Contraddizioni

Abolita la censura cinematografica. Ma il vero problema è cosa circola sul web

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Il ministro Franceschini plaude alla morte della censura per i film cinematografici, ma ignora la pornografia su web accessibile ai minori e l’Agcom tace rispetto all’operato arbitrario di piattaforme come YouTube, Facebook, Google.

L’Italia si conferma una nazione strana e contraddittoria: lunedì scorso (giorno di Pasquetta), il Ministro della Cultura Dario Franceschini proclama “la fine della censura” (e viene ripreso da diverse testate giornalistiche con entusiasmo), ma sembra ignorare il libero accesso che hanno i minorenni in Italia ad ogni tipo di porcheria e nefandezza audiovisiva su internet (nel silenzio assordante di Agcom), e non spende una parola una sulla chiusura da parte di Google dell’emittente televisiva indipendente Byoblu (come se l’articolo 21 della Costituzione potesse essere interpretato arbitrariamente dagli “over-the-top”).

Procediamo con ordine: la (sedicente) fine della censura.

È una vera notizia o rientra paradossalmente tra le “fake news” (in questo caso di fonte istituzionale)?!

In sostanza, non cambia nulla, e l’annuncio roboante è degno soltanto di una comunicazione retorica ed autopromozionale. Di fatto, il meccanismo censorio era stato allentato dallo stesso Dario Franceschini, autore della riforma del settore cinematografico e audiovisivo che reca il suo nome, la numero 220 divenuta legge dello Stato nel novembre del 2016: a distanza di quattro anni e mezzo dall’avvio della riforma, si chiarisce che non è il Ministero a decidere, ma i distributori, e la Commissione ministeriale si limiterà a validare.

Anche se alcuni giornalisti si sono entusiasmati (come definire altrimenti, per esempio, Gloria Satta, che, in una paginata sul quotidiano romano “il Messaggero”, ha titolato “Censura addio, ora il cinema è davvero libero”, ieri martedì 6 aprile?!), la vera verità è altra: è stato sì definitivamente scardinato il principio secondo il quale è “lo Stato” a decidere i criteri di classificazione della censura cinematografica – la cosiddetta “revisione” – ma questi criteri erano di fatto divenuti evanescenti da molto tempo, e nella sostanza erano gli stessi distributori a definirli…

Qualcuno ha sostenuto che è andato in soffitta, da ieri l’altro, un sistema censorio che risaliva al 1913, e che, nel corso dei decenni, aveva limitato (in rarissimi casi, impedito) la circolazione di alcuni film cinematografici (senza dimentica ovviamente la parentesi buia del regime fascista). Qualcuno ha addirittura evocato il concetto di “rivoluzione” (così il quotidiano romano “Il Tempo”)! La notizia è stata segnalata, con un trafiletto di poche righe, anche dalla testata ufficiale del Vaticano “L’Osservatore Romano”, mentre il quotidiano della Cei (Conferenza Episcopale Italiana) “Avvenire” ha pubblicato un articolo, a firma di Massimo Iondini, di approccio assolutamente neutro, nel quale si ricorda che nel 1962, con l’avvio dei governi di centro-sinistra, fu varata una riforma della censura, che soppresse parecchie limitazioni e circoscrisse l’azione repressiva ai film in cui si fosse identificata l’offesa al “buon costume” (concetto quanto mai scivoloso).

