Il cinema assediato dal Web? Cambiare policy, modelli, mentalità. Se non ora, quando?

di di Raffaele Barberio |

Italia


Raffaele Barberio

Qualche giorno fa si è tenuta a Roma, presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, la Conferenza Nazionale del Cinema.

Un’occasione importante di ascolto organizzata dalla Direzione Generale Cinema del Mibac, con l’intento di raccogliere suggerimenti operativi, per rilanciare il settore, da sottoporre al ministro Massimo Bray in occasione dell’evento che si terrà sabato 9 novembre 2013 all’Auditorium di Roma.

 

La “pigna” del cinema italiano

 

La filiera del cinema è stata in Italia sempre molto compatta e unita nel porre le proprie esigenze di finanziamento e le misure normative necessarie al settore. Essa è stata costruita (e percepita dall’esterno) come una sorta di “pigna”, chiusa in se stessa, con dentro autori, produttori, distributori ed esercenti di sale.

A far da collante la necessità di fare massa critica contro “i nemici” del cinema, nemici esterni al settore contro cui difendersi in modo compatto, con l’intento di proteggere le risorse disponibili.

Ma si è trattato di uno schema fuorviante.

Ad esempio, i produttori hanno interessi divergenti rispetto agli esercenti di sala (che possono trovare più remunerativo programmare film non italiani). Gli esercenti di sala sono spesso strozzati dalle imposizioni dei distributori che condizionano l’acquisizione dei titoli più remunerativi con titoli di poco conto o meno remunerativi, ma “protetti”, pena il rifiuto all’esercente che non accetta le condizioni. E così via. Nonostante tali differenze, si sono quasi mai distinte le esigenze del cinema italiano (finanziato da produttori italiani e possibilmente girato anche in Italia) dal mercato italiano del cinema, dove si incontrano l’offerta di prodotto (nazionale e internazionale), la distribuzione (controllata dai grandi marchi americani), le sale, le TV, i supporti fisici, il pubblico.

L’idea di un “fronte unico” del cinema, di fatto in mano ai grandi marchi internazionali, non ha aiutato le imprese italiane del settore. Il cinema italiano, e coloro che stanno dalla sua parte, si sono trovati quasi sempre nella condizione di dover stare sullo stesso versante delle grandi majors americane, nonostante le spesso divergenti posizioni di interesse.

Si è trattato degli stessi equivoci che si sono consumati in ambito di sviluppo di internet, quando si pensava che Google fosse il Nirvana assoluto, la fantasia al potere, la mano democratica della rete, finché non si è scoperto che Google (come la maggior parte delle altre Web Company americane) non paga le tasse da nessuna parte, se non in misura irrisoria e controlla oltre ogni immaginazione tutti i nostri dati personali.

Insomma chi sta dalla parte della rete non è detto che debba stare dalla parte di Google.

Anzi.

 

Dall’immobilismo alla soluzione di continuità: la svolta digitale rimescola le carte

 

Ma perché non è mai emersa una spinta diversa dell’industria del cinema in Italia?

Per molte ragioni, innanzitutto per la vocazione immobilista del settore: ma spesso chi è immobile teme forse di perdere con il cambiamento i piccoli privilegi di cui gode.

Eppure, questo stato di torpore ha registrato una prima scossa con il processo di digitalizzazione delle sale avviato nel 2008 che ha posto concettualmente in discussione i ruoli storici della filiera, primo fra tutti quello dei distributori.

La svolta digitale vuol dire innanzitutto la conferma piena della disintermediazione dei mercati e i distributori occupano proprio il segmento maggiormente soggetto agli smottamenti del nuovo regime.

Una seconda ragione è stata quella della crisi recessiva che ha posto in difensiva tutti nel settore ed ha rallentato una diversa presa di coscienza.

“Non ci sono più soldi” – è il motivetto che tutti sentiamo ogni giorno, e questo vuol dire minore liquidità, difficoltà di credito con le banche, affollamento sui tavoli di trattative dei diritti televisivi, dove peraltro 2-3 marchi fanno incetta di tutto e impongono le regole a scapito dei film italiani e dei pochissimi distributori nazionali.

Infine, chi aspira ad agguantare fondi pubblici ha trovato nella spending review il nemico che mai avrebbe voluto incontrare sulla propria strada. Ma il caso Alitalia insegna che non serve mettere soldi pubblici sul tavolo di un settore quando questo settore è privo di competitività.

A marcare lo stato di crisi, ci pensa il dato della chiusura di quasi 800 sale negli ultimi dieci anni. Se chiudono i negozi si hanno meno clienti e meno prodotto venduto e la sala, come si sa, è il punto vendita del mercato del cinema.

Ora il digitale ribalta tutti i vecchi paradigmi con l’offerta online.

 

Al cinema sta accadendo quello che è accaduto alle telecomunicazioni

 

Quanto accade al cinema è in un certo senso paragonabile a quanto accaduto in questi anni al mondo delle telecomunicazioni. Queste ultime da sempre hanno venduto servizi di traffico voce, nazionale e internazionali. Poi è arrivato internet e il traffico voce ha perso ogni valore, anzi è stato offerto quasi gratuitamente, spostando il mercato sul traffico dati. Sembrava un’operazione meccanica: sostituire un prodotto con un altro. Ma così non è stato, perché le cose non sono mai come appaiono.

