OTT e tasse: anche a Twitter piace il ‘panino olandese’. Prima dell’IPO, tutto pronto per sfruttare le scappatoie fiscali?

di Alessandra Talarico |

In vista dell’IPO, intanto, gli analisti sottolineano che Twitter possa essere indebolita dalla mancanza di brevetti: nel suo portfolio che ne sono, infatti, solo nove, contro i 774 citati da Facebook prima della quotazione.

Irlanda


Twitter

A poche settimane dallo sbarco in Borsa, anche Twitter starebbe cercando di approfittare della strategia, già ampiamente usata da altre web company, detta del “doppio irlandese con panino olandese” (Double Irish With a Dutch Sandwich), che consiste nel trasferire i proventi del suo business verso le sussidiarie irlandesi e olandesi, per poi traghettare il tutto nei paradisi fiscali.

Il sito Valleywag – che per primo ha dato la notizia – sottolinea che la sede irlandese della società non è un ‘guscio vuoto’: impiega un centinaio di dublinesi ed è in fase di espansione. Ma, facendo riferimento a documenti ufficiali irlandesi, spiega che la scelta di aprire una sede in Irlanda, tra tutti i posti del mondo, sarebbe stata causata da motivi fiscali.

La società che dovrebbe quotarsi in Borsa il 15 novembre, non ha commentato la notizia sulla sua sede offshore e, a sua ‘discolpa’, c’è il fatto che non sta ancora “godendo i benefici del suo labirinto di strutture”, dato che secondo i dati presentati alla SEC, i primi nove mesi del 2013 si sono chiusi con perdite per 70 milioni di dollari.

Il nodo, però, è giocare d’anticipo, come ha spiegato un avvocato citato da Valleywag. “Queste strutture vanno messe in piedi quando si sta creando la (proprietà intellettuale). È quasi impossibile spostare l’IP offshore dopo che è stata creata, perciò ha senso che (Twitter abbia) la struttura sul posto in anticipo”.

 

Twitter non è certo l’unica azienda a utilizzare questa strategia per eludere il pagamento delle tasse (o minimizzarlo) nei paesi in cui operano. In Italia, ad esempio  i vari Google, Apple o Amazon, versano solo le ‘briciole’: nel 2012, secondo dati recenti, gli OTT hanno versato all’erario italiano solo 9,157 milioni di euro (5,98 se si considerano i crediti d’imposta). Più precisamente, Amazon, che opera in Italia con due società – Italia Logistica e Corporate Service – ha pagato poco più di un milione di euro. Google non ha versato tasse (anzi ha 5.454 euro di credito d’imposta) con la Technology Infrastructure e ha pagato 1,8 milioni con Google Italy srl (a fronte di un giro d’affari pubblicitario che in Italia è di 700 milioni di euro). Facebook (che secondo le stime nel 2012 ha raccolto pubblicità per 35-40 milioni) ha dichiarato 3 milioni di giro d’affari, pagando 131.037 euro con la Italy srl. Apple ha pagato 648 mila euro con la Apple Retail Italia (ma con un credito d’imposta di 3,177 milioni) e 5,529 milioni con Apple Italia.

 

Un argomento, quello delle tasse (non) pagate dalle web company, che riguarda anche gli USA – più di mille aziende americane generano 1.700 miliardi di dollari all’estero, stando a un’analisi diffusa da JP Morgan – e che ha causato non poche frizioni tra gli Stati Uniti e l’Irlanda (Leggi articolo Key4biz).

Il tema è stato dibattuto al G20 di San Pietroburgo, dove i leader mondiali hanno trovato l’accordo su un Piano d’azione per combattere l’evasione fiscale e prevenire che le multinazionali sfruttino scappatoie e paradisi fiscali per pagare delle tasse minime.

E se ne parlerà anche al Consiglio europeo del 24-25 ottobre, in vista del quale la Francia sta cercando di raccogliere il consenso degli altri Paesi Ue per la sua battaglia volta a creare nuove regole a livello europeo che consentano di tassare anche quelle web company che ricorrono a procedure di ‘profit shifting’ per evitare le imposte nei paesi europei dove vendono i loro servizi. Secondo il ministro francese dell’economia digitale, Fleur Pellerin, le piattaforme digitali dovrebbero essere regolamentate e tassate in funzione del luogo dove i loro utenti usano questi siti e le loro applicazioni. I profitti realizzati sul mercato europeo dovrebbero, quindi, essere tassati e le entrate condivise tra i Paesi membri.

 

In vista dell’IPO, intanto, gli analisti sottolineano che Twitter possa essere indebolita dalla mancanza di brevetti: nel suo portfolio che ne sono, infatti, solo nove, contro i 774 citati da Facebook prima della quotazione. Una ‘carenza’ che riflette la filosofia di Twitter di lasciare a ingegneri e progettatori la proprietà dei brevetti, ma anche per limitare il rischio di contenziosi legali. Una strategia che però secondo alcuni, potrebbe rivelarsi un boomerang, perché i patent permettono agli investitori di quantificare il valore delle innovazioni tecnologiche prodotte da un’azienda. A maggior ragione per il fatto che comunque la società non ha ancora prodotto profitti (Leggi indirizzo Key4biz).

“La mancanza di brevetti è un po’ preoccupante”, ha spiegato un analista.

 

Twitter sta cercando di guadagnare almeno 1 miliardo di dollari dall’IPO e comincerà probabilmente la prossima settimana il roadshow pre-quotazione.

 

Aggiungere brevetti al suo portfolio prima di quotarsi – come ha fatto Facebook acquistandoli da IBM e Microsoft – potrebbe essere una soluzione per aumentare la sua valutazione al momento dello sbarco in Borsa.