La prudenza dei censori dette tuttavia origine a un nuovo fenomeno: contro i film “approvati” dalle apposite commissioni del Ministero del Turismo e dello Spettacolo (così si chiamava allora), insorsero procuratori, singoli cittadini e associazioni, le quali, appellandosi al Codice Penale, chiesero il sequestro delle opere ritenute… “indecenti”. E venne a prodursi corposa giurisprudenza…

Il caso più eclatante e simbolico è stato quello di “Ultimo tango a Parigi” (correva l’anno 1972), per il quale fu addirittura deciso dalla magistratura (con sentenza finale della Corte Costituzionale del 1976) che le pizze filmiche originarie, così come tutte le copie stampate, fossero mandate al rogo (il che non avvenne): il film di Bernardo Bertolucci (che fu privato anche dei diritti civili per cinque anni) fu scagionato da una sentenza riparatrice solo nel 1987, ed è stato persino messo in onda dalla Rai (a fine gennaio 2019 fu trasmesso su Rai2, in versione integrale, con una esaltata introduzione dell’allora Direttore di Rai2 Carlo Freccero).

Venendo all’oggi, in concreto, però, con il decreto firmato lunedì 5 aprile 2021 dal Ministro, non cambia molto, soprattutto se si ha coscienza della radicale modificazione dei paradigmi dell’economia audiovisiva, alla luce della rivoluzione web.

Fino ad oggi, un “film” – inteso come “opera audiovisiva” destinata ad una prioritaria “utilizzazione cinematografica” (ovvero “theatrical”) – doveva ottenere il cosiddetto visto di “nulla osta” ministeriale, per poter avere accesso alle sale cinematografiche.

Il sistema censorio, gestito dalla Direzione Cinema e Audiovisivo dell’ex Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibact) ormai Mic (Ministero della Cultura), aveva il potere di imporre dei tagli oppure un “divieto ai minori”, nelle due fasce dei 14 anni o dei 18 anni.

Questo “visto” era indispensabile anche per la successiva messa in onda televisiva dei film, in relazione alla cosiddetta “fascia protetta”, altro caso di “ipocrisia di Stato”: in effetti, in televisione si vedono ormai, anche negli orari di massima audience, film cinematografici e fiction televisive certamente non adatte ai minori.

Saranno i distributori cinematografici “theatrical” a classificare i film ed i divieti ai minori (6 / 14 / 18 anni)…

Il “visto preventivo” non è più obbligatorio, e lo Stato si limiterà a verificare la corretta classificazione delle opere cinematografiche da parte dei rappresentanti della cosiddetta “industria”, ovvero i distributori “theatrical”.

Sono quindi abolite le vecchie “commissioni” ministeriali, ma ne viene istituita una novella, discretamente pletorica (49 membri), la cui composizione è ancora ignota (il decreto che il Ministro ha firmato lunedì 5 non è ancora di pubblico dominio, forse perché deve ancora avere il sigillo degli organi di controllo, ovvero della Corte dei Conti), ma viene annunciato che sarà presieduta da Alessandro Pajno, Presidente emerito del Consiglio di Stato.

Dario Franceschini dichiara con orgoglio non privo di retorica: “lo Stato non potrà intervenire sulla libertà degli artisti… gli artisti tornano liberi”.

Il Direttore Generale della Dgca Nicola Borrelli, più sommessamente, precisa: “in pratica, si mette in atto una sorta di autoregolamentazione, saranno i produttori o i distributori ad autoclassificare l’opera ed alla Commissione andrà il compito di validare la congruità delle scelte”.

Prevedibile il plauso della principale associazione degli imprenditori del settore, l’Anica (Associazione Industrie Cinematografiche Audiovisive Multimediali), nella persona di Luigi Lonigro, Presidente della Sezione Distributori (nonché Direttore Generale di RaiCinema spa), che ha dichiarato: “si tratta di un cambiamento epocale – fortemente voluto dal settore stesso – che porta con sé un nuovo sistema di regolamentazione dell’industria del cinema”.

Epocale, addirittura?!

Di fatto, questo sistema determina una presunta “responsabilizzazione” (per così dire) degli operatori dell’industria cinematografica, i quali ovviamente hanno tutto l’interesse a rendere le maglie del sistema più larghe e lasche, dato che non sono benefattori spirituali ma mercanti con precisi interessi.

Secondo la nuova disciplina, le opere cinematografiche, compresi gli spot pubblicitari destinati alle sale cinematografiche, dovranno essere classificate dagli operatori nel settore cinematografico.

