SOCIAL NETWORK: in Egitto, Tunisia e Sudan spie e servizi segreti scrutano le reti sociali per reprimere le rivolte

di Flavio Fabbri |

VINTI

Inutile nasconderlo, le partecipate e drammatiche proteste di piazza che in questi ultimi giorni hanno sconvolto l’Egitto, la Tunisia e il Sudan, hanno preso un po’ di sorpresa la sonnolenta opinione pubblica occidentale e, in un certo qual modo, anche i Governi dei Paesi più ricchi. Il Nord Africa è da tempo considerato una regione tranquilla e avviata ad uno sviluppo industriale concordato nelle linee guida dell’Organizzazione Internazionale del Commercio. Gli ultimi avvenimenti però ci dicono che non è così.

Le reti sociali, i siti di social network e microblogging, la blogosfera tutta, hanno avuto una parte preponderante nell’organizzare e nel gestire le manifestazioni in Egitto e negli altri Paesi coinvolti dalle sommosse popolari. I Governi locali lo hanno capito subito e il presidente egiziano Hosni Mubarak, emulato dal collega tunisino Ben Ali, non hanno perso tempo ad ordinare di staccare la spina a Internet. Impedire l’accesso al web è stata la prima preoccupazione degli esecutivi e la caccia ai blogger è praticamente partita subito, se non in anticipo in taluni casi.

Secondo fonti di intelligence americane, riportate stamattina dalla Reuters, il lavoro delle spie e dei servizi segreti egiziani, tunisini e sudanesi, è cominciato molto presto rispetto allo svolgersi degli eventi. Twitter, Facebook, YouTube e moltissimi blog politici sono stati monitorati costantemente da agenti di polizia infiltrati come ‘amici’, per seguire da vicino gli scambi di informazioni tra tutti gli utenti protagonisti delle rivolte, militanti politici o semplicemente simpatizzanti.

Forse l’opinione pubblica occidentale non ha compreso bene quanto la società civile di Paesi considerati ancora come delle ex colonie sia ormai immersa in Internet, al pari della nostra, se non di più in alcuni casi. I giovani, che sono la maggioranza della popolazione in Egitto, Tunisia, Sudan e Paesi limitrofi, hanno voglia di dire la propria opinione su cose che riguardano il loro futuro, hanno voglia di cambiare l’ordine politico che li tiene sotto gioco da troppo tempo. Il web è strumento di comunicazione politica, sociale, culturale, emotiva e civile. Una cosa che il potere sa bene e che cerca in ogni modo di reprimere. Emblematico è il caso del giornalista egiziano Wael Ghonim, uomo marketing di Google nel paese africano, rapito, malmenato e interrogato per 12 giorni dai servizi segreti di Mubark, perché blogger e attivista politico, appena ieri liberato nelle immagini mandate in mondovisione su YouTube.

E’ palese e sotto gli occhi di tutti che, in certi Paesi, chi ha scelto la strada della militanza politica sul web mette quotidianamente a rischio la propria vita“, ha affermato alla Reuters Tim Hardy, ingegnere informatico del celebre blog Beyond Clicktivism.

Per Mark Hanson, responsabile social media strategy del Partito Laburista britannico: “Non bisogna girare la testa di fronte a tali realtà, i social media sono sempre più spesso nel mondo oggetto di politiche repressive, dobbiamo invece fare di tutto per cambiare questo stato di cose ed usare le reti sociali per comprendere i malumori della società civile e risolvere i problemi“.

Rispettabile opinione, che però contrasta con quanto accaduto proprio a un paio di mesi fa, quando le proteste studentesche di Londra presero in contropiede il Governo di sua Maestà e obbligarono la polizia e gli agenti ministeriali a poco pulite operazioni di ‘monitoring’ dei principali siti di social networking. Tutto il mondo è Paese, si dice sempre, e anche in questo caso le priorità dei Governi non sono le stesse dei loro popoli, in Nord Africa come in Europa. Per fortuna che nel mezzo, ora, c’è il web e forse le cose potranno cambiare.