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E se la mossa del cavallo la facesse la Rai?

Italia


E se, una volta tanto, fosse proprio dalla Rai a venire la mossa del cavallo? Se fossero i giornalisti, gli eredi del pietrificato partito Rai, a spiazzare avversari palesi e occulti del servizio pubblico?

 

Se si comprendesse che ogni arrocco sarebbe del tutto inefficace in un momento in cui, come denuncia Susanna Camusso “l’autosufficienza della politica” rende del tutto superflua ogni blandizia o minaccia da parte di chi può orientare la comunicazione?

 

Mi piacerebbe tanto ma non ci conto. Sarebbe bello che  proprio i giornalisti della Rai, percependo più e meglio di altre aree professionali, la progressione dello tsunami digitale, ragionassero su un futuro in cui ritrovare una coincidenza fra l’interesse del paese e quello della categoria.

 

I momenti in cui questa coincidenza si realizzò sono proprio le  fasi migliori, sia dell’azienda che dell’Usigrai. Pensate alla mossa di fine anni ’80, quando l’allora direttore digitale, apre l’azienda all’opposizione del PCI, allargando la base sociale della terza rete, oppure quando, qualche anno dopo, l’estensione dell’informazione regionale, con la terza edizione della TGR, rafforzò in quantità e qualità il servizio pubblico. Furono quelle grandi stagioni.

 

Ma ora? Ora la divaricazione fra il senso comune del paese e la parabola dell’azienda pubblica si accentua giorno per giorno. E in questa divaricazione i giornalisti diventano propaggine della casta e non più  ambasciatori dell’opinione pubblica. Il silenzio, se non il sarcasmo seguito al pedaggio imposto dal governo alla Rai di 150 milioni la dice lunga.

Ma come forzare l’assedio? Proviamo a pensare come oggi la Rai potrebbe ritrovare il bandolo di una matassa, al cui fondo ci potrebbe essere una nuova mission nazionale.

 

1)   Rai Way: rovesciamo il tavolo. Proponiamo noi di vendere la società, sfidando il governo e la Cassa depositi e prestiti  a costituire una società nazionale del trasporto segnale dove conferire il 75% di Rai Way, valutabile attorno a 500 milioni. La Rai manterrebbe una golden share per tutelare le sue necessità. Il paese avrebbe un traino per la modernizzazione dei segnali digitali, tv, telefonici e connessione individuali, la famosa Tripla A. Con i soldi ricavati si trasforma la fabbrica della Rai, digitalizzando produzione e servizi, più che la distribuzione e  investendo sulle sedi come broker di servizi territoriali.

 

2)   TGR: invece che ridimensionare, cambiare radicalmente le sedi, secondo un modello che tempo fa fu elaborato dall’allora direttore generale del banco S. Paolo Modiano: ogni sede leader del mercato della propria regione, motore dello sviluppo complessivo, pubblico e privato, anche in termini di concorrenza interna. Ognuno diventa leader della propria regione e lotta per il primato nazionale. La sede Rai diventa il centro di produzione e promozione della transizione al digitale della filiera TV  locale, dei servizi  delle multi utility, delle governance territoriali degli enti locali.

 

3)   La Rai gioca la carta del servizio pubblico della porta UBS, puntando a diventare il service provider del mercato in protocollo IP. L’obiettivo è fronteggiare la prossima invasione estera del mercato del video streaming, come hanno annunciato Google, Amazon e la stessa Sky. Per fare questo, rimettiamo in movimento 4 canali in digitale terrestre, offrendo al governo lo spazio di manovra per sistemare lo spettro elettromagnetico, con le frequenze che affidiamo in cambio di 150 milioni alla Cassa Depositi e Prestiti. L’Italia è alle soglie della procedure di infrazione per il disordine delle frequenze coordinate. La Rai promuove il riassetto, spostando in protocollo IP, e soprattutto su terminali mobili 4 canali (due dei ragazzi, uno news, e uno di mobilità intelligente,  arte, ed enogastronomia).

 

4)   Riunificare la produzione di News, un unico news gathering, che coincide con Rai news 24, 3 desk di messa in onda, un canale a cadenza istituzionale, uno per locale e sport, uno di  flusso.

Costruire il più grande news gathering nazionale, che assicuri il gocciolamento delle notizie minuto per minuto e presidiare le informazioni locali per confermare un primato esclusivo del servizio pubblico.

 

5)   Radio e i 4 canali video diventano la fabbrica del mobile italiano, con l’ambizione di intercettare la transizione dallo schermo Tv al video streaming, annunciata anche dal passaggio del calcio su computer e telefonini.

 

6)   Le memorie: la Rai diventa il difensore civico del patrimonio culturale italiano, negoziando con le istituzioni standard e algoritmi con i fruitori internazionali e assicurando un’offerta in copy left per tutte le sue teche.

 

In questa Rai il baricentro produttivo non sono i centri di produzione ma i talenti del paese. Il servizio pubblico infatti diventa impresario delle mille capacità nazionali, facendo lavorare il paese e non se stesso. Questo è il modello di un servizio pubblico che si pensa come un Fab Lab, che si mette al centro del processo di sviluppo e competizione del made in Italy, che si affianca ad ogni operatore della comunicazione in digitale.  

 

Ora però mi accorgo che devo  svegliarmi, spegnere la playstastion.

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