Le categorie sono 4: a) “opere per tutti”; b) opere non adatte ai “minori di anni 6”; c) opere vietate ai “minori di anni 14”; d) opere vietate ai “minori di anni 18”.

Il decreto stabilisce che, per i film vietati ai minori di anni 14 o 18, può essere consentito l’accesso in sala di un minore che abbia compiuto rispettivamente almeno 12 o 16 anni, nel caso in cui esso sia accompagnato da un genitore (o da chi eserciti la responsabilità genitoriale).

Per rendere esplicite le classificazioni, i materiali pubblicitari e promozionali delle opere saranno caratterizzati da un sistema di “icone” che segnaleranno la presenza di materiali sensibili per la tutela dei minori, ovvero violenza, sesso, uso di armi, turpiloquio…

Il decreto inoltre aggiorna il regime delle misure punitive (…), prevedendo anche meccanismi di tipo reputazionale con la pubblicazione online delle sanzioni.

Morte definitiva della storica “censura cinematografica”, ma che fare con la pornografia in rete, accessibile liberamente anche dai minori?

Fine del “primo capitolo”, che soccombe rispetto al “secondo”…

Che senso ha, infatti, disquisire dottamente (teoricamente e retoricamente) di “censura cinematografica”, allorquando la rivoluzione di internet ha scardinato i paradigmi storici del sistema dei media?!

Esiste forse una “censura” sul web?!

Si ricordi che la parte prevalente della fruizione audiovisiva avviene ormai attraverso la tv ed il web: il “cinematografo”, inteso come luogo di fruizione (la sala), ha ormai un ruolo marginale, almeno in termini quantitativi.

Secondo uno studio della società di consulenza specializzata Ergo Research, diretta da Michele Casula, “al cinema sono riconducibili il 2 % degli atti di visione dei film cinematografici”, anche se, precisa subito, “l’esperienza si colloca alla piramide del valore”. Così si legge nel report “Sala e salotto. Il biglietto mancato. Il cinema italiano secondo il suo pubblico”, presentato il 23 marzo 2018.

Non si deve essere genitori particolarmente sensibili, per rendersi conto di quel che “passa” normalmente sugli schermi televisivi e soprattutto, ormai, sugli schermi dei pc, dei notebook, degli ipad, degli smartphone, e sulle “smart tv”: di tutto, senza alcuna forma di controllo, senza alcuna forma di “censura”.

Sulla carta, almeno per il medium televisivo, esisterebbe anche un sistema di “protezione”, ovvero un “Codice di autoregolamentazione Tv e Minori”, firmato da Rai insieme ad altre emittenti ed introdotto nel 1997, ma che esso sia evanescente quanto inefficace è ormai evidente ai più. Quel “codice” ha istituito la “fascia protetta” tra le ore 16:00 e le 19:00, in cui le emittenti si impegnano a trasmettere programmi idonei alla visione di un pubblico di bambini, con un controllo rigido sulle pubblicità, trailer e promo mandati in onda. Un nuovo codice è stato firmato nel 2002 e approvato dalla Commissione per l’assetto del sistema radiotelevisivo ed è divenuto parte integrante della “Legge Gasparri”, così impegnando la generalità delle emittenti a rispettarlo. Anche con questo codice, viene confermata l’esistenza della “fascia protetta” dalle ore 16:00 alle 19:00, denominata “Tv per minori”, accostata alla “Tv per tutti”, composta dalla fascia che va dalle 7:00 alle 22:30. In quest’ultima fascia, si deve tenere conto delle esigenze esistenti in tutte le fasce d’età, rispettando le esigenze dei minori. A verificare il rispetto delle norme contenute nel codice, è stato istituito un “Comitato di applicazione del Codice di autoregolamentazione Tv e Minori”, composto da 15 membri di nomina ministeriale (Ministero delle Comunicazioni ora Mise) insieme all’Agcom.