Il mercato relativamente statico degli operatori di telecomunicazioni è stato circondato e assaltato dalle web company americane (Google, Amazon, Apple, Netflix & Co.) che hanno sbriciolato i loro modelli di business, anche occupando ingenti quantità di banda senza pagare un centesimo di traffico. E così, con un paradosso senza precedenti, gli operatori di telecomunicazioni che lucravano sull’aumento del traffico voce sulle reti, si sono trovati ad impoverirsi sempre di più con l’aumento del traffico dati sulle stesse reti, anche se tecnologicamente più avanzate.

Al cinema sta accadendo la stessa cosa.

Abbiamo considerato per lungo tempo Netflix come un semplice canale di vendita dei film e lo ritroviamo acquirente dei diritti mondiali del documentario pluripremiato The Square, che racconta le vicende della primavera del Cairo del 2011. Abbiamo considerato a lungo che Amazon fosse solo il più grande venditore di libri al mondo e ora lo scopriamo produttore di fiction televisive come Alpha House o Betas (ma è anche il numero 1 in Cloud, che sarà il luogo virtuale dove tutti i titoli digitali sono custoditi). Infine abbiamo sempre guardato a internet come a un canale poco attento alla qualità di immagine (la sala è sempre la sala) e viene appena comunicato per il 2014 il lancio delle trasmissioni in streaming di Netflix a 4K, ovvero con una qualità d’immagine di altissimo livello.

Insomma il contesto è già tutto cambiato e il mondo del cinema, specialmente europeo ed italiano, sembra non volersene accorgere.

Il salto è stato già consumato e i rappresentanti dell’industria del cinema italiano si chiedono se accettare o meno la spinta tecnologica, come se dipendesse da loro.

 

Cosa accadrà? Netflix è già qui!

 

Netflix ha aperto una sede a Milano qualche giorno fa ed inaugurerà il servizio italiano nella primavera del prossimo anno.

E’ un fatto simbolico di indubbia rilevanza.

Le grandi majors americane non hanno problemi con l’arrivo di Netflix. Per loro i titoli sono prodotti materiali che devono essere venduti e Netflix contribuirà ad aumentare i fatturati, specialmente con il coinvolgimento di pubblico che in caso diverso non sarebbe comunque andato in sala.

I produttori italiani si adegueranno, si dovranno adeguare. E cominceranno anch’essi ad affidare i propri titoli alla distribuzione online, anche se il processo è attraversato da molte variabili: la disponibilità di banda sulle reti, le finestre temporali per la valorizzazione dei titoli sui differenti canali ecc. Ma i produttori italiani dovranno capire come rilanciare i meccanismi di finanziamento dei prodotti nazionali. Come rendere appetibili i propri titoli assicurando loro visibilità e  distribuzione adeguati in tutti i canali: sala, pay-TV, free-TV, DVD, online.

 

E la sala?

 

Gli esercenti italiani di sale sono stati i più sensibili della industry nel cogliere la capacità dirompente della svolta digitale del cinema. Il processo di digitalizzazione delle sale è ormai un processo in fase di completamento. Ma il cambiamento è ben lungi dall’essere terminato.

La sala avrà anch’essa in futuro ulteriori grandi cambiamenti. Due mesi fa a Yokohama in Giappone, è stato inaugurato ORBI, la prima sala Hi-Tech promossa dalla nipponica Sega Corporation e dalla britannica BBC Worldwide, con la presentazione di un apposito programma promosso da BBC Earth e con l’adozione di tecnologie multisensoriali che mettono lo spettatore in condizione di esplorare gli animali ed il mondo che li circonda attraverso la vista, l’olfatto, il tatto e il suono.

In un certo senso si tratta di una soluzione mediana tra la sala tradizionale ed i grandi parchi a tema, dove il cinema è solo una parte dell’offerta. Ma il messaggio forte è che il cinema si sovrapporrà sempre più al game o meglio a una experience complessa che spinge lo spettatore a vivere emozioni e situazioni di forte personalità.

Un altro aspetto tradizionale che sarà forse scardinato, sarà il concetto di tempo ovvero la durata della narrazione cinematografica.

Siamo da sempre abituati a film di durata variabile in media tra i 90 e i 110 minuti, pur se non mancano vistose eccezioni al di sotto e al di sopra di tali soglie.

Ma l’ecosistema della comunicazione ci sta abituando, senza piena consapevolezza da parte nostra, a scansioni narrative del tutto differenti.

Internet ha già modificato i tempi di lettura, riducendo gli scritti in spazi minori, con esposizioni asciutte, fatte per chi ha poco tempo per leggere e vuole avere l’essenziale subito. Senza peraltro togliere nulla agli approfondimenti, che possono essere reperiti in altri luoghi della rete, in base al tempo che si ha a disposizione ed alla voglia o necessità di approfondimento.

