Troppe Authority? Il caso AgCom

di di Raffaele Barberio |

Costi elevati, eccessi di personale, ruolo della politica, mentre su tutto pesa il futuro del Single Market. Queste Authority sono un lusso?

Italia


Raffaele Barberio

In Italia, si sa, non ci facciamo mancare niente e quando si parla di arbitri, regolatori, terzietà, noi che siamo litigiosi e sempre pronti a ricorrere al contenzioso, riusciamo anche a strafare.

Parliamo delle Authority, se non si è ancora capito, e va detto subito che in Italia ne abbiamo ben 13. Per ogni gusto e in tutti i settori possibili. Con mandati da 2 ad addirittura 7 anni.

Un’eternità che rischia di far nidificare qualunque Presidente o Commissario sul mercato di riferimento sul quale è chiamato ad intervenire, col rischio di trasformare benevolmente le ordinarie relazioni istituzionali in consuetudini cameratesche tra vecchi amici.

Eletti o nominati dal Parlamento, dal Capo del governo, da ministri competenti a seconda dei casi, le Authority dovrebbero forse essere oggetto di una nuova riflessione sul loro ruolo.

 

 

13 Authority sono certamente un numero esorbitante

 

Non perché all’estero non ve ne siano, ma perché hanno spesso meno personale, minori costi e, quel che più conta, un’efficienza operativa che in Italia, almeno in qualche caso è sconosciuta.

Si consideri che qui da noi l’AgCom definisce i prezzi delle linee telefoniche tra operatori di Tlc (quelle che regolano il mercato per intenderci) a posteriori.

Come dire che si definiscono oggi i prezzi di mercato del triennio passato: un ritardo che, nonostante le buone intenzioni non è stato mai colmato per anni.

Difficile immaginare investitori esteri interessati alle reti in banda larga e ultra larga o in fibra ottica lieti di poter investire in un Paese come l’Italia, senza alcuna certezza sui possibili ritorni di mercato ovvero senza alcuna possibilità di pianificare gli investimenti, dal momento che non sono noti i prezzi di mercato in vigore.

Provate a sedervi al tavolo di una bella trattoria romanesca sul Lungotevere o ai Navigli milanesi per ordinare un bel piatto di fettuccine. Scegliete in base al menu che vi presentano gli stessi ristoratori e di fianco a ciascuna voce dei primi troverete di certo il prezzo.

Poi immaginate che a fine pranzo vi aspettate un conto, che però è del tutto diverso da quello che vi viene presentato: “Ci scusi signore, ma mentre lei era impegnato a mangiare le sue fettuccine, i prezzi del menu sono cambiatisiamo spiacenti ma questa è la regola della casa“.

In questo caso vi guarderete bene dal ritornare in quella trattoria, ma il problema è che gli investitori esteri questi calcoli li fanno prima e se non trovano certezze su un mercato nazionale, non hanno alcuna difficoltà a dirottare i propri investimenti in altri Paesi.

Questa è la ragione per la quale non si trova un solo commento positivo di investitori internazionali sul mercato italiano, né vale la considerazione che le nostre telecomunicazioni siano quasi tutte straniere (la svizzera Fastweb, la russa Wind, la cinese H3G, l’inglese Vodafone), con la sola eccezione di Telecom Italia, ancora in parte italiana.

La presenza (vorrei aggiungere per fortuna) di queste società estere non prova alcunché, perché esse, come Telecom Italia, accusano una difficoltà endemica ad investire, non solo e non tanto per le stretta recessiva che le tramortisce, ma anche per la scarsa certezza regolatoria, che impedisce a ciascuna di esse di programmare una presenza realmente competitiva sul mercato.

E così alla competizione di mercato si sostituisce la competizione a suon di carta bollata.

Alle regole della fair competition si sostituisce il ricorso al TAR e il successivo appello al Consiglio di Stato.

In questo contesto lo stesso regolatore AgCom, che dovrebbe fissare le regole, è vittima di se stesso, perché alla fine è costretto ad ammettere che questa o quella decisione è presa non in funzione di coerenti valutazioni della propria struttura istituita proprio per regolare il mercato, ma in ottemperanza alle disposizioni di questa o quella autorità giudiziaria.

 

 

I costi

 

Per non parlare dei costi delle Authority: eccessivi sia per Presidenti (nello scorso anno 302.937 euro lordi all’anno per il presidente AgCom, 311.658 euro lordi per il Presidente Antitrust, “solo” 260.986 euro per il Garante Privacy) e commissari (272.643 euro all’anno per AgCom), ma in molti casi per gli stessi dirigenti, che nel caso di AgCom possono arrivare a 200.000 euro lordi. Per finire con le segretarie che in AgCom possono arrivare anche a 80.000 euro lordi.

Oggi sappiamo che a seguito delle decisioni assunte da Matteo Renzi in materia di retribuzioni pubbliche di fascia alta, quegli stipendi saranno limitati, quando in eccesso, al tetto dei 236.000 euro per i Presidenti (di tutte le Authority), con una riduzione proporzionale per tutti i Commissari.

Nel caso di AgCom, poi, i membri del Consiglio godono di uno status protocollare identico a quello dei Sottosegretari di Stato: sino allo scorso anno auto blu, con doppi turni di autisti, con tutto ciò che quello status comporta.

Insomma, il rischio di spreco senza giustificazioni è dietro l’angolo, tanto più se si considera che altrove in Europa Presidenti e Commissari vanno quasi sempre a lavorare presso le proprie Authority con la propria auto o con i mezzi pubblici.

 

 

La politica

 

Certo, qualcuno osserverà, non senza ragione, che di Authority non si può fare a meno, ma l’idea che le nomine di organismi del genere siano tutte o quasi di emanazione partitica lascia di stucco.

In Italia le nomine di Presidenti e Commissari di Authority sono state spesso viste come assegnazioni di “posti al sole“.

Nomine di provenienza politica, con i partiti pronti a piazzare i propri uomini in nome della fedeltà piuttosto che della competenze; in non pochi casi come opportunità di risarcimento per coloro che non avevano trovato posto in Parlamento, spesso in assenza o quasi di competenze di settore.

Naturalmente il ruolo della politica pesa sia quando è forte, sia quando è debole.

Quel mondo della politica che ha determinato le nomine di appena due anni fa in AgCom oggi non esiste più ed è stato scardinato dai sommovimenti che hanno rimescolato le carte in Parlamento, consegnandoci un’istantanea degli equilibri del Paese del tutto differente.

Una realtà questa che pesa molto sull’attuale composizione.

Il presidente Cardani è stato nominato dall’allora Presidente Monti (di cui era fedelissimo collaboratore ai tempi in cui quest’ultimo faceva il Commissario Europeo a Bruxelles). Oggi il partito di quel Presidente del Consiglio (che in quei giorni veniva ancora da tutti accreditato come possibile successore di Giorgio Napolitano al Quirinale) ha un peso del tutto irrilevante e per la verità poco si sa anche del senatore a vita Mario Monti.

Il Consiglio AgCom composto da 4 membri aveva una configurazione ben precisa: 2 di emanazione PDL, 1 PD, l’altro UDC.

Oggi il PDL non esiste più, esiste Forza Italia che è accreditata come terza forza del Paese e che per questo motivo non dovrebbe avere il 50% della composizione del Consiglio; il consigliere indicato dall’UDC di Casini fa riferimento a un’area politica che solo negli ultimi mesi sembra essersi ricomposta (dopo la creazione di NDC e di un nuovo centro), quantomeno temporaneamente, infine il partito di maggiorana relativa ha un solo rappresentante (peraltro nominato da questo Parlamento in sostituzione del collega dimissionario).

Insomma un consiglio debole quantomeno a rappresentatività e a poco valgono le considerazioni di facciata sulla terzietà del ruolo.

 

 

Il ruolo, i tempi, la prospettiva

 

AgCom ha assegnata una missione certamente complessa.

Ha poteri amministrativi e regolamentari sui settori delle telecomunicazioni, dell’audiovisivo, dell’editoria e dei servizi postali.

Un bel pacchetto di competenze, si dirà.

Ma a questo proposito occorre segnalare che in Paesi come Spagna e Germania le Authority equivalenti ad AgCom (rispettivamente CMT e BnetzA) controllano, vigilano e regolamentano tre settori enormi come telecomunicazioni, energia (gas ed elettricità) e trasporti.

Un accorpamento non irrilevante e tutto sommato coerente, che guarda all’insieme delle infrastrutture con un approccio olistico.

Va qui ricordato che qualche anno fa, l’allora ministero delle Attività Produttive aveva avviato una graduale aggregazione di competenze tra i tre settori in oggetto, raggruppandoli in un’unica direzione generale: un processo interrotto quando la contingenza politica impose il distacco dei trasporti per dar luogo all’apposito ministero guidato da Maurizio Lupi.

La domanda che sorge spontanea è: perché in Italia non si va ad un accorpamento delle tre Authority AgCom, Autorità dell’Energia e Autorità dei Trasporti in una sola struttura, evitando duplicazioni di funzioni e realizzando un’economia sui costi davvero ragguardevole.

Perché mantenere tre strutture con analoghe funzioni su terreni attigui e spesso soggetti alle medesime regole, dinamiche di mercato, esposizione all’interesse degli investitori, riferite allo stesso universo di consumatori?

Un altro aspetto di criticità è rappresentato dall’eccessiva lunghezza del mandato.

Sette anni sono troppi in un settore che cambia radicalmente tecnologie, modelli di business e dinamiche competitive con la velocità della luce.

In Europa la media è di 4-5, anni, il che vuol dire che numerose Authority europee si assestano sui 3-4 anni.

Ma su tutto pesa come un macigno, in senso positivo intendo (almeno dal mio punto di vista), il cambiamento di passo dell’Europa.

In seno alla UE si è finalmente capito che non vi può essere futuro dell’Europa senza il mercato unico.

Non si può competere alla pari con società extraeuropee ed OTT sui mercati delle telecomunicazioni, dell’audiovisivo e dei contenuti digitali con la frammentazione di regole attualmente in vigore.

E la frammentazione di regole è determinata dalla frammentazione delle competenze regolamentari che risiedono in Europa in 28, dico 28, distinte Authority di regolamentazione: una obbrobriosa ottusità che fa felici tutte le imprese extraeuropee che oggi stanno lavorando per lo scardinamento dei pochi vincoli europei a loro imposti (che rimangono invece in larga scala e numerosità per tutte le imprese europee) e per la conquista dei mercati del vecchio continente per la quale è necessaria la messa in crisi delle imprese europee.

Un’Europa in corsa per il Single Market non può che determinare competenze di regolamentazione uniche in capo ad una sola Authority di settore che copra l’intero continente (magari articolata con gruppi di lavoro nazionali, ma niente di più).

Le attuali autorità regolatorie nazionali possono accompagnare questo cruciale ed inevitabile passaggio con dedizione e collaborazione, con la consapevolezza che si tratti di un obiettivo ineludibile e già all’orizzonte.

Oppure opporvisi.

Ma è una strada senza uscita.

Dipende da loro, dal modo con cui interpreteranno il proprio ruolo, l’interesse del Paese, lo sviluppo e il rilancio del nostro continente.

Una cosa sembra chiara: non c’è alternativa.

Si può accompagnare il futuro o restare aggrappati al passato, soccombendo con esso.