Il Comitato, presieduto da Donatella Pacelli (nominata nel gennaio 2018 dall’allora titolare del Mise Carlo Calenda), non sembra comunque aver brillato per attivismo ed interventismo, e parrebbe abbia piuttosto avuto la funzione della classica italica “foglia di fico”: basti leggere l’autodescrittivo “Report delle attività svolte nel periodo gennaio 2018-febbraio 2021”.

Qualche sanzione, su questi temi, è stata effettivamente decisa dall’Agcom: per esempio 100mila euro di multa a Rai per una trasmissione di “Lost” (decimo episodio della seconda stagione) nella quale un bambino uccideva con una pistola un vecchio, ma si ha ragione di ritenere che la gran parte del flusso ovvero dell’offerta non sia sottoposto ad adeguato controllo…

Il Comitato non ha peraltro mai operato a pieno regime, e nel succitato “Report” si ha conferma di ciò: viene lamentata “la difficoltà derivante dalla mancanza di risorse economiche (…) questa criticità ha reso estremamente difficile per il Comitato assolvere agli impegni formativi e culturali adesso assegnati”. Nel 2018, il Comitato ha valutato soltanto 72 casi (!), di cui 45 archiviati (!!); nel 2019, 58 casi, di cui 41 archiviati; nel 2020, 49 casi, di cui 31 archiviati… E ciò basti.

Al di là della televisione, va osservato che non esiste alcuna forma di tutela dei minori sul flusso incontrollato di immagini audiovisive che sono ormai accessibili con un clic: l’ Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) è inerte, e si stenda un velo di pietoso silenzio sull’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Agia).

Come se il problema non esistesse.

E neanche il Ministro Dario Franceschini, evidentemente, si pone il problema. Eppure è notoriamente, anche lui… genitore.

Guarda forse poca televisione?!

È forse convinto che i sistemi di “parental control” che possono essere attivati dai genitori siano efficaci?! Ma… quanti sono i genitori che hanno il know how tecnico minimo per attivare questi sistemi, peraltro improntati a discrezionalità?!

Per lo Stato, quindi, il problema non esiste?!

Il Ministro Dario Franceschini, il Presidente Agcom Giacomo Lasorella, la Presidente Agia Carla Garlatti hanno coscienza che basta digitare la parolina magica “YouPorn”, e qualsiasi bambina e bambino d’Italia, ragazzo e ragazza, può liberamente fruire, senza alcuna limitazione, di una quantità infinita di immagini pornografiche?!

E si tratta di pornografia pesante, non quella che caratterizzava gli innocenti filmetti (cinematografici, appunto, e spesso “censurati”) di certa commedia all’italiana di “serie B” (basti, per tutti citare, il mitico “Giovannona coscialunga disonorata con onore” con la Edwige Fenech, per la regia di Sergio Martino): quella attuale e liberamente accessibile è pornografia spesso caratterizzata da approcci tipici della perversione erotica, e pedagogicamente (in termini di educazione sessuale e di rispetto dell’altro) deleteri.

Nessuno denuncia questo fenomeno dilagante.

Contraddizioni? Ipocrisia?! Strabismo?!

Altra “ipocrisia di Stato”: YouTube chiude l’emittente Byoblu, e nessuno interviene

Si tratta di un altro caso di quella che ci piace definire “ipocrisia di Stato”, ovvero strabismo culturale: si pensa alla pagliuzza (la censura cinematografica), ignorando completamente la trave (l’assenza totale di controlli del web, nel bene e nel male).

Al di là della succitata delicata questione della tutela dei minori (un problema drammatico che sembra ignorato dai più, in primis dalle istituzioni e dai “policy maker”), esiste un altro problema che rientra nel calderone della “censura” in versione digitale: il rischio di deriva censoria da parte delle piattaforme “social” ovvero degli “over-the-top”.

