usa vs cina

Analyst’s Corner. Dazi e retaliation, perché il conto lo paga il tech?

di Edoardo Fusco Femiano, Market Analyst di eToro |

In una società globale, la scelta delle due principali economie al mondo di voler competere per la definizione di una nuova global supply chain, è destinata a lasciare sul campo morti e feriti, il mondo del tech in prima fila.

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Con la stagione delle relazioni trimestrali delle società americane alle spalle, un dato è ormai assodato: come previsto da tanti (cattivi) economisti, il conflitto commerciale USA-Cina ha cominciato a incidere sulle prospettive delle società americane e di conseguenza sul futuro dell’economia globale nel suo complesso. In una società globale, la scelta delle due principali economie al mondo di voler competere per la definizione di una nuova global supply chain, è destinata a lasciare sul campo morti e feriti, il mondo del tech in prima fila.

Nel 2017 il trade deficit (la differenza tra import ed export) tra Stati Uniti e Cina è stato pari circa 375 miliardi di dollari, con gli Stati Uniti nel ruolo dell’importatore netto. Questa condizione ha spinto il presidente Trump a ritenere di avere un vantaggio in termini negoziali, ma lontani dalla politica la realtà è diversa. In termini percentuali, infatti, il 23% di quell’import rappresenta componenti per l’industria delle telecomunicazioni, il 15% componenti per computer e il 48% semilavorati, gran parte dei quali per l’industria tech. Parliamo quindi  di oltre 320 miliardi in beni e semilavorati per il settore e gran parte di quell’import è generato da imprese USA che hanno deciso di produrre in Cina.

E’ evidente quindi come le ritorsioni cinesi, le cosiddette retaliation, metterebbero sotto forte pressione la competitività di quello che oggi è il primo settore industriale americano. Le possibilità cinesi di danneggiare l’industria tecnologica americana non si fermano ai dazi: il governo potrebbe bandire la vendita di prodotti USA in Cina (Apple in primis) o bloccare accordi multilaterali in materia di assetti concorrenziali e, infine, indebolire la posizione di Trump nell’accordo sul nucleare con la Corea del Nord. Per contro, gli investimenti in Cina nel settore manifatturiero sono modesti e le vendite di prodotti finiti cinesi negli USA sono limitati. In questo senso, la politica di controllo degli FDI (Foreign Direct Investments) cinesi in USA ha da un lato limitato la presenza cinese sul mercato domestico ma, dall’altro, ridotto la dipendenza dell’economia cinese da quella americana. Le diplomazie sono da mesi al lavoro, si punta a definire alcuni elementi di un accordo di massima entro il prossimo G20 del 30 Novembre in Argentina, ma la strada sembra ancora lunga.

La realtà economica di un conflitto di simile portata comincia a trovare rappresentazione nei numeri delle trimestrali delle società del settore pubblicate in gran parte a ottobre. In questo mese il Nasdaq100, il principale indice dei titoli tecnologici americani, ha perso oltre il 12%, dando il via a una correzione del mercato azionario globale. La maggior parte delle società ha riportato buoni utili ma ha rivisto a ribasso l’outlook del 2018 e ha ridotto sensibilmente la visibilità sul business nei prossimi 12-24 mesi, attribuendo tale incertezza in larga misura all’incerta evoluzione delle negoziazioni tra Stati Uniti e Cina sul piano commerciale.

Sebbene la rivoluzione tecnologica la domanda di innovazione non sono destinate a esaurirsi, un conflitto commerciale è destinato a incidere sensibilmente sui piani delle aziende, sull’attività di ricerca e sviluppo e sulla possibilità per i consumatori di beneficiare dei cambiamenti della nostra epoca. Prima la politica accetterà questa semplice realtà, prima torneremo a occuparci di evoluzione industriale e mutamento del quadro tecnologico della nostra società.