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‘E Mozart finì in una fossa comune’. Vizi e virtù del copyright nel nuovo libro di Fabio Macaluso

Italia


Pubblichiamo di seguito un contributo di Fabio Macaluso sui temi del diritto d’autore, argomento al centro del suo libro “E Mozart finì in una fossa comune”, Edizioni Egea, uscito pochi giorni fa in libreria.

 

Ho scritto un libro di pura divulgazione sul diritto d’autore. L’intento è di allargare il numero di coloro che si interessano all’argomento. Il tema del copyright è difatti, prima che giuridico, apertamente culturale: esso è legato al generale svolgimento delle attività creative, sia che venga da un grande pianista classico o da un “graffitaro” che decori l’esterno di un palazzo dei nostri centri storici.  Il lavoro creativo è frutto di processi naturali favoriti da elementi – solo per citarne alcuni – come la presenza nelle città di un numero elevato di soggetti che si scambiano informazioni, l’associazione casuale di idee, o i cambiamenti di paradigmi attraverso cui si portano avanti i differenti generi artistici. Vi è però un altro fattore decisivo per la capacità di realizzare opere dell’ingegno, ovvero il desiderio di ognuno di affermare la paternità di una nuova idea e farla propria. Da questa tendenza naturale scaturisce anche il copyright, che sottopone a protezione non le idee, ma la loro espressione formulata in termini originali. Non sono quindi appropriabili i “mattoncini creativi” fondamentali, ovvero lo stock di idee ricorrenti (l’amore, il dissidio, o la passione politica), su cui si basano tutti gli autori per creare le loro opere.

 

In questo senso, l’esigenza del diritto d’autore è quasi intuitiva. L’opera creativa è legata al suo autore da un vincolo inscindibile. Il libro è del suo scrittore, un brano musicale del suo compositore, il quadro del suo pittore. Quale che sia la circolazione degli esemplari del lavoro, il vincolo originario tra essa e il suo autore rimane intatto. Il copyright attribuisce così al suo titolare diritti morali e patrimoniali, avendo elementi comuni con il diritto di proprietà. Per questo si assume che la funzione tipica del copyright sia quella di attribuire un vantaggio patrimoniale agli autori, che attraverso il premio economico sono incentivati a svolgere le loro attività creative. Seppure tale visione sia oggi fortemente contestata, è indubbio che il lavoro di ideazione delle espressioni sia stato sempre condizionato dai suoi mezzi di finanziamento, che in passato erano in mano a pochi soggetti economicamente e politicamente egemoni. Così, ad esempio, Mozart fu sepolto in una fossa comune nell’indifferenza dei suoi “padroni”, o a Boris Pasternak fu impedito di ritirare il suo premio Nobel nel 1958. La conclusione che si può trarre è che i processi naturali di creazione e la loro incentivazione economica si accompagnano, influenzandosi a vicenda. Nel “brodo primordiale” delle idee è stato inserito un innesto artificiale per agevolare la loro affermazione: perché mai dobbiamo escluderlo?

 

Il copyright risolve difatti quello che in termini economici viene definito come un market failure, che consiste nella impossibilità di restringere naturalmente l’uso di un lavoro creativo da parte di un numero indeterminato di soggetti. Le opere d’autore sono così beni “non escludibili”, perché nell’era digitale il tempo e il costo per realizzare una copia sono trascurabili e la qualità della copia equivale in genere a quella dell’originale. Privo del diritto d’autore, il valore dei lavori creativi sarebbe così ridotto che il loro potenziale produttore non sarebbe economicamente motivato a svolgere il proprio lavoro. Il copyright è dunque un “male necessario” a cui le economie liberali non possono rinunciare.

 

Come si pone la pirateria in questo contesto? Va anzitutto notato che essa non è alla portata di tutti: chi la pratica ha difatti almeno bisogno di un computer e una connessione a internet procurati a pagamento. Il “pirata” deve anche avere qualche risorsa culturale per scegliere di quali contenuti appropriarsi. Così se Amartya Sen in un suo scritto ammette il disvalore del diritto di proprietà quando produce la miseria (potendosi al limite perdonare coloro che rubano per fame), la pirateria è difficilmente scusabile secondo i normali canoni della convivenza sociale. Essa è in ogni caso un fenomeno complesso, che si presta a letture articolate.  Ad esempio, OFCOM ha misurato i comportamenti degli “utenti legali, parzialmente illegali ed esclusivamente illegali”, studiandone comportamenti e attitudini. E’ interessante apprendere che coloro che accedono ai contenuti creativi, sia sottraendoli abusivamente che acquistandoli regolarmente, spendono di più per la fruizione dei contenuti artistici, apportando maggiori sostanze economiche all’industria culturale. Questo dato è certamente indicativo della larga domanda di contenuti legali espressa dal pubblico, che può essere intercettata attraverso gli strumenti che sono offerti dalla rete.