Il caso, sintomatico ed emblematico, è quello dell’oscuramento della piattaforma web (ma potremmo anche definirla “emittente” audiovisiva) “Byoblu – La tv dei cittadini”, un “videoblog” lanciato nel 2007 da Claudio Messora (divenuto famoso come consulente per la comunicazione del Movimento 5 Stelle), che, nel corso degli anni, si è trasformata in una vera e propria “televisione” di fatto (vanta tra l’altro oltre 200milioni di visualizzazioni video ed un archivio di oltre 2mila interviste). Una emittente televisiva eterodossa, controcorrente, eccentrica, che spesso ha dato spazio a voci fuori dal coro del “pensiero dominante”, dei media “mainstream”, del “politically correct”. Secondo alcuni osservatori critici, ha amplificato e quindi promosso tesi negazioniste e complottiste…

La notizia dell’oscuramento del canale da parte di YouTube è stata data martedì della scorsa settimana, 30 marzo, dalla stessa emittente, con un post che invitava i simpatizzanti a donare danaro per far “saltare” il canale dal web al digitale terrestre, con l’acquisizione di una frequenza: si prospettava un fabbisogno di almeno 150.000 euro, da raccogliere entro il 10 aprile. “Abbiamo la possibilità di acquistare un canale nazionale sul digitale terrestre, in una buona numerazione, a un prezzo molto al di sotto del valore di mercato. Servono poco meno di 150 mila euro, e poi Byoblu e DavveroTv (è un marchio di Byoblu Edizioni srls, n.d.r.) entreranno nelle case di tutti gli italiani”, recita l’appello. Ad oggi, Byoblu dichiara di aver raccolto 298.000 mila euro, e quindi l’obiettivo è stato ben superato. Attendiamo quindi la messa in onda sul digitale terrestre.

Affronta la questione in modo efficace Riccardo Luna oggi sul quotidiano “la Repubblica”, in un articolo intitolato “Trump, Byoblu e il (contestato) diritto dei social di espellere chi sbaglia”: perché lo Stato sta abdicando al proprio ruolo, di fronte ai “social media”?!

E perché lo Stato italiano non interviene, in alcun modo, rispetto al caso della chiusura dell’emittente indipendente Byoblu?!

Il silenzio assordante dello Stato sul caso YouTube / Byoblu

Silenzio assordante.

Scrive Riccardo Luna: “qualche giorno fa YouTube in Italia ha cancellato Byoblu, un popolare canale con oltre 500 mila iscritti. Sparito. L’accusa: aver violato le norme sulle notizie false relative alla pandemia. Punto. Nessun altro dettaglio: insistendo, si scopriva che la decisione era stata presa perché il canale avrebbe violato tre volte in 90 giorni “le norme sulla disinformazione in ambito medico relativamente al Covid-19 introdotte, nella primavera del 2020, in accordo con gli impegni presi con le istituzioni dell’Ue per contrastare la disinformazione correlata al coronavirus”. Per quali post? Per quali video? Non si sa”. Nel mirino della piattaforma sarebbe finito un servizio sul vaccino Pfizer, che ne metteva in dubbio l’efficacia…

Incredibile, ma vero.

La notizia della chiusura di Byoblu – testata giornalistica regolarmente registrata in tribunale – risale ad una settimana fa, ma poche testate l’hanno ritenuta degna di attenzione, ad eccezione de “La Verità” e di “il Fatto Quotidiano”.

Giovedì 1° aprile, Fabio Dragoni sul quotidiano diretto da Maurizio Belpietro titolava “Ideologia al potere. YouTube epura Byoblu di Messora. E gli utenti gli comprano un canale tv”; Eleonora Bianchini su “il Fatto” intervistava il fondatore Claudio Messora, in un articolo intitolato “Byoblu, canale chiuso da YouTube. Social distorce il dibattito pubblico con la censura. La sua azione è anticostituzionale”.

