Prince

Addio a Prince, l’artista che amò internet prima di tutti (ma finì per odiarlo)

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"La musica digitale non la sopporto...Quando lo ascolti, non senti nulla. Siamo persone analogiche, non digitali”, disse Prince, e forse aveva ragione

Se ne va un altro grande nome della musica in questo 2016. Se ne va Prince.

Prince Roger Nelson è stato trovato morto ieri a 57 anni nel suo studio di registrazione. Una morte ancora avvolta nel mistero, come ogni mito che si rispetti.

Lascia in eredità al mondo 39 album in studio e svariati altri lavori (molti probabilmente ne usciranno postumi) ma soprattutto è a lui che si deve forse la prima crociata di un musicista contro l’industria discografica e i suoi modelli economici e la prima dichiarazione d’amore verso il web. Di quegli amori talmente forti e prematuri che si trasformano facile in delusione.

Dopo i due album, i primi, registrati alla fine degli anni ’70, nel decennio successivo Prince pubblica un disco all’anno, un successo dopo l’altro. Una musica che difficilmente può essere incastrata in un genere preciso, che mischia soul, funk, rock, R&B, disco per creare una miscela unica, nuova, ma con radici nella storia profonda della black music e del rock classico.

Un precursore per molti versi, tanto per non abusare del termine ‘rivoluzionario’. Questo è stato Prince, che a un certo punto, a metà degli anni ’90 si lancia in una guerra senza precedenti contro la sua etichetta discografica, la Warner Bros.

Nel 1996 si definì ‘Schiavo della Warner’ – apparendo anche in pubblico con la parola ‘schiavo’ dipinta sulla guancia – e abbandono la major, cambiando il suo nome in un simbolo (il ‘Love Symbol’). Da allora per svariati anni venne indicato come TAFKAP (acronimo di ‘The Artist Formerly Known as Prince’). Fece pace con la Warner soltanto nel 2014, dopo che la casa discografica acconsentì a restituirgli, in un accordo definito ‘storico’, le registrazioni master dei suoi albume degli anni ’80, da Purple rain a Sign O’ the Times.

Con internet ebbe un rapporto di odio e amore: lo utilizzò per molto tempo, dalla fine degli anni ’90 dopo la rottura con la Warner, come strumento di commercializzazione diretta, libera dai condizionamenti dell’industria discografica. Cercò anche di sovvertire i meccanismi di produzione, lanciando il test dei pre-ordini via web (che dovevano arrivare a 100 mila) prima di partire con la produzione dei cd, e di promozione: solo attraverso il passaparola in rete, senza spot o video di lancio.

Un idillio che non durò tanto, stroncato dalla troppa pirateria che depredava la musica digitale e che spinse Prince a fare causa a una ventina di suoi fan rei di aver messo in rete bootleg dei suoi concerti. Arrivò a dire, nel 2010, che “Internet è come Mtv: una volta era di moda, adesso è superato” e a regalare la sua musica nelle edicole, in omaggio con i giornali (come fece nel 2007 con Planet Earth), o attraverso i suoi profili su Twitter, Facebook e Instagram, prima di chiuderli da un giorno all’altro.

“Ci facevamo i soldi online prima che la pirateria finisse per annientare tutto. Ora ci guadagnano solo le compagnie telefoniche, Apple e Google…è come la corsa all’oro là fuori. O come rubare un’auto. Non ci sono limiti” disse nel 2011.

Quasi impossibile trovare sue canzoni su Pandora, Deezer, Apple Music o Spotify da cui le fece rimuovere nel 2015.

Chi mi ama mi cercherà”, disse.

Chi ha cercato e cercato sa che le sue canzoni si possono trovare quasi esclusivamente solo sulla piattaforma di streaming a pagamento Tidal del suo amico e musicista Jay Z o su iTunes e SoundCloud.

“Io personalmente la musica digitale non la sopporto. Il suono diventa bit e influenza un posto diverso nel cervello. Quando lo ascolti, non senti nulla. Siamo persone analogiche, non digitali”, disse ancora il folletto di Minneapolis, e forse aveva ragione.