Così sta avvenendo nella industry del cinema.

Allo schermo della sala oggi si associano altri schermi: la TV, il computer, il laptop, il tablet, lo smartphone, la Playstation. Una moltitudine di schermi usati da ciascuno di noi in base al luogo, alla disponibilità di tempo, al livello di attenzione disponibile, all’eventuale costo.

Nascono così le mini-serie con puntate di 12-15 minuti realizzate appositamente per il web (spesso con corpose sponsorizzazioni dei marchi globali) e viste da milioni di persone o i corti di animazione che racchiudono in pochissimi minuti una forte emozione.

Viviamo nell’era della rete e nessuno dei nuovi sistemi si sostituirà pienamente a quelli precedenti, come è sempre accaduto nella storia dei media: leggiamo il quotidiano sul tablet, ma sfogliamo anche il giornale con una “tecnologia” di 500 anni fa.

Le metriche delle nuove narrazioni arrivano oggi sino a Vine, che consente la realizzazione in proprio di messaggi video della durata di 6 secondi con pubblicazione su Twitter.

Una bella differenza, se confrontato con Via col Vento o con le quindici ore di Berlin Alexanderplatz di R. W. Fassbinder, ma senza dubbio il nuovo ecosistema ospita l’uno e gli altri.

 

La creatività è la nuova frontiera del valore

 

La nuova frontiera su cui misurarsi non sembra più essere quella della tecnologia, oggi a tutti o quasi accessibile, ma la creatività. Sarà la creatività a fare la differenza, ad assicurare quel fattore capace di creare valore. E non è un caso che la Gran Bretagna abbia dichiarato di voler diventare, entro il 2025, l’Hub mondiale della creatività. La localizzazione è stata individuata in Salford, nell’area metropolitana di Manchester (la stessa dove nacque il polo dell’industria tessile che duecento anni fa avviò la Rivoluzione Industriale), dove sono stati creati già oltre 20.000 nuovi posti di lavoro nelle industrie creative (film, musica, gaming, TV, pubblicità o design).

Anche l’Italia dovrebbe prendere questa strada.

Dovrebbe valorizzare le proprie vocazioni creative, fissare degli obiettivi temporali che trasformino le nostre classi dirigenti da avventizie a centri decisionali capaci di fissare obiettivi di lunga durata come si fa in Europa e nel resto del mondo. Senza obiettivi prefissati è difficile stabilire un passo di marcia ed è impossibile fare dei check-control per verificare quanto si è distanti o meno dall’obiettivo e con quali modalità si sta procedendo.

Senza questo non si va da nessuna parte.

Come se un’impresa si muovesse senza considerare il proprio bilancio o gli obblighi verso gli azionisti o una famiglia iniziasse a spendere senza alcun controllo e senza fissare obiettivi per mutuo, educazione dei figli, previsioni di emergenze.

E’ un requisito che non può mancare al paese, anche se purtroppo non fa parte della nostra cultura politica.

Ma dobbiamo dare una svolta, perché senza creatività non ci sarà futuro.

La creatività è l’X Factor dell’industria moderna, oltre ad essere la fonte delle migliori condizioni di vita e della crescita che ha accompagnato gli ultimi duecento anni.

Nelle economie avanzate le industrie creative registrano il 3-5% dell’occupazione complessiva e sono motore occupazionale per tutti gli altri settori.

Eppure oggi siamo meno creativi di ieri.

Da qui l’esigenza di dare nuovo impulso alla creatività, come peraltro indicato anche dalla Unione Europea.

 

Un appello al ministro Massimo Bray

 

Al ministro Bray, che è oggi tra i più impegnati uomini del governo nella ricerca di nuove soluzioni, ci sentiamo di fare una sollecitazione accorata: che il ministero da lui guidato non si occupi solo di patrimoni museali e di siti archeologici, che sia il vero tutore della Cultural Heritage che non appartiene solo al passato, perché viene costruita ogni giorno e potrà crescere solo se oggi e domani avremo una spinta dei talenti e delle industrie della creatività.

In tale contesto il cinema italiano diventa una metafora, una rappresentazione di ciò che il nostro paese è stato e di ciò che potrebbe auspicabilmente essere.

Negli anni Sessanta all’aeroporto di Ciampino atterravano Charlie Chaplin e Kirk Douglas, Frank Sinatra e Ava Gardner. Il cinema italiano era al top e raccoglieva Oscar grazie a una spinta che coinvolgeva sino agli artigiani dei set, con riconoscimenti mondiali anche per i nostri arredatori, costumisti, creatori di effetti speciali.

Poi la decadenza, sino alla desertificazione, da cui stanno però nascendo spinte di creatività significative.

Si investa nelle industrie creative. Si fissino degli obiettivi alti. Si mobilitino i soggetti che dovranno contribuire alla loro realizzazione. Si connettano le competenze e le responsabilità in un unico grande disegno nazionale.

L’Italia, caro ministro, ce la potrebbe fare e le industrie creative potrebbero essere il nuovo motore dello sviluppo.