L’indomani Peter Gomez, sempre su “il Fatto”, sosteneva, giustamente (in un articolo intitolato “Bavaglio a Messora”), che “non può essere un algoritmo a stabilire la verità”, e conclude “cosa può essere pubblicato e cosa no, nei Paesi democratici, lo stabiliscono solo le norme approvate in Parlamento, non il colore politico di chi pubblica. Anche perché se tutto il potere viene lasciato in mano ai privati, prima o poi i privati si accorderanno con chi è pro tempore al governo. Rendendo le nostre già acciaccate democrazie una sempre più ignobile farsa”.

Di parere sostanzialmente opposto, Maurizio Crippa su “il Fatto” del 3 aprile, in un articolo intitolato “A mani nude contro le balle”, criticando l’approccio volteriano (anche se è stato ben spiegato da Alfio Squillaci su “Linkiesta”, che la frase attribuita a Voltairenon sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire” è un falso storico) di Gomez, ma lamentando anch’egli il flusso enorme di “fake news”, in assenza di controlli “statali” di sorta: “l’assedio che subiamo da parte di verità spacciate per tali e che sono invece falsità o propaganda è drammatico, e si gioca su temi enormi come la libertà d’espressione e la necessità di controllo di ciò che viene dato in pasto a platee spesso di sprovveduti (ma anche di provveduti che non lo erano: i peggiori). Dalla virologia alla politica, è una battaglia cruciale”.

Battaglia cruciale, quella sulle “bufale”, è vero: una battaglia, però, rispetto alla quale lo Stato è assente, al di là di una qualche “commissione” o “task force” che si è rivelata, nel medio periodo, sostanzialmente inutile (si pensi a quella promossa dalla ex Presidente della Camera Laura Boldrini o dall’allora Sottosegretario all’Editoria Andrea Martella, per arrivare a quella che fu istituita dalla stessa Rai, dimenticate dai più).

Un qualche esponente della destra italiana si è schierato in difesa del canale, in primis il Responsabile Cultura di Fratelli d’Italia, il deputato Federico Mollicone (componente della Commissione di Vigilanza Rai), mentre Matteo Orfini è stato il primo (in verità forse anche… l’unico), a sinistra, a plaudire per la decisione di YouTube.

Il 1° aprile, il parlamentare del Partito Democratico Matteo Orfini (già promotore della corrente Pd cosiddetta dei “giovani turchi”) ha sostenuto: “esiste una Comunicazione della Commissione Ue nella quale si chiede alle piattaforme online firmatarie del codice delle buone pratiche sulla disinformazione, di attivarsi nel contrasto alla disinformazione sul Covid. Perché, in questo caso, le cosiddette bufale non si limitano solo ad inquinare il dibattito democratico, ma rischiano di comportare gravi danni e rischi per la salute delle persone. La chiusura del canale Byoblu da parte di YouTube, di cui tanto si sta parlando in queste ore, non è dovuta ad altro che al rispetto di un protocollo stabilito insieme all’Unione Europea in caso di diffusione di video di disinformazione sul Covid, negazionismo, consigli medici privi di attendibilità. Cosa che il canale faceva. Nessuna censura, nessuna privazione della libertà di espressione. Ma semplice rispetto di una regola, concordata e decisa in sede istituzionale”.

Chi verifica il rispetto dell’articolo 21 della Costituzione sul web?

Il deputato dem potrebbe avere anche ragione, ma omette di segnalare che un simile provvedimento non può essere assunto autocraticamente (=arbitrariamente) dalla piattaforma: può essere soltanto un Autorità indipendente (Agcom?) o un Giudice (di un Tribunale!) a decidere se si tratta di esercizio di libertà di espressione o – come sostiene Orfini – di “inquinamento” del dibattito democratico.

Esiste uno Stato di diritto in Italia, anche se la sempre invocata “certezza del diritto” vacilla radicalmente, in casi come questo, e l’articolo 21 della Costituzione sembra divenire carta straccia.