 

Internet non è però ambiente dove si compongono armoniosamente gli interessi dei suoi protagonisti. In questo senso, il noto tema della libertà della rete soffre di un equivoco di fondo. Si tende a confondere la libertà di coloro che utilizzano il web per fare una ricerca, ascoltare una canzone o guardare un video con le capacità degli operatori professionali di internet. La libertà della rete dipende difatti dai soggetti che la gestiscono e amministrano e che attraverso le loro condotte condizionano il suo utilizzo da parte del pubblico. Ora, il mercato di internet è molto concentrato e un numero ristretto di grandi aziende è in grado di condurla secondo le proprie esigenze di mercato. Cionondimeno queste imprese sono immancabilmente dipendenti dalla circolazione dei contenuti digitali. La libertà della rete andrebbe quindi riequilibrata: in un mercato efficiente l’industria culturale, che sostiene tutti gli investimenti per fornire la benzina più pregiata al motore di internet, dovrebbe svolgere con sicurezza il suo ruolo per il proprio vantaggio e per contribuire alla ricchezza della stessa industria della tecnologia.

 

D’altra parte, occorre una profonda riforma del copyright, ormai imposta dalle modalità di distribuzione dei contenuti digitali. Ad esempio, quando inviamo una mail allegando un’immagine dovremmo essere autorizzati dal suo disegnatore o fotografo; oppure, se scambiamo un file con alcuni estratti di un testo letterario avremmo bisogno del consenso del suo scrittore. Ciò ha creato una cultura del controllo molto invasiva, seppur scarsamente efficiente.

 

Ecco dunque alcune delle proposte suggerite nel saggio:

1) Formalizziamo il copyright

Il principio a base di questa proposta, già suggerita da numerosi studiosi statunitensi, è che gli autori dichiarino espressamente la volontà di esercitare il copyright delle proprie opere.  Il sistema del diritto d’autore sarebbe così governato da un meccanismo di opt-in: le opere creative farebbero parte del pubblico dominio tranne che i loro autori non decidano di sottoporre le stesse alla protezione.

2) Riduciamo la durata della protezione

Il termine di durata fissato per il copyright, per la maggior parte delle opere pari a 70 anni oltre la vita dell’autore, equivale sostanzialmente a un diritto perpetuo accordato per lo sfruttamento dei lavori creativi. Ciò non trova giustificazione, tenuto conto che la vita economica media di un’opera d’autore è stimata in poco più di 13 anni.

3) Semplifichiamo le norme

 

Le disposizioni del copyright sono difficili e disperse in più fonti. Questo sistema è favorevole ai soggetti forti delle industrie culturali e della tecnologia, dotati di strumenti e mezzi economici adeguati per svolgere l’interpretazione della legge secondo i loro interessi. Tenuto conto che la legge si applica a chiunque possegga un computer, dai ragazzi che fanno surfing in rete agli artisti che creano usando le tracce presenti in internet, essa dovrebbe essere resa alla portata del suo utilizzatore medio.

 

Le conclusioni del saggio traggono ancora spunto da Amartya Sen dedicato al tema della giustizia. Attraverso un esempio riportato in un suo altro testo, Sen arriva alla conclusione che “chi afferma che se non si riducono tutti i valori a un’unica voce l’uomo non è in grado di decidere cosa fare, sa evidentemente destreggiarsi con il calcolo (“più o meno?”), ma non con il giudizio (“questo è più importante di quello?”)”. Questo vale anche per il copyright, che è un settore giuridico (ed economico) dei più complessi perché coinvolge assetti per cui è difficile tracciare univocamente una scala di precedenze. Ciò non deve condurre all’ambiguità e non esclude che si prenda posizione: in una materia segnata dall’intangibilità dei suoi oggetti è normale nutrire l’etica del dubbio, che spero abbia guidato correttamente il mio lavoro.   

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