la profilazione dell’utente. Anche in questo caso serve un level playing field, ma delle tutele. L’utente non può essere discriminato a seconda del mezzo che sceglie per accedere ai contenuti audiovisivi. L’integrità dei servizi lineari e non lineari sulle piattaforme ibride non può essere messa in discussione.

Andando nel dettaglio, la sovrapposizione o il ridimensionamento di questi servizi dovrà essere vietata, a meno che ciò sia stata la scelta dell’utente. E nel caso di contenuti che non rientrano nella definizione di comunicazione individuale, non sia stato autorizzato dal fornitore di contenuti. Chi opera sul suolo europeo deve seguire le regole europee, anche se i dati sono conservati extra-UE, come ha chiarito un anno orsono la Corte europea di giustizia nella sentenza Google-Spain.

Parlando di tutele, massima attenzione deve essere prestata alla protezione dei minori sul Web. Oltre il 60% dei giovani italiani tra gli 11 e i 18 anni naviga online tutti i giorni e oltre il 70% lo fa con uno smartphone. Strumenti come il parental control sono superati perché i ragazzi hanno accesso diretto alla Rete senza mediazioni. I minori, d’altro canto, sono i soggetti più esposti alle insidie del web – come indica il noto affaire Google/Vivi Down – anche per la loro oggettiva difficoltà nell’attivare strumenti di autotutela. Serve un impegno concreto da parte di imprese e istituzioni. Pur nel loro ruolo che rimane centrale, le famiglie non possono essere lasciate sole a confrontarsi con le Internet company.

Le Autorità nazionali di regolazione hanno ampi poteri sul mondo della tv tradizionale, mentre sono molto più sfumati i poteri sul mondo Internet. Eppure le Anr potrebbero giocare un ruolo anche in questo ambito, data l’esperienza e le professionalità per tutelare i minori anche su Internet, laddove la legislazione – in primis quella europea – le attribuisce tale competenza.

Occorre poi estendere le disposizioni applicabili ai servizi televisivi anche ai servizi on-line, superando la nota asimmetria, soprattutto quando sono in gioco valori fondanti dell’Unione europea, come la tutela dei minori e il rispetto della dignità umana. Anche autoregolamentazione e co-regolamentazione sono fondamentali, perché permettono di reagire con maggiore prontezza agli sviluppi nel mondo, in rapida evoluzione, dei media. Attenzione però, questi strumenti devono trovare una copertura legislativa che ne garantisca l’enforcement da parte di un soggetto pubblico. La copertura legislativa non deve servire ad aumentare il “tasso di rigidità” ma a condividere valori e finalità, attraverso gli strumenti della rappresentanza politica.

Per quanto riguarda il tema della promozione e diffusione dei contenuti europei, anche il sistema delle quote di investimento va aggiornato e reso più smart, per adattarsi alle dinamiche del mercato e trovare un approccio condiviso tra vecchi e nuovi media. Quello della produzione europea è un settore che, più degli altri, ha bisogno di un riesame periodico.

Attualmente, l’obbligo di promuovere la produzione europea e indipendente è soprattutto a carico dei servizi lineari, mentre è necessario promuovere la creazione di mercati più estesi per permettere agli operatori di ammortizzare gli investimenti necessari. Servizi lineari, VOD e OTT dovrebbero tutti concorrere all’obiettivo di promuovere un’industria europea forte e competitiva per mantenere viva la “diversità culturale” del nostro continente.