Un membro dell’Autorità Garante della Privacy (certamente non schierato a destra) ha denunciato – giustamente – questa ferita per la democrazia.

Si tratta di Guido Scorza, avvocato e mediologo, membro del Garante per la Protezione dei Dati Personali, che ha scritto (sul “il Fatto” del 4 aprile): “silenziata, chiusa, imbavagliata non per aver violato una legge e non per ordine di un Giudice, ma per aver violato i termini d’uso di una piattaforma privata che pure è diventata parte integrante dell’infrastruttura globale di comunicazione e che andrebbe considerata – e, talvolta, chiede essa stessa di essere considerata – come un’autostrada dell’informazione e sulla base di una decisione unilaterale assunta da YouTube stessa, società privata fornitrice del servizio”. Segnala giustamente Scorza: “la nostra Costituzione, salvo ipotesi eccezionali, vieta persino a un giudice di sequestrare un giornale in edicola, mentre un soggetto privato può spegnere un intero canale di informazione solo perché ritiene che potrebbe diffondere – come accaduto nel caso in questione – disinformazione?”. È latente il rischio di un cappio che si stringe al collo della democrazia, nella indifferenza dei più…

Orfini ha solidarizzato con Youtube e nessun esponente della sinistra (Movimento 5 Stelle, Liberi e Uguali, Sinistra Italiana…) si è espresso a favore di Byoblu, fatta salva la dichiarazione del 2 aprile 2021 di Pino Cabras, ex M5S ora nel Gruppo Misto con “Alternativa C’è”. Ha commento Cabras: “si tratta di web tv che, quando mi hanno intervistato, mi facevano collezionare centinaia di commenti di utenti a me ostili. Vi assicuro che non è masochismo, ma solo rispetto del supremo valore della libertà di parola, quello che mi muove a difendere anche questo angolo della democrazia. Credo che siano maturi i tempi per una forte rivendicazione popolare a difesa della sostanza dell’articolo 21 della Costituzione”.

Anzi, ad esser precisi: a parte poche eccezioni (quelle che abbiamo qui citato), nessuno a favore e nessuno contro. E si rimanda a quel concetto di “indifferenza” evocato da Guido Scorza…

Formalmente, soltanto il senatore Gianluigi Paragone (senatore ex M5S e leader di Italexit) ha presentato un atto di sindacato ispettivo, con l’interrogazione con richiesta di risposta scritta del 1° aprile 2021, indirizzata ai titolari del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministero della Giustizia (atto n° 4-05220), chiedendo di sapere “se il Governo intenda chiarire se le piattaforme on line, come YouTube e Facebook, pur con le caratteristiche tipiche di queste società, dal momento in cui utilizzano la rete e le infrastrutture digitali italiane e sono fruibili da milioni di utenti di cittadinanza italiana, debbano o no uniformarsi all’articolo 21 della Costituzione (…). Diversamente, significherebbe che in Italia una multinazionale estera, monopolista di fatto, possa unilateralmente superare le norme nazionali, che garantiscono la trasparenza del dibattito pubblico, determinando uno svuotamento delle istituzioni preposte al controllo e condizionando politica e vita democratica del Paese, attraverso una selezione editoriale unilaterale delle notizie ammesse alla circolazione, censurando quanto non ritenuto in linea con i propri interessi”.

Il 25 febbraio 2021, Claudio Messora, nella qualifica di amministratore unico della società Byoblu Edizioni srls, aveva presentato un ricorso all’Agcom per “mancato rispetto dell’obbligo di pluralismo e di correttezza dell’informazione sulle piattaforme digitali”. Feedback non ancora pervenuto. Messora si è rivolto anche alla magistratura: il 15 marzo 2021, ha presentato ricorso ex art. 700 del Codice di procedura civile al Tribunale di Milano, allo scopo di far cessare la condotta, giudicata “persecutoria” dalla società, della piattaforma YouTube. L’udienza è attualmente fissata per il 5 maggio 2021.

Dopo l’oscuramento di “Byoblu” da YouTube, Facebook censura “Primato Nazionale”…

Ed è di ieri l’altro, lunedì 5 aprile, la notizia che Facebook ha censurato la prima pagina della rivista sovranista “Primato Nazionale” (mensile distribuito anche in edicola, ma testata giornalistica online quotidiana), eccellente “think tank” intellettuale vicino alla controversa CasaPound. Si ricordi che il 24 aprile 2020 una ordinanza del Tribunale di Roma aveva rigettato il reclamo promosso da Facebook Ireland Ltd. avverso l’ordinanza della Giudice Stefania Garrisi del 12 dicembre 2019, con la quale il magistrato aveva ordinato la riattivazione immediata della pagina “social” del movimento dei “fascisti del terzo millennio”. In quel caso, il Tribunale invocò  l’articolo 49 della costituzione, sostenendo che Facebook non è un soggetto privato, ma ricopre una “posizione speciale”, e quindi “deve attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri la loro violazione da parte dell’utente”.

La pagina Fb di “Primato Nazionale” vanta oltre 90.000 “mi piace”. Il direttore della testata, Adriano Scianca, ha dichiarato: “porteremo il social network in tribunale per ribadire che un’azienda privata non può essere arbitro della libertà d’espressione in Italia”. L’indomani la pagina è stata ripristinata da Facebook, senza alcuna spiegazione.

William De Vecchis, senatore della Lega, ha sostenuto che “il parlamento non può più rinviare una seria e approfondita discussione sulla censura che ormai sui social ha raggiunto una interpretazione e dimensione più discrezionale che legislativa!”.

Gianluigi Paragone (Italexit) ha dichiarato: “la chiusura delle pagine è il tentativo di imbavagliare chiunque non sia allineato. Ormai sta raggiungendo una densità pericolosa e una frequenza fuori dalla Costituzione. Questi over the top si comportano da padroni feudali e qualcuno glielo consente. Evidentemente fa bene soltanto quando ci si unisce al coro e chi prova a rovesciare il punto di vista viene etichettato con le peggiori definizioni. E se neanche questo basta si provvede alla chiusura dei canali (YouTube) come accaduto per Byoblu o delle pagine (Facebook) come accaduto al Primato”.

Hanno solidarizzato con “Primato Nazionale”: il leghista Claudio Borghi; l’eurodeputato di Fratelli d’Italia Vincenzo Sofo; Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia (ma dimessosi da parlamentare nel 2019); Paolo Becchi, il filosofo già considerato “l’ideologo del M5S” (Movimento che ha lasciato nel 2015)…

Vittorio Sgarbi, deputato ex Forza Italia ed ora nel Gruppo Misto: “il Primato Nazionale è una rivista bellissima, con una composizione e un’articolazione di interventi di grande efficacia. L’azione che hanno fatto dovranno rimangiarsela, perché il loro comportamento è privo di ogni logica: ognuno ha il diritto di parlare e scrivere”.

Silenzio, anche in questo caso, da parte dell’Agcom.

Eppure, non può essere YouTube o Facebook o Google o altro “social media” ad arrogarsi il diritto di decidere cosa si può e non si può dire: le tesi espresse da/su Byoblu o Primato Nazionale potrebbero essere ritenute sgradevoli o finanche “rivoltanti” da chicchessia, ma non è quel “chicchessia” (nemmeno se è socio del plutocratico club delle Gafam!) a poter decidere se è lecito che possano essere divulgate o meno.

Lo strapotere delle piattaforme social multinazionali non può bypassare le funzioni istituzionali dello Stato nazionale.

Fatta salva l’ipotesi che lo Stato italiano voglia appaltare a Facebook & Co. una novella versione dell’orwelliano Ministero della Verità.