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Amazon è vicina a impiegare più robot che esseri umani nei suoi magazzini

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l numero medio di lavoratori per impianto è al livello più basso da 16 anni, mentre la produttività – misurata come pacchi spediti per dipendente – è cresciuta di oltre venti volte.

Amazon sta raggiungendo un punto di svolta nell’automazione: nei suoi centri di distribuzione, il numero di robot è ormai prossimo a quello dei dipendenti umani. Con oltre un milione di unità automatizzate attive, tra cui bracci meccanici, robot mobili e sistemi intelligenti di smistamento, la multinazionale ha trasformato radicalmente le operazioni logistiche.

Circa il 75% delle consegne globali dell’azienda beneficia già del supporto robotico. I robot non solo alleviano il carico fisico degli operatori, ma li spingono verso mansioni più qualificate, come la supervisione remota di macchine o la manutenzione di sistemi complessi, spesso con salari superiori. I centri più recenti, come quello a Shreveport (Louisiana), mostrano i progressi dell’AI nel coordinare robot con capacità di visione artificiale, tatto e interazione umana.

Amazon sta anche testando robot umanoidi con arti e testa per compiti di riciclo, mentre una nuova generazione di sistemi guidati vocalmente è in fase di sviluppo. La strategia è frutto di un’evoluzione iniziata nel 2012 con l’acquisizione di Kiva Systems, che ha fornito la base per le attuali innovazioni.

Secondo analisi del Wall Street Journal, il numero medio di lavoratori per impianto è al livello più basso da 16 anni, mentre la produttività – misurata come pacchi spediti per dipendente – è cresciuta di oltre venti volte. Nonostante l’ottimismo dell’azienda, emergono preoccupazioni su un futuro con minore impiego umano, soprattutto nei grandi hub.

Tuttavia, Amazon afferma che l’automazione non mira a eliminare posti di lavoro, ma a migliorarli, accompagnata da programmi formativi in meccatronica e robotica per oltre 700.000 persone.

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La nuova startup di AI di Murati offre salari da record per attrarre i migliori talenti tecnici

Secondo quanto riportato da Business Insider, la nuova impresa tecnologica guidata da Mira Murati, ex Chief Technology Officer di OpenAI, si sta rapidamente affermando nel panorama dell’AI grazie a una strategia aggressiva per l’acquisizione di professionisti altamente qualificati.

La startup, il cui nome non è ancora stato divulgato pubblicamente, propone stipendi straordinariamente competitivi per attrarre ingegneri e ricercatori specializzati, offrendo pacchetti retributivi che possono superare ampiamente quelli offerti dalle big tech più consolidate.

Oltre a salari elevati, l’azienda sembra puntare su stock option sostanziose e ambienti di lavoro estremamente flessibili, al fine di incentivare la creatività e la sperimentazione in ambito AI.

Il progetto avrebbe già ricevuto ingenti finanziamenti da parte di importanti fondi di venture capital della Silicon Valley, interessati all’expertise di Murati e al potenziale innovativo del team fondatore, composto da ex membri di OpenAI e altre realtà d’avanguardia. L’obiettivo è costruire una piattaforma generalista di AI che superi le attuali capacità dei modelli esistenti, favorendo applicazioni trasversali e altamente scalabili.

Questa mossa mette in evidenza una tendenza crescente: le startup nate da ex dirigenti di aziende leader nel settore si presentano come veri e propri hub di innovazione, capaci di sfidare giganti come Google DeepMind, Anthropic e la stessa OpenAI, non solo sul piano tecnologico ma anche nella guerra per accaparrarsi i talenti più ambiti.

Il nuovo ecosistema competitivo che si sta delineando suggerisce un’accelerazione ulteriore nello sviluppo dell’AI, accompagnata da una crescente pressione sui livelli retributivi e sulle dinamiche occupazionali del settore.

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 OpenAI sta cercando di fermare le incursioni di Meta sui talenti

Un memo interno di OpenAI, trapelato e redatto dal Chief Research Officer Mark Chen, getta luce sulla crescente crisi interna dell’organizzazione di fronte all’intensificarsi delle attività di reclutamento aggressivo da parte di Meta.

Con toni emotivi, Chen paragona la perdita di ricercatori senior a un vero e proprio ‘furto in casa’, segnalando un profondo disagio e una sensazione d’impotenza.

Almeno otto esperti hanno recentemente lasciato OpenAI per unirsi al nuovo laboratorio di superintelligenza voluto da Mark Zuckerberg, costringendo i vertici dell’azienda guidata da Sam Altman a mettere in atto strategie difensive immediate, tra cui la revisione dei compensi e l’introduzione di incentivi non convenzionali.

Meta ha modificato radicalmente il suo approccio al reclutamento nel campo dell’AI, passando da tentativi falliti di acquisizione (come Runway e Perplexity) a una politica mirata di ‘buy or poach’.

L’instabilità interna del colosso social, evidenziata da una bassa capacità di trattenere talenti e da battute d’arresto tecniche, ha spinto l’azienda in una vera modalità d’emergenza. In questo contesto, Meta sta offrendo pacchetti retributivi multimilionari, talvolta nell’ordine delle nove cifre, per attrarre figure chiave come Trapit Bansal.

OpenAI, storicamente considerata una delle mete più ambite per i ricercatori in AI, si ritrova ora in una posizione vulnerabile. Il confronto fra missione etica e ingenti offerte economiche sta mettendo a dura prova la cultura aziendale fondata sul bene comune.

Con la settimana di chiusura programmata per il recupero psicofisico dei dipendenti, i dirigenti temono ulteriori defezioni. Il risultato di questa sfida non solo ridefinirà gli equilibri tra due giganti del settore, ma potrebbe trasformare le dinamiche di competizione nell’intero ecosistema dell’intelligenza artificiale.

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