L’OECD ha dimostrato che uno dei grandi freni alla diffusione di Internet è la scarsa disponibilità di contenuti “locali”, motivo per cui in Europa anche Netflix ha avuto meno successo delle attese. AGCOM ha da poco definito i criteri tecnici ed editoriali di messa in rilievo delle opere europee sui servizi di media audiovisivi a richiesta, a seguito del Tavolo tecnico appositamente costituito con gli operatori, utilizzando il metodo della coregolamentazione. Il regolatore ha l’obiettivo di creare un circolo virtuoso tra mercato dei media (tradizionali e non) e industria dei contenuti, attraverso regole armonizzate e la coregulation. L’obbligo di investimento in opere europee può diventare una fonte di vantaggio competitivo. Anche in questo ambito serve, tuttavia, maggiore flessibilità per evitare di ingessare bilanci e programmazioni. Specie in momenti di crisi. Penso alla possibilità di considerare l’ottemperanza agli obblighi di investimento su base pluriennale anziché su base annuale, garantendo maggiore flessibilità per tutti.

Dobbiamo, inoltre, favorire il rafforzamento del mercato unico, per dare competitività alle imprese europee del settore. Dal report “On-demand audiovisual markets in the European Union”, risulta che il 70% dei servizi di video on demand in Italia è riconducibile a una società americana e solo il 5% ha base in paesi europei. Il 20% è di origine italiana ma perlopiù sono catch up service[1] o branded channel[2] di broadcaster. Senza stravolgere le fondamenta del mercato unico, il principio del paese di origine deve essere aggiornato al nuovo contesto competitivo, considerando il luogo dove l’attività economica è svolta piuttosto che quello di stabilimento. Ciò metterebbe la parola fine all’elusione fiscale e regolamentare dei player globali che operano in Europa.

E infine, il pluralismo. Resta un valore imprescindibile, da garantire certamente anche sulla Rete. L’elevata concentrazione e il “winner takes all”, pensiamo su tutti a Google, che è leader nel search ma è anche proprietaria di YouTube, sono un rischio per la libertà di espressione. Per questo, l’accordo sulla net neutrality appena raggiunto anche a Bruxelles è un passo fondamentale. Ma non basta, dobbiamo garantire anche la neutralità delle piattaforme. Lo ha spiegato bene Tim Wu nel suo libro “The Master Switch” e in un recente studio sulla non discriminazione degli algoritmi. Motori di ricerca e social network controllano – di fatto – l’accesso alle informazioni e vanno conseguentemente regolati. La regolazione deve adeguarsi alla nuova realtà digitale, senza lasciare vuoti. Il diritto all’oblio è un esempio: di fatto, è una sorta di diritto alla rettifica 2.0.

Nel testo a consultazione, la Commissione individua per ogni aspetto una rosa di possibili interventi, più o meno incisivi: si va da un anacronistico mantenimento dello status quo alla modifica della direttiva SMAV, per estenderla anche agli OTT. A mio avviso, per facilitare lo sviluppo del mercato laddove questo notoriamente fallisce, un ruolo centrale può essere rappresentato dalla regolazione, che sarà chiamata a rivedere la distinzione fra servizi lineari e non lineari. Se, infatti, a seguito dell’avvento delle smart tv e dell’entrata del mondo del broadcasting tradizionale su Internet, sullo stesso schermo si troveranno servizi e contenuti che seguono regole diverse, le regole dovranno mutare sulla base dell’approccio della neutralità tecnologica. Dobbiamo inoltre essere forward looking e definire un quadro di regole future proof, altrimenti la regolazione non sarà mai al passo con i tempi e rischiamo di definire regole già superate. La dinamica del mercato è chiara. Ma serve un intervento equilibrato e deciso per tutelare pluralismo e concorrenza anche nell’era della convergenza.

La Commissione ha già avviato il processo di revisione della normativa ma senza una consapevolezza condivisa del Parlamento europeo e del Consiglio Ue per accelerare i tempi standard della procedura legislativa ordinaria. Forse un’alternativa potrebbe essere quella di scegliere la via del regolamento, almeno per talune disposizioni che necessitano di un level playing field immediato, come nel caso del Telecom Single Market. In questo modo eviteremmo i tempi della trasposizione, guadagnando in uniformità del mercato unico.

[1] Servizi che consentono di rivedere online i programmi trasmessi in tv

[2] I canali dei broadcaster su piattaforme come YouTube