Web e fisco: la Ue contro gli Stati membri che incoraggiano l’elusione

di Alessandra Talarico |

La Ue, ha detto Joaquin Almunia, ha già inviato richieste di informazioni agli Stati membri che permettono l’elusione fiscale attraverso un quadro giuridico o pratiche amministrative vantaggiose. Si prefigura una componente di aiuti di Stato.

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I regimi fiscali adottati da molte aziende multinazionali – che usano stratagemmi legali e sfruttano le lacune nelle normative fiscali nazionali per pagare tasse del tutto esigue se confrontate ai loro fatturati – sono “socialmente insostenibili”, anche se non violano la legge. Lo ha affermato stamani Joaquin Almunia, vicepresidente della Commissione europea, riferendosi anche e in particolare al settore “digitale, creativo e ad altri settori basati sulla proprietà intellettuale”.

In questi settori, ha detto, “è più facile per le aziende trasferire le attività da un paese all’altro per avvantaggiarsi delle lacune all’interno dell’Unione europea”.

 

Sono moltissime difatti le web company che hanno stabilito la loro sede nei paradisi fiscali europei – Irlanda, Olanda o Lussemburgo – e che adottano pratiche cosiddette di ‘profit-shifting’ per pagare al minimo le tasse sia in Europa che dall’altra parte dell’Atlantico. Un tema che si fa sempre più caldo e che sta cominciando a guadagnare trazione anche negli Usa.

 

Ed è qui che entrano in gioco le politiche europee sulla concorrenza e sul controllo degli aiuti di Stato: “la ragione per affrontare la questione della tassazione dal punto di vista degli aiuti di Stato è semplice. La tassazione selettiva è economicamente inefficiente poiché distorce la parità di condizioni per la ripartizione dei capitali nel mercato interno”.

Inserendo la questione nella prospettiva della concorrenza, Almunia ha quindi ricordato che l’attuale situazione di elusione delle tasse da parte delle gradi corporation “mina la correttezza e l’integrità dei sistemi fiscali e – nel contesto europeo – ha diverse implicazioni indesiderabili”, oltre ad essere contraria ai principi del mercato unico.

Ecco perché, secondo Almunia, quando un numero limitato di aziende evita di pagare la quota corretta di tasse spostando i propri profitti in determinati paesi dove le leggi nazionali permettono o incoraggiano tali pratiche “si può configurare una componente di aiuti di Stato” su cui occorre andare a fondo.

Ed è per questo, ha detto ancora, che “negli ultimi mesi abbiamo inviato richieste di informazioni ad alcuni Stati membri i cui quadri giuridici o pratiche amministrative in ambito fiscale sollevano dubbi in termini di coerenza” col mercato unico.

 

Soprattutto in vista delle prossime elezioni europee, ha concluso Almunia, la via da seguire per ristabilire la fiducia nei confronti dell’Europa “è quella di mostrare in che modo intendiamo mettere in pratica i nostri valori democratici e garantire il futuro del nostro modello sociale, attraverso politiche pro-attive, non difensive, sia a livello nazionale che sulla scena globale”.

 

In Italia per contrastare i sistemi di profit-shifting è stata introdotta la cosiddetta Web Tax con la Legge di Stabilità, promossa dal presidente della Commissione Bilancio della Camera, l’on. Francesco Boccia (Pd).

Dal primo gennaio è già in vigore la parte che riguarda la tracciabilità delle aziende che vendono pubblicità online, come Google, e bisognerà aspettare luglio per quella che prevede l’obbligo di partita Iva italiana.

 

Ma la questione delle aggressive pratiche di ottimizzazione fiscale messe in atto, in particolare ma non solo, dalle web company – da Google ad Amazon, passando per Apple e Yahoo – è al centro del dibattito non solo in Europa: anche l’Ocse sta adesso lavorando a un proprio piano, nella convinzione che tali comportamenti creino danni anche nei mercati in via di sviluppo, mentre  in Israele è stata presenta una proposta di legge che prevede una tassa del 7% sui ricavi pubblicitari dei motori